p. 08-31 > Il paradosso pentecostale della poesia di Zanzotto

Il paradosso pentecostale della poesia di Zanzotto

Marco Ricciardi

ABSTRACT

Le celebrazioni per il centenario della nascita di Zanzotto (che coincidono con i dieci anni dalla scomparsa) sono un'occasione per tentare un approccio critico 'sintetico' all'opera del poeta di Pieve di Soligo. Una poesia al limite, estrema, che dubita del suo stesso poter essere, al contempo poesia ed 'epistemologia' poetica. Il principale carburante creativo dei suoi versi sembra essere la natura binaria e paradossale con cui Zanzotto interpreta la condizione strutturale dell'esperienza umana, in cui istanze del privato, dell'individuo, del particolare convivono e confliggono con quelle del pubblico, della comunità, dell'universale metafisico. Nella Gestalt di una poesia onnivora e totale convivono, tra alternanza e 'mistici' tentativi di fusione, numerosi correlativi di questo strutturale paradosso: parola e silenzio, caos e cosmo, eros e logos, calore/movimento e paralisi cosmica da zero assoluto, impeto erotico e verginità mistica, estasi e satori, Io e Altro, disgregazione schizofrenica e paranoica unità, dionisiaco e apollineo, informale e formale, ecc. La poesia proprio perché è, quia absurdum, espressione massima di questo paradosso (tra idioletto/originalità espressiva del poeta e aspirazione al riconoscimento universale in una langue 'pentecostale' di una comunità letteraria e umana), sembra essere lo strumento ideale per tentare un percorso 'impossibile' di sintesi.

Celebrating the centenary of Zanzotto’s birth (which coincides with the 1oth anniversary of his death) provides an occasion to attempt a ‘synthetic’ critical approach towards the works of the poet from Pieve di Soligo. His is an extreme poetry that takes you to the limit, which doubts its own ability to exist, being at the same time poetry and poetic ‘epistemology’. The main creative fuel of his verses seems to be the binary and paradoxical nature by what Zanzotto interprets the structural condition of human experience, where the requests of the Private, the Individual and the Particular live together and struggle with the Public, the Community and the metaphysical Universal. In the Gestalt of an omnivorous and totalizing poem, various correlatives of this structural paradox coexist, alternating among each other or merging in an attempt of ‘mystic’ fusion i.e.: word and silence, chaos and cosmos, eros and logos, dynamic heat and cosmic paralysis of absolute zero, erotic impetus and mystic virginity, ecstasy and satori, ego and the other, schizophrenic disintegration and paranoiac unity, Dionysian and Apollonian, informal and formal, etc. Poetry, precisely because it’s, quia absurdum, a complete expression of this paradox (between the poet’s idiolect/expressive originality and the longing for a universal recognition in a ‘Pentecostal’ langue of a human and literary community) seems to be the ideal tool to attempt an ‘impossible’ path to a synthesis.

KEYWORDS

Zanzotto - centenario - poesia - paradosso - pentecostale – termodinamica

Zanzotto – centenary – poetry – paradox – Pentecostal - thermodynamics

Celebrazioni ’frattali’ di un classico

Tutte le celebrazioni letterarie richiedono in qualche modo l’assunzione di un punto di vista grandangolare nei confronti dell’autore oggetto del cronologico rituale culturale. Sono occasioni in cui (ri)valutare, (ri)considerare, (ri)significare, il ruolo che uno scrittore ha assunto nel suo contesto storico-culturale ma, soprattutto, capirne l’entanglement culturale ancora attivo nel presente e le sue fluide evoluzioni diacroniche. Quando la qualità e intensità del segnale rimane elevata a distanza di decenni, secoli, o addirittura millenni, allora ci troviamo senza ombra di dubbio davanti ad un ’classico’. Nel caso di Andrea Zanzotto, 1) andreazanzotto1a soli dieci anni dalla scomparsa, possiamo ormai sicuramente azzardare il giudizio (ed anche il persistente e intenso interesse della critica lo suggerisce) di trovarci almeno di fronte ad un classico del Novecento, richiamando in preliminare analisi a testimoniare, a supporto della nostra tesi, il giudizio contemporaneo ed in vivo del poeta Nobel ’non laureato’ Montale che dopo l’uscita de La Beltà (1968)[1] definì il poeta solighese il «più rilevante della generazione di mezzo»[2] affermazione che Contini interpretò (qualche anno dopo, senza mezzi termini, scavalcando l’eufemismo ermetico del poeta ligure), come «il poeta più importante dopo Montale»[3]. La coincidenza del decennale della scomparsa con il centenario della nascita ammanta poi i rituali celebrativi di un’ulteriore suggestione numerologica, in una sorta di sineddoche frattale-matematica tra il 10 e il 100, tra vita e morte, tra l’uno ’dell’esserci’ e lo zero del ’non esserci’. Corrispondenza che avrebbe sicuramente intrigato poeticamente lo swedenborghiano[4] Zanzotto dei versi ’semiotici’ di Microfilm[5] e che, nel nostro caso, può svolgere il ruolo di vera e propria chiave ’alchemica’ per tentare di accedere alle reti di senso, alla poetica o meglio alle ’micropoetiche’ (termine usato dallo stesso autore in un fondamentale articolo uscito nel 1987)[6] dello scrittore veneto. La poesia di Zanzotto in effetti è, più di altre esperienze coeve, una poesia al limite, estrema, del tutto o niente dello 0 e/o dell’1. Una poesia che dubita del suo stesso poter essere, della sua validità euristico-cognitiva, della sua autenticità ontologica: al contempo poesia ed ‘epistemologia’ poetica. La sua scrittura si mette in moto oscillando tra due poli, attivata da quella differenza di potenziale tra 1 e 0, tra sì e no, tra dicibile e indicibile, tra conscio e inconscio, con l’ambizione di muoversi verso un orizzonte mobile e paradossale di una conciliazione sincronica degli opposti, dello yin e yang di una poetica. Ed è sempre per significativo paradosso che, per trovare una cifra interpretativa sintetica del percorso creativo dello scrittore di Pieve di Soligo (quanto mai d’uopo per una celebrazione, quanto mai impervia per una poesia così densa) partiremo dalla fine, dall’ultima poesia dell’ultima raccolta[7] (Conglomerati, 2009[8]) pubblicata in vita dall'autore. Assieme alle precedenti Meteo (1996)[9] e Sovrimpressioni (2001)[10] fa parte di quella che Stefano dal Bianco ha definito «trilogia dell'oltremondo»[11] tre libri in cui le micropoetiche o «poetiche lampo»[12] agglutinate in diverse modalità e miscelazione nelle raccolte precedenti vengono in qualche modo riproposte in sintesi, o sarebbe meglio dire, appunto, riscritte, sovraesposte, geologicamente stratificate, conglomerate. Ogni strato, ogni sovraimpressione -quasi in un montaggio/post produzione infinito, ogni volta risignificante- ricodifica e illumina da un diverso angolo, apre nuove possibili sinapsi di senso e cambia in progress le meteorologie e le cartografie semantiche. All'interno della trilogia poi, quasi in una mise en abyme frattale, l'ultima raccolta viene quasi fatalmente ad assumere «una valenza testamentaria»[13] di sintesi e risulta più evidente nell'autore l'urgenza di una comunicazione diretta, decriptata, che in qualche punto s'illumina di una claritas prosastico-didascalica poco frequente nel poeta de La Beltà.

I Un paradosso di poetica

I.1 In movimento tra Silenzio e Parola

Proprio l'ultima poesia della raccolta (se si escludono le due 'disperse' inserite in coda scritte negli anni cinquanta) assume un ruolo quasi epigrafico, di ironica confessionale auto-critica:

Parola, silenzio

Siccome un bel tacer non fu mai scritto
un bello scritto non fu mai tacere.
In ogni caso si forma un conflitto
al quale non si può soprassedere

Dell'ossimoro fatta la frittata
-tale fu la richiesta truffaldina-
si diè inizio a una torbida abbuffata
del pro e del contro in allegra manfrina.

Sì parola, sì silenzio: infine assenzio.

L'urgenza comunicativa, il bisogno di un poesia di comunità appare stilisticamente evidente dalla scelta di un ironico italiano 'letterario' medio, e dall'utilizzo della rima alternata e del verso codificato per antonomasia: l'endecasillabo (e l'ipèrmetro finale). In questi pochi versi c'è un po' una cifra auto-intepretativa del rapporto di Zanzotto con la poesia, del senso delle sue ri-cognizioni creative. Scrivere versi per Zanzotto significa prendere coscienza del paradosso di fondo tra la 'perfezione' tautologica del silenzio della chose prima che diventi parole e la necessità, nell'urgenza umana di comunicare la propria idiomatica singolarità biologica, di tradurre/tradire la realtà in simbolo condiviso, mediano e medianico, in linguaggio. 2) ConglomeratiMa se questa contraddizione è consustanziale ad ogni comunicazione umana che passi attraverso un linguaggio, la poesia (ma si potrebbe dire la funzione poetica ‘jakobsoniana’ in generale) ne è l'espressione più emblematica, tanto più lo è quanto più spericolatamente tenta le vie dell'espressione, ossia di nuovi originali rapporti tra significanti e significati. Una poesia funambolica sempre in bilico tra massima espressione creativa del soggetto e il sublime crepaccio del silenzio, dell'idioletto, dell'autismo, come ben esplicita lo stesso Zanzotto a Marco Paolini in una video intervista di inizio millennio:

"Anche nella poesia si corre molto questo pericolo, perché nella poesia c'è addirittura il pericolo, non tanto dell'idioma creato      dal singolo (che già se è creato dal singolo non è più un idioma, è un idioletto). Cioè ognuno è se stesso anche come fenomeno di espressione linguistica. E nella poesia quella che è la connotazione stilistica violenta, che deve avere la poesia proprio perché richiede questa caratterizzazione (stilistica, metrica, tutta particolare altrimenti si dice che uno copia e non è originale), fa sì che uno possa sprofondare in un idioletto, cioè credere di parlare e non parlare più"[14]

La missione della poesia del solighese è nel tentativo di conciliare in qualche modo il paradosso, l'ossimoro, di dover essere al contempo «demotelein, vivere in mezzo al popolo» nelle convenzioni, con il massimo possibile dell'«idiotelein, farsi i fatti propri»,[15] ricreando una convenzione individuale in grado di arricchire i confini del dicibile e dell'episteme collettiva. Tra questi due poli il poeta si è mosso nel tentativo impossibile di raggiungere, attraverso la forza connettiva[16] della poesia, una sorta di impossibile sintesi definitiva («truffaldina»), che qui con filosofica εἰρωνεία diventa «la frittata»[17], oscillando tra i pro e i contro delle due polarità («si diè inizio a una torbida abbuffata/del pro e del contro in allegra manfrina») mantenendo alla fine il paradosso della convivenza impossibile di silenzio e parola attraverso la poesia, qui metonimicamente indicata dall'assenzio, la bevanda dei poeti («Sì parola, sì silenzio: infine assenzio»). La poesia/assenzio, ha un potere psicotropo, è lo strumento con cui il poeta raggiunge alterati stati di coscienza linguistica, quella sorta di trip verbale in grado di cogliere, con improvvisi e sfuggenti lampi epifanici, l'unità del paradosso tra esperienza 'privata' (nel doppio senso di protezione del soggettivo e privazione/ablazione dall'unità originaria) che «sfugge» e il bisogno di (com)unità e di «ritornare»:

"La poesia sfugge, ma come 'se volesse ritornare'. Tenendo presenti questi fatti ci si rende conto che la poesia segna lo spazio per un’alterità, un’alternativa, denuncia qualche cosa che si sottrae in continuazione, perpetuamente, alle predeterminazioni, alle determinazioni “storiche”, pur nascendo nel golfo più profondo, nei seni più oscuri della storicità. Del resto colui che scrive è travolto, almeno quanto tutti gli altri uomini, nella situazione storica, e per di più ha una marcata tendenza ad appiccicarsi specialmente a ciò che è negativo. Ma poi non è detto, non è vero neanche questo, perché in fondo in fondo chi scrive poesia ha sempre anche la vecchia tentazione della felicità, sia pure sotto la specie (infame?) del 'paradiso artificiale', da ottenere via droga - droga verbale. Così se il discorso non appare nitido, non appare chiaro ad una prima lettura, si chiede almeno l’attenuante di una buona fede in chi se ne è fatto tramite, in chi è stato 'parlato', 'attraversato' da questo discorso che è insieme storiografia e trip da droga (per così dire) - che ha insieme questi due aspetti in apparenza così antitetici e invece connessi in una misteriosa radice». (Andrea Zanzotto, 1976)"[18]

È interessante andare ad analizzare in che modo questo paradosso strutturale, questa struttura binaria, con la poesia come tertium di una sintesi mistica sempre interrupta al limite, che gratta ai confini del noumeno, sia diventata cosciente ed elemento centrale nella poesia di Zanzotto ed in che modo sia diventato a nostro avviso, non solo il sostrato ‘filosofico’ dell'audace sperimentalismo linguistico dell'autore, ma anche una cifra interpretativa estremamente fedele dei vari strati tematico/semantici e dei sui 'correlativi oggettivi', stratificati o frattalizzati nella Gestalt di una poesia onnivora e totale, dove convivono tra alternanza e 'mistici' tentativi di fusione, parola e silenzio, caos e cosmo, eros e logos, calore/movimento e paralisi/freddo cosmico da zero assoluto, impeto erotico e verginità mistica, estasi e satori, semiotico e semantico, storia e metafisica, Io e Altro, disgregazione schizofrenica e paranoica unità, dionisiaco e apollineo, formale e informale, ecc.

I.2 L’esplosione del boom economico nell’incanto del paesaggio

La pubblicazione de La Beltà (1968) rappresenta un vero e proprio punto di rottura nel percorso espressivo di Andrea Zanzotto e può essere considerato uno spartiacque tra la sua produzione poetica precedente e quella successiva. La stessa critica riconosce nella raccolta la consacrazione definitiva dell’autore e la sua completa maturazione artistica, al punto che proprio Montale, sulle pagine del “Corriere della sera” vede la statura poetica del solighese «indubbiamente aumentata» dall’uscita del nuovo libro e arriva a definirlo, in virtù soprattutto di quest’ultima e deflagrante performance, l’esponente più rilevante della generazione di poeti a lui successiva[19]. 3) Dietro il paesaggioGli aspetti meno convincenti (almeno per una parte della critica) espressi nelle prime opere sono andati progressivamente trasformandosi fino a guadagnare un nuovo statuto e una nuova funzionale valenza nella poetica dell’autore: in effetti il percorso di maturazione che va dalla pubblicazione di Dietro il paesaggio (1951)[20] a La Beltà (1968) modifica sensibilmente l’etica e l’estetica dei testi zanzottiani e ne trasfigura le forme e i contenuti. Se le prime liriche pubblicate potevano in qualche modo rientrare pacificamente nell’alveo della poesia ermetica degli anni '30-'40 -pur se ampiamente contaminata da elementi eterocliti che ne innovano e movimentano le soluzioni espressive -già in Vocativo[21] il bunker protettivo e iperletterario del linguaggio surrealista-dannunziano sciorinato nella prima raccolta (con l’egida di Montale[22]) subisce i primi severi attacchi. Con la seconda opera pubblicata (se si escludono le poche liriche di Elegia e altri versi[23]) l’apparizione di un Io problematico non più 'occultato' nel paesaggio, centrifugo ed in continua metamorfosi, significa l’inizio di una destrutturazione dei codici letterari e linguistici che porterà ai parossismi sperimentali di alcune delle sue raccolte successive. Con le IX Ecloghe[24] il linguaggio 'autisticamente'[25] letterario delle prime prove ha già irreparabilmente lasciato molti spiragli alle enormi sollecitazioni, provenienti dai più svariati realia linguistici, di una contemporaneità in profondo fermento e comincia ad acquisire quei connotati di plurilinguismo e sperimentalismo che sono caratteristici dello Zanzotto maturo. Ed è propria questa repentina trasformazione del paesaggio antropico, risultato del repentino boom economico tra gli anni '50 e '60, come Zanzotto stesso ricorda nella video-intervista di Paolini, un elemento fondamentale per capire questa lenta ma progressiva trasformazione del verso zanzottiano, e la sopraggiunta impossibilità di lasciarsi pacificamente avvolgere dall'incanto di un paesaggio arcadico e letterario:

"Sì, il problema era quello che la necessità dell'incanto legato al paesaggio rimaneva come una necessità, però il passare del tempo smentiva il fatto che il paesaggio fosse sempre all'altezza del poter produrre questo incanto. Non solo c'era anche tutto il problema dell'assorbimento da parte del paesaggio di tutto il nuovo, anche maligno, che si produceva, e che piano piano si incorporava al paesaggio stesso, diventando per occhi più futuri, qualche cosa di digerito, di ovvio addirittura"[26]

La poesia non può più nascondersi dietro il sublime di un paesaggio arcadico fuori dalla storia deve imparare a metabolizzare e a compostare in versi i corpi estranei e a neutralizzare potenziali neoplasie, attivando nuove e più complesse strategie di immunizzazione verso l'incanto, verso il sublime.

I.3 L'insostenibile natura linguistica dell'io

L'altro elemento fondamentale per capire l'evoluzione stilistica del poeta veneto verso quella che sarà la sua fase creativa più feconda e di assoluto valore è il suo progressivo avvicinamento e approfondimento delle teorie psicoanalitiche in particolare in seguito ad un episodio depressivo manifestatosi all’inizio degli anni ’50. Se i primi approcci con l’analisi lo sconcertano e affascinano per «la connessione che nella psicoanalisi esiste tra cura e parola»[27] sarà l’incontro con le teorie di Jacques Lacan, in cui l’io è ‘prodotto di linguaggio’, a lasciare un segno profondo nel suo immaginario:

"Il trasformarsi di ogni discorso, anzi di tutto in mero significante, anzi in lettera; il sospetto che l’io fosse una produzione grammaticalizzata dell’immaginario, un punto di fuga e non una realtà [...] “L’istanza della lettera”, il risistemarsi dell’onirismo e dei suoi rebus, lo statuto limbico dell’io e lo stravolgimento dell’inconscio diventato linguaggio e anche caricato del simbolico; erano tutti “colpi di realtà” con non potevano essere parati"[28]

4) IX EclogheOrmai è la credibilità del soggetto, la sua stessa consistenza ontologica al di fuori del linguaggio, il suo significato al di fuori del significante, ad essere messa in discussione. Ed è proprio con la raccolta successiva alle IX Ecloghe, La Beltà, che questa consapevolezza acquista una sua maturità stilistica: è il momento in cui il poeta compie il «gesto di rimozione di ogni paratia protettiva - quella della letterarietà come quella della visione a distanza - gesto che scardina la struttura della finzione, compresa quella del personaggio della prima persona e pone il soggetto in presa diretta nei confronti del linguaggio» (Agosti)[29]. L’Io del poeta in altri termini non si serve più del linguaggio come di uno strumento di conoscenza del mondo fenomenico, come mezzo di codificazione dell’esperienza; il soggetto scopre drammaticamente l’inconsistenza della sua natura- che è essenzialmente linguistica e lacanianamente[30] priva di centro gravitazionale - ed è consapevole di potersi ri-conoscere solamente attraverso l’interazione-scontro con il mondo esterno e mediante la verbalizzazione della realtà, o meglio (per esprimerci in termini psicanalitico-lacaniani) dell’Altro.

I.4 Terapia in versi tra paranoia e schizofrenia

Si entra in una sorta di principio di indeterminazione del linguaggio in cui vale il principio per il quale L’Io del poeta oscilla tra due opposte linee di tendenza: strutturarsi attraverso una verbalizzazione progressivamente notomizzatrice del reale, in grado di dare consistenza al soggetto quale supporto, fisico e metafisico, di questa ‘traduzione’ linguistico-simbolica del paesaggio, oppure regredire, da un punto di vista diacronico, diafasico o diastratico, agli stadi più bassi del linguaggio fino al balbettio o al limite estremo dell’afasia alla ricerca della fonte originaria del significato prima che si trasformi in significante. Nel primo caso il soggetto può ambire ad una conoscenza di sé che possiamo definire indiretta, raggiunta attraverso il rispecchiamento dell’Io, struttura di linguaggio, nel paesaggio verbalizzato da quelle stesse strutture. È una conoscenza, ammesso che possa definirsi tale, ottenuta per speculum in enigmate come Bandini perspicacemente afferma[31]citando una celebre frase della lettera di Paolo ai Corinzi. Agosti peraltro ci chiarisce che la nascita del linguaggio secondo le concezioni della psicanalisi, della linguistica e dell’antropologia moderna determina «la Spaltung (la scissione) del Soggetto dalla propria origine indivisa, instaurando nel Soggetto quella ‘mancanza’ che lo costituisce come Soggetto...», e che «...in quanto sistema fondato sulla biunivocità del segno [...] il linguaggio si pone come il luogo stesso della rimozione e dell’occultamento di quella medesima struttura di separazione, garantendo in tal modo al Soggetto le sue possibilità di esistenza e di vita...»[32]. Se d'altro canto per garantirsi una certa consistenza l’Io è costretto a rimuovere l’unità iniziale tra soggetto e oggetto come conseguenza dell’apparizione del linguaggio, sembra abbastanza chiaro che invece, per provare a recuperare una dimensione gnoseologica originaria, un contatto con l'essere autentico, bisogna risalire a ritroso fino al momento iniziale, arrivando all’origine della separazione del senso (univoco) nel dualismo significante-significato nel tentativo di una riconciliazione, magari solo sfiorata, evocata, ecc. Tutto questo attraverso un progressivo oblio dell'istanza del soggetto e delle sue verbalizzazioni, fino potenzialmente alla regressione ad una comunicazione 'analogica' (semiotica, balbettio onomatopeico, dialetto, il linguaggio petel dei bambini, ecc.) e financo ai confini con l'afasia, nel silenzio di una 'mistica' dissoluzione del soggetto. Peraltro la parola, (attraverso l'utilizzo ultra-espressivo, originario e originale, di reinvenzione dei rapporti tra significante e significato che ne fa la poesia), diventa anche in qualche modo (psico)analisi, terapia della parola, esorcismo di due possibili e opposte derive/fughe nel patologico:

"[...]se Freud era l'autocomprendersi della nevrosi, Lacan era l'autocomprendersi della psicosi. Se il primo, più che guarire, aveva giustificato o verbalizzato “la” (sua) nevrosi, il secondo aveva addirittura glorificato “la” (sua) psicosi praticamente insediando un mancamento nel posto dell'Ego, introducendo consistenze da dantesco Cielo della Luna nel punto focale d paradisi dell'io (Io?). Convivevano però all'interno di questo atteggiamento le due divergenti tendenze a una scelta tra schizofrenia e paranoia quale psichismo-psicosi da privilegiare. C'erano le scelte tra due opposti modi di immaginarizzare l'io, che nel suo essere sovvertito, instabile, misero, reggeva peraltro entro se stesso le proiezioni di un inconscio ricco di una vita-violenza duplice: quella di supporto-cloaca di un rimosso originario e quella dell'abbattuto, acherontizzato ordine del simbolico"[33]

Da La Beltà in avanti assistiamo in Zanzotto ad una vera e propria alternanza ed oscillazione tra queste due modalità, tra lo 'schizofrenico' e cinetico babelismo dove gli elementi più disparati si fondono in un incandescente crogiuolo linguistico, e l’indefessa e 'paranoica' attività di pharmakon, stabilizzatori e connettivi, in grado di ridurre il livello di entropia del sistema e di acquietare l’impeto disgregatore dei linguaggi settoriali e idiomatici, nel tentativo di annullare le differenze, le particolarità e di recuperare l'unità iniziale di un super-ordine simbolico, fosse anche un 'micro-ordine' per 'micropoetiche'.
Uno degli strati o micropoetiche più interessanti, pervasive e sovraimpresse (proprio perché durature) nel lavoro del poeta di Pieve di Soligo è quella che trasfigura questo paradosso bipolare sul piano, per così dire, della fisica, o sarebbe meglio dire nella termodinamica, e ne trova un correlativo oggettivo nel cosmico agone tra ordine ed entropia, tra una polarità fredda-statica-ordinatrice e una calda-dinamica-entropica.

II Eu(dis)forie da zero assoluto e la calda entropia dell'eros

II.1 La fredda astrazione connettiva della neve

Le liriche che aprono La Beltà presentano esemplarmente questo nucleo tematico; prendiamo ad esempio in analisi uno dei testi più conosciuti di Zanzotto La perfezione della neve, il secondo della raccolta:

Quante perfezioni,quante
Quante totalità. Pungendo aggiunge.
e poi astrazioni astrificazioni formulazione d’astri
assideramento, attraverso sidera e coelos
assideramenti assimilazioni
[...]

Questo incipit più volte citato come esempio emblematico dello sperimentalismo linguistico zanzottiano, pur mostrando esteriormente le caratteristiche di molta poesia d’avanguardia (uso insistito dell’allitterazione e delle figure fonetiche in generale, giustapposizione di termini normalmente estranei tra loro, pastiche linguistico, certo sconvolgimento sintattico, ecc.) non esalta soltanto il valore fonetico musicale delle parole[34], 5) la beltàovvero la libertà ed il valore estetico del significante, ma si procura di mantenere un’istanza comunicativa, «grazie alla presenza continua di strutture logico-semantiche soggiacenti»[35]. Sono proprio queste strutture soggiacenti, come le definisce Agosti, a renderci particolarmente interessanti questi primi versi, perché ci permettono di approfondire questa concezione 'termodinamica' dell’esperire umano. L’ouverture decisamente deflagrante della poesia accosta termini apparentemente sconnessi tra loro, geminanti da un unico nucleo fonetico centrale (as): astrazioni-astrificazioni, assideramento-sidera e coelus, assideramenti-assimilazioni. Apparentemente ci troviamo di fronte ad un libero gioco di parole, risultato di un approccio istintivo da scrittura automatica, in cui il legame logico sintattico lascia spazio alle qualità musicali della lingua (certo c'è anche questo, la suggestione da 'mantra' onomatopeico, allitterativo, ritmico-musicale, ecc.). In realtà, ad una seconda più approfondita analisi, si rinvengono immediatamente dei legami di senso niente affatto casuali, peraltro ripetutamente riscontrabili altrove nell’opera del poeta solighese. Ad esempio l’accostamento paretimologico di «assideramento»[36] con «sidera» e «coelus» avvicina l’idea di 'freddo' estremo del primo termine con quella di 'universo' (sidera) o di 'spazio superiore' presente negli altri due (senza tentare di richiamare, ovviamente, le altre numerosissime connotazioni attivate nella nostra tradizione culturale da una parola come coelus). In «assideramenti-assimilazioni» l’idea di 'freddo' si aggancia piuttosto a quella di 'forza connettiva' in grado appunto di assimilare, di assumere in sé elementi distinti tra loro. Meno immediata la lettura dell’ultima coppia: il neologismo «astrificazioni» richiama certamente all’universo dove fisicamente nascono e muoiono le stelle. La sostantivazione astratta di un virtuale composto di ficio (astrificare) porta con sé altre suggestioni, come, ad esempio, l’idea di una geminazione incontrollata di astri in una sorta di cristallizzazione minerale dell’universo, nella quale le stelle svolgano più o meno il ruolo coesivo che nel diamante spetta al carbonio. Questa sorta di 'cristallizzazione cosmica' viene accostata al concetto di astrazione, che, notoriamente, è «il procedimento mediante il quale si ricavano concetti generali traendoli da oggetti ed elementi particolari»[37]. Astrarre significa essere in grado di cogliere nei fenomeni gli aspetti unificanti, di connessione piuttosto che di separazione, di universalità piuttosto che di contingenza. Per la proprietà transitiva potremmo dunque concludere che Zanzotto accosta, in virtù della comune capacità di creare coesione e di ridurre in qualche modo il livello di entropia, il concetto di 'freddo'[38] a quello di 'astrazione'; inoltre questi due elementi acquistano un’ulteriore patente di universalità cosmologica proprio in virtù della relazione con termini quali «astrificazioni», «sidera», «coelus». Questi primi cinque versi apparentemente criptici ci danno invece una chiave di ingresso per entrare in un nucleo tematico ricorrente nella poesia di Zanzotto - soprattutto a partire da La Beltà - nucleo che nelle sue proteiformi espressioni arriva sostanzialmente intatto fino alle ultime due raccolte edite in vita dall'autore (Sovrimpressioni e Conglomerati). Si tratta di una «micropoetica che è valsa come asse di equilibrio»[39] e che gode evidentemente di notevole longevità nell’universo creativo del poeta, fatto facilmente evidenziato dalla centralità che occupa ancora nelle ultime realizzazioni. Spesso la neve rappresenta la manifestazione metonimica di questa polarità fredda, coesivo-terapeutica:

[...]

ed è, tutto, colmo calice di nivale dolcezza
di nivale attitudine ad appianare, sanare»
[...]

da Ligonàs (Sovrimpressioni)
oppure sempre nella raccolta Sovrimpressioni, in Dieci sotto zero e rosa:
Ah dolcissime nevi color rosa-petalo
petalo d’alba glaciale
[...]
Rendevate le care e bene adagiate mamme montane
iperbolicamente libere, anche da se stesse
come da ogni natura-congettura
a portata di mano pur se alla vista immatura
[...]

Sono due brevi esempi che confermano e aiutano a chiarire in che modo questo nucleo centrale incontri diverse espressioni poetiche. Nel primo caso la neve svolge un vero e proprio ruolo di pharmakon, in grado di stemperare, di appianare appunto, i contrasti e le disarmonie del paesaggio. Aspetto visivo (omogeneità del paesaggio innevato) ed esistenziale vengono poeticamente fatti coincidere e rappresentano uno stato del mondo o meglio della coscienza, in cui le istanze separatorie della distinzione vengono ridotte a livelli minimi dalla dimensione di paralisi termica imposta dalla neve, con valenza quasi (psico)terapeutica. Quello che infatti è relativamente sottinteso nel primo brano acquisisce connotazioni fortemente filosofiche nel secondo, in cui le montagne, in virtù della neve, vengono liberate addirittura da «se stesse», cioè dall’obbligo di ostentare la propria contingenza, il proprio hic et nunc, che, pur essendo «a portata di mano», è sempre espressione di un'inautenticità. In questa sorta di dualismo c’è indubbiamente qualcosa di platonico, di decisamente idealistico - pensiamo ad esempio alla «fonte dei messaggi»[40] di iperuraniche suggestioni - eppure possiamo considerare questo dualismo zanzottiano (di niente affatto pacifica assunzione) un sistema in continuo rimescolamento, i cui confini vengono continuamente indagati e le cui connotazioni possono invertire le polarità da positive a negative e viceversa.

II.2 Euforie da zero assoluto

Le prime liriche della raccolta Sovrimpressioni rappresentano indubbiamente un vero e proprio compendio in versi, utile per approfondire quelle che sono le caratteristiche della polarità ’fredda’ nella poesia dell’autore e danno inoltre l’impressione di operare in direzione di una vera e propria sintesi conclusiva, ormai (quasi) pacificamente assunta come una delle ultime tappe di un percorso alla ricerca del contatto ’impossibile’ con la dimensione ’altra’ (il tema verrà ripreso, con ulteriori connotazioni, ma meno centralità anche nell’ultima Conglomerati, dove il poeta è più concentrato su un piano biologico e comunitario della comunicazione). In particolare la serie di poesie che ha come denominatore tematico comune la descrizione del ’giorno della merla’ (il 31 gennaio tradizionalmente fatto coincidere con l’apice del rigore invernale), ci permette di aggiungere decisivi tasselli ermeneutici. I sei capitoli delle Sere del dì di festa sono appunto una sorta di campionario/epitome sulla ’termodinamica’ dell’io inaugurata dall’autore con La Beltà e testimoniano l’avvenuta presa di coscienza riguardo ai limiti della poesia e dell’esperienza umana. Al contempo ‘l ’omertà del paesaggio’ sembra essere accettata con maggiore serenità e il poeta arriva di fatto a considerarla quale condizione strutturale, protettiva ed autoprotettiva della realtà. È una Natura «onnipotente» che «non tradisce» il suo senso ultimo, e mantiene il ’sovrumano’ segreto soltanto per dirimere «l’idea stessa di trauma»[41] per non annichilire, disintegrare il soggetto in un contatto antimaterico; tutto questo però nella consapevolezza che soltanto attraverso il dissolvimento dell’Io nella Sera/Logos/Beltà, e della sua contestuale «perdita» nell’oblio di una «purissima immemore autoctonia del gelo», sarebbe consentito di esprimere appieno quell’«attitudine matta alla gioia» altrimenti interdetta dal dualismo strutturale del sistema.
Andiamo dunque ad analizzare alcuni capitoli delle Sere del dì di festa iniziando naturalmente dal primo che qui riproponiamo quasi integralmente:

(E’ un puro autosufficiente luogo letterario
è una purezza che non chiede avalli
è un avallo ad un acme dello stesso richiedere
E’ dei/in avvento/in fuga/in disguido/
                     in eterno ritorno al nido)

Tutti gli dèi del 31 gennaio
si sono qui in un attimo affollati
qui nelle estreme
luci, strascichi, forze del 31 gennaio-
gli dèi e ciò che è ostile agli dei
Noi non-dei c’intagliamo
a questi diktat leggi ed eserciti
          di beltà invincibilmente candide
           attonite a sé
          da se stesse distratte
          traenti doni di inenarrabilità nel narrare
          tutta la loro ridesta
          fragranza doglia e voglia di sera-festa
[…]
TUTTO SI APRE A SBARAGLIO          di luci-lotte
  rupi di glacialità si varano da sé esaltate:
      ovunque, senza riparo, senza stasi-tregua
            dolcissima durissima voluttà epifanica
                emarginante-corri corri- o già essa è margine
                   con noi marginali non magnanimi distimici tipi,
                       ma forse, un poco,
                            soffiati in infilate nivali di fati.

È un testo dalla densità ’teoretica’ altissima, che ripropone alcuni nuclei storici di poetica dell’autore, ma con una tendenza spiccata ad un eloquio meno criptico, a tratti quasi argomentativo, che non rinuncia tuttavia ai virtuosismi retorici e agli 'effetti speciali' del linguaggio tanto cari a Zanzotto. L’attacco del brano è emblematico nel toccare una tematica così centrale nell’autore e che rievoca suggestioni e soluzioni espressive sperimentate soprattutto nelle prime raccolte pubblicate. Non senza cognizione di causa, infatti, Zanzotto accosta la dimensione autosufficiente dell'altrove metafisico, qui rappresentato metonimicamente dal 'giorno della merla', all’indipendente autoreferenzialità del 'cosmo' letterario, vero e proprio locus amoenus del linguaggio. L’idea che la letteratura e la poesia siano in grado di generare una rete di senso alternativa al mondo fenomenico e di riprodurre una condizione di armonia virtuale e di benigno decongestionamento dal caustico non sense del Reale, è presente nella riflessione creativa del poeta solighese fin dagli esordi di Dietro il paesaggio[42]. 6) SovraimpressioniNelle prime raccolte questa constatazione si traduce nel tentativo di 'risanare' in qualche modo il paesaggio somministrandogli i nobilitanti e 'ricostituenti' codici di un verso letterariamente densissimo, debitore da un punto di vista stilistico e lessicale soprattutto della tradizione ermetica e del surrealismo senza naturalmente dimenticare l’importanza dell’apporto di autori 'classici': da Holderlin a Leopardi[43] passando per il 'venerato' Virgilio delle egloghe solo per citare alcuni tra i riferimenti più importanti. È un'operazione che ha come aspirazione più alta la ricomposizione di una ideale 'egloga IV'[44] e per raggiungere un obiettivo di così ampio cabotaggio in quella prima fase lo strumento più adatto sembrava essere il linguaggio letterario, con il suo particolare slang e le sue 'strizzatine d’occhio' interne che trovano nel confronto con la tradizione il pretesto per l’attivazione di una fittissima rete di connessioni semantiche. È un modus operandi che in qualche modo regge alle sollecitazioni esterne fino alle IX Egloghe; in seguito una pressione linguistica destabilizzante, proveniente dalla civiltà dei consumi e dal brulichio dei linguaggi settoriali in ipertrofica espansione, irrompe con deflagrante impeto all’interno del verso zanzottiano, costringendo il poeta ad un 'riordinamento' del sistema, le cui variabili in gioco, ormai in continuo vorticoso 'turn-over', aumentano esponenzialmente il livello di un'entropia a mala pena arginata dalle forze 'ordinatrici' della poesia. Ad ogni modo lo scopo del versificare rimane, anche dopo La Beltà, quello di ricomporre (anche a costo di abbassare il tono e l’oggetto dell’analisi poetica fino agli aspetti più purulenti dell’attualità storica) lo spazio sensato e rassicurante di una 'ideale' egloga, percepita però ormai come impossibile. Quello di Zanzotto sarà allora sempre un tendere a, un movimento di fuga verso un orizzonte espressivo in continuo scivolamento, trasportato da un vettore-poesia ormai definitivamente 'impuro'.

Risulta molto più chiaro adesso sulla scorta di queste valutazioni perché proprio la dimensione assoluta, «inenarrabile» dell'altrove, coincida con quella di un luogo letterario assolutamente «puro», con il punto di contatto fra la chose e la parole fra «le serie» del significante e del significato: è una dimensione nella quale ogni idiomaticità viene assorbita in un ecumenico linguaggio 'pentecostale'[45].

Queste 'beltà' «invincibilmente candide» pur essendo «da se stesse distratte» cioè in una condizione di sostanziale autonomia/separazione dal mondo fenomenico impongono al soggetto di 'intagliarsi' ai loro «diktat», svolgendo il ruolo, per così dire, di imperativi categorici kantiani. Rimane in qualche modo sempre viva la speranza che la dimensione ’biologica’ umana e quella ’glaciale’ delle beltà possano, forse indirettamente, magari attraverso la benigna ’freddezza’ del linguaggio poetico, venire in qualche modo in contatto, partendo peraltro dalla considerazione che gli uomini sono sì, destinati a rimanere «marginali» rispetto alla Verità inattingibile della dimensione ’altra’, ma che pure possiedono, «forse», la caratteristica di essere costituiti (anche se soltanto «un poco») dalla stessa materia prima del Logos (nell’accezione che acquisirà questo termine soprattutto in Fosfeni[46]): la neve («ma forse un poco/ soffiati in infilate nivali di fati»).
Il secondo capitolo della poesia può essere considerato una sorta di cosmogonia ’allucinata’ in cui si approfondisce la topologia iperuranica dello zero assoluto, ma in cui soprattutto il poeta descrive, in toni quasi noir, il momento in cui le beltà scivolano dalla dimensione atemporale ’altra’ a quella hic et nunc dello spazio-tempo, con la contestuale generazione, appunto, del mondo fenomenico. Ecco un’ampia selezione del brano:

31-1: sera che non è sera di nulla,
            non v’è nulla nel suo tutto,che si chiami sera.

           Sera che scende da se stessa come
                purissima immemore autoctonia del gelo.

           Sera che è festa di tratti unicizzanti
                hapax di unicità qui implicate
                per orrore errore splendore 31-1, e poi
               dannata euforia di guerriglie del gelo.

           Sera del dì di festa: e ogni vana, infine,
                voluttà in lei ristagna
                e poi rimbalza e scivola
                e ogni grido-bisbiglio precipita
                in luce umana scavata dentro vetri
                in cui Beltà chances frammenti già ipèrmetri
                sotto ogni grado zero
                sotto la cuspide 31-1
               vibrano allucinano.

           Sera che non vuole, anche se onnipotente,
                che abbandonaccantona     futuro e passato
                e pur nega il presente          ma
                sera che non tradisce,sparge
                duri perdoni, durissime consolazioni,
                lacrime gloriosamente
                                                      folli-fossili.

           […]

La sera, che è manifestazione diretta della dimensione altra, non può naturalmente essere l’espressione ’tardiva’ di nulla (Zanzotto gioca semanticamente con la radice etimologica del termine ’sera’ che deriva dall’aggettivo latino serus=tardo) visto che la sua condizione ontologica è del tutto atemporale. Allo stesso modo vengono ribadite altre sue qualità quali la purezza («purissima»), l’amnesia-oblio di ogni dinamica fisica («immemore»), l’indipendenza/autoreferenzialità («autoctonia) e la glacialità («gelo»). La sera è inoltre il luogo dove i «tratti unicizzanti», che altro non sembrano se non idee-matrici dalle suggestioni platoniche, esistono allo stato puro e sono i protagonisti di quella «festa» dell’Essere «hapax»[47] che si esprime attraverso una «euforia» da paralisi termodinamica. Dal verso 9 al verso 17 Zanzotto ci descrive in maniera poeticamente suggestiva come da questa dimensione atemporale dove ogni istanza della ’carne’ viene inibita («ogni vana [...] voluttà, ristagna») «beltà-chances» scivolino, come per oscillazione ’quantistica’, nel mondo fenomenico («sotto ogni grado zero») incarnandosi nella fisicità di una consistenza biologica («di una luce umana»), come in una ’clonazione’ imperfetta del modello iperuranico («frammenti già ipèrmetri»).
È, questa, una fenomenologia dell’essere di stampo indubbiamente idealistico che spesso nella weltanschauung dell’autore assume il ruolo di protagonista, in concorrenza peraltro con l’altra polarità, quella, per così dire, ’esistenzialistica’ ed ‘heideggeriana’, che in altre fasi ottiene il sopravvento nei versi del poeta veneto. Vero e proprio porto di approdo nella traversata noetica dell’autore è il cambio di atteggiamento rispetto ad una cosiddetta ’omertà del paesaggio’, interpretata ormai in chiave più positiva quale meccanismo protettivo insito in natura, necessario a garantire una certa consistenza al soggetto e ad evitare il trauma di un corto circuito con una dimensione ’altra’, dai voltaggi decisamente insostenibili per i «relais» della psiche umana[48]. Per questo stesso principio la sera non arriverà mai a tradire il suo segreto così come pure il paesaggio continuerà per sempre a eludere «l’idea stessa di trauma[49], ed a difendere «le dolci tane del senso»[50] dall’umana autodistruttiva «cupidità di disgregazione e torsione»[51]. Ad ogni modo come abbiamo già detto Zanzotto non esclude del tutto un contatto con ’l’intimità’ del senso ma questa dovrà essere raggiunta soltanto con «mitezza» attraverso concessioni epifaniche ottenute in uno stato di semincoscienza («in reciproco scambio di sonni amori e sensi»)[52], o meglio di una alterazione della coscienza da “trip” poetico-verbale[53].

II.3 -273°

Se in alcune raccolte, dove questa poetica del freddo è rilevante ed è emblematica di una fase di ricerca concentrata massimamente sulle altezze metafisiche dell’astrazione incontaminata (le vette più alte di questo percorso si raggiungono probabilmente in alcune liriche de La Beltà, di Fosfeni e di Sovrimpressioni) in altre raccolte il poeta propende di più per un linguaggio biologico, di conservazione del soggetto, di comunità, contaminato, in cui l’aspetto di condivisione, ’pedagogico’ diventa fondamentale. In questa modalità spesso questa polarità fredda assume, al contrario, connotazioni mortifere, di annichilimento del soggetto, anti biologiche: in Feria sexta in parasceve (in Pasque) troviamo una delle sue espressioni più scoperte, quasi fuor di metafora:

…....e come rimonterai gli strapiombi
della                  della tua tomba
tu ormai verso i -273
tutta arsa dal tranfert per ghiaccio e guano?
Una testa di cane ti abbaia, morta, il momento d’oro;
un cane testardo rotea fiuta adocchia
e alza la gamba al cippo del tuo memento.
Adoralo, orsù,
dei cari gatti dimentica la tribù.

La feria sexta è il venerdì santo. È il giorno in cui Cristo muore sulla croce, e simboleggia il momentaneo trionfo della morte sul dio che si è fatto uomo. Zanzotto interpreta questo momento come un punto di stasi, di paralisi termodinamica della natura-beltà, così vicina ai -273° dello zero assoluto da essere «tutta arsa per ghiaccio e per guano». Il dio egiziano Anubi l’accompagnatore di anime della mitologia egizia con corpo di uomo e testa di sciacallo «abbaia» alla natura il suo momento d’oro: la morte-stasi molecolare, pedice delle dinamiche energetiche. È evidente come, a differenza di quanto accade in molti altri contesti, la polarità fredda si carichi di un’accezione insolitamente negativa, si potrebbe dire degradata («tutta arsa dal transfert per ghiaccio e per guano»). È un’interpretazione necessaria al percorso contingente del poeta-pedagogo obbligato dalle sue funzioni sociali ad un rafforzamento dell’istinto di conservazione del soggetto, e ad un rigetto momentaneo delle tentazioni misticheggianti e annullatrici da nirvana freddo per l’accoglimento di più ’socializzabili’ istanze di sopravvivenza biologica. Esigenze perfettamente confermate nella Variante della stessa poesia in cui questo temuto ’trapasso’ negli sprofondi cosmici o atomici dello zero assoluto da parte della natura-beltà sta per esser definitivamente condotto a termine tra lo sdegno e il sarcasmo del poeta:

…….e come ti abbaieranno le campane
che si tratta di un risveglio tutto fratture
                   stritolamenti
profondi da non esserci più?
Tu col fluido furioso delle chiome ti strangoli
Al décor semitragico d’orzi al biondospento
Al nereggiante di papaveri.
Oh infine, il tuo giacere eroico, di gradino:
                    sull’ultimo gradino.
“Sono una liberata”. Che stufi
t’insegnerà mutolo anubi?

Il risveglio nella dimensione ipergravitazionale da ’zero assoluto’ comporta uno ’stritolamento’ del corpo e dei sensi causata dall’opprimente onnipresenza di un Senso dalla densità atomica tendente a infinito, in grado di annichilire ed assumere ogni elemento del reale con il quale viene a contatto, con le stesse modalità con le quali un buco nero deformerebbe prima e disintegrerebbe poi qualsiasi particella di materia capitata nelle vicinanze. Una dimensione in cui ci si risveglia con le campane che «abbaiano» in ipallage per il dio Anubi e per entrare nella quale inevitabilmente si temporeggia eroicamente «sull’ultimo gradino», sulla soglia-crepaccio di un «ricchissimo nihil»[54]

7) PasqueDal Bianco interpreta l’affermata liberazione della natura-beltà come un’emancipazione di questa dal «transfert per ghiaccio e guano» attivo nella poesia precedente; una liberazione’ che rappresenta forse proprio ’l’estrema conseguenza’ di questo transfert, cioè la totale fusione con la dimensione glaciale e annichilente del Logos/ Altro/ Antimateria che libera la natura (o il soggetto, come polisemicamente lascia intendere la poesia) dalle contingenze di una esistenza hic et nunc cioè dalla ’vita’ propriamente detta. È questa, ovviamente, una soluzione inaccettabile in chiave ‘pedagogica’, ed il poeta, allo stato attuale, non può che respingerla con sdegno formulando una domanda emblematica:«che stufi/ t’insegnerà mutolo Anubi?». In questa dimensione ‘altra’ non può svilupparsi nessun tipo di pedagogia e neppure, a rigore, nessun tipo di comunicazione visto che l’universo da -273° nel quale si viene introdotti e presieduto dal «mutolo Anubi».

 

 

 

 

 

II.4 La calda entropia dell’eros

Torniamo a La perfezione della neve, la seconda lirica della raccolta La Beltà. Come abbiamo visto il suo incipit particolarmente deflagrante, può essere considerato il biglietto da visita stilistico del nuovo corso dell’autore essendovi concentrato in pochi versi quello che è il core del sistema ’termodinamico’ attivato da Zanzotto nella sua indagine poetico-filosofica. Pure nella quarantina di versi successivi si condensano in uno spazio relativamente ridotto tutta una serie di nuclei di poetica o micropoetiche che poi si ripresenteranno puntualmente nelle raccolte a venire con numerosissime variazioni, dando a questa poesia lo statuto di vera e propria introduzione tematica a quelli che saranno alcuni tra i principali centri d’interesse e d’indagine nella poesia dell’autore da qui in avanti. Prendiamo in esame, ad esempio alcuni versi particolarmente interessanti per un approfondimento del nucleo “caldo-dinamico”:

[...]
E la tua consolazione insolazione e la mia, frutto
di quest’inverno, allenate, alleate,
sui vertici vitrei del sempre, sui margini nevati
del mai-mai-non-lasciai-andare,
e la stella che brucia nel suo riccio
e la castagna tratta dal ghiaccio
e – tutto – e tutto eros, tutto-lib. libertà nel laccio
nell’abbraccio mi sta: ci sta,
ci sta all’invito, sta nel programma, nella faccenda.
[...]

La vita biologica così come l’energia che è alla base delle dinamiche dell’universo, sono il prodotto di una «insolazione» ovvero di un irraggiamento di calore che è elemento essenziale di un’esistenza che ha dovuto, per imporsi, sopravvivere ai «vertici vitrei del sempre» e sfuggire all’assideramento-paralisi della dimensione altra rimanendo peraltro sempre ai «margini nevati» di quel 'buco-nero' iperuranico, dal quale nessun 'messaggio' è stato mai in grado di uscire («del mai-mai-non-lasciai-andare»). Questa forza resistente che permette alla stella di bruciare «nel suo riccio» e alla castagna di nascere «dal ghiaccio» non è altro che l’Eros, l’energia dionisiaca che permea l’universo in tutte le sue manifestazioni dinamiche ed esalta il 'furore' creativo della natura. Questa sorta di 'libido cosmica' probabilmente non è altro che l’essenza di una vita «di cui non si può nulla» sulla quale non si possono d’altronde neppure avanzare delle ipotesi fondate e definitive ma con la quale si potrà al massimo instaurare un dialogo sempre sulla soglia, nel quale però la qualità della comunicazione risentirà sempre di una linea 'telefonica' precaria, strutturalmente destinata a saltare: «Pronto. A chi parlo? Riallacciare».

II.5 Epifanie erotiche e infibulazioni

In molte liriche della «trilogia dell'oltremondo»[55] (Meteo, Sovrimpressioni, Conglomerati) ci troviamo di fronte al tentativo di cogliere-soprattutto attraverso gli aspetti singolari, più conturbanti del paesaggio- i segnali di 'senso' sfuggiti alle «caine invernali»[56], alla «fonte dei messaggi»[57]. In effetti la manifestazione sensibile del mondo fenomenico che all’osservazione del poeta sembra essere solo una 'patinata' e 'biaccata'[58] espressione della sostanza delle cose, solo a tratti acquista un’intensità ed una valenza rivelatrice che permette al soggetto un qualche contatto con la dimensione 'altra'. In questi punti di accumulazione, come per un’improvvisa concentrazione, o come attraverso uno spiraglio improvvisamente aperto tra un inconoscibile al di là ed un posticcio inautentico ma dinamico al di qua, la natura elargisce -complice la piacevolezza o la conturbante attrattiva di qualche sua singolare manifestazione- dei veri e propri momenti di rivelazione, di 'eccitante' epifania che, in queste ultime raccolte, assume la forma di un vera cromatografia psichedelica: spesso questo trip visivo è attivato dall'apparizione di fiori e piante i cui nomi, e i cui colori- quasi fossero diversi stati e strati della coscienza- tornano a più riprese e con nuove variazioni fenomenologiche nelle tre raccolte (i topinambur, le rose canine, la vitalbe, i papaveri, ecc.). Potremmo affermare kantianamente che l’esperienza estetica che il poeta sperimenta utilizzando come medium la poesia ed il suo contestuale rapporto con il bello (in questo caso soprattutto con il sublime) gli permette di 'collaudare'[59] l'esperienza con il reale, di cogliere gli indizi che possano confermare la sensatezza di ogni esperienza gnoseologica[60].
8) MeteoNella trilogia dell'oltremondo gli elementi del paesaggio svolgono spesso il ruolo di catalizzatori, di manifestazioni improvvise dell’intimità della natura, in un richiamo ai sensi del poeta dalle connotazioni chiaramente 'erotiche'. Una delle poesie più significative nell’esprimere queste suggestioni è senza dubbio Spine, cinorrodi, fibule (Sovrimpressioni), in cui i fiori, le piante, i colori assumono delle connotazioni sensuali quando non addirittura 'pornografiche”:

[...]

        - esplosa ampiezza in
        corone di cinorrodi-coralli
        eppure stento confinato
        in una nicchia cruda dell’inverno
oh oh mille fruttazioni impudicamente
        etereamente/pornolalicamente
                ROSSE
        di rosecanine, carminio accanito
        in forze clitoridiache
       urticanti/eleganti
  [...]

Quelle che resistono alla glacialità e all’intransigenza dell’inverno sono vere e proprie immagini 'oscene' sfuggite alla censura delle «caine invernali»[61] che mostrano, svelandola, la natura più 'intima' del paesaggio. Sono proprio queste sopravvissute espressioni di un eros primordiale a permettere al Soggetto di non essere neutralizzato da un «nulla biaccato», di sfuggire all’informe frigidità di un mondo 'cartapatinato' («ci sfila/ da cartepatinate, da biacche di pornofoto-riviste/ arse di spine»). Il raggiungimento completo della verità rimane probabilmente interdetto per sempre nella dimensione inautentica del mondo fenomenico, eppure queste esperienze rivelatrici permettono al poeta di 'suggere' dalla dimensione del senso, anche se soltanto in piccole dosi, umanamente tollerabili. È un’operazione che non può non essere conturbante (anche in termini psicanalitico-freudiani di unheimliche[62]) e in cui attrazione e repulsione convivono strettamente intrecciate tra loro («o semplicissimo horror-amore o chissà che altro-»). Le rose canine con la loro palpitante vitalità cromatica sono veri e propri «Geyser d’eros» dal colore rosso di un «sangue rappreso in assalti». Sono «singole, singolarissime, sacratissime,/ingenuissime rivelazioni» sfuggite miracolosamente ai «deliri d’infibulazione/ intollerabili del gelo». Ci troviamo di fronte ad un agone termodinamico tra la polarità fredda, immutabile, 'castrante' del gelo e quella calda, in cui l’erotismo e la sensualità delle forze vitali cercano di 'essere' e di esprimersi sfuggendo in qualche modo alle 'infibulazioni' ed alla censura sul messaggio (erotico-noetico) operata dalla dimensione 'fredda'. In termini psicoanalitici potremmo tradurre questa considerazione su un altro piano semantico: il rapporto del soggetto con il mondo esterno, essenzialmente disforico a causa dell’opacità 'superficiale' del paesaggio (nel suo sostanziale 'non dir nulla' e nella sostanziale omertà che gli è caratteristica), si riattiva e si ricarica energeticamente proprio in virtù di queste speciali 'erotiche' apparizioni, le quali, riattivando la libido depressa del soggetto, ne riaccendono contestualmente le forze vitali. Ad ogni modo «la feroce rossezza» delle rose canine diventa l’emblema di una vita ostinata ad esserci caparbiamente intenta a salvaguardare la propria «purissima libertà» dalle forze repressive ed omologanti del gelo, è grido autoaffermativo di «rossoarrabbiate entità», «contro l’inverno che scrive/le proprie sorde/furbe, squillanti/squallide avventure». Ci troviamo di fronte ad uno Zanzotto che si fa portavoce delle istanze biologiche della natura, nelle sue singole 'feroci' espressioni, dal cieco impeto vitale che si incarna nello 'sfacciato' rossore delle rose canine, all’acre 'tutelante' aggressività degli spinosi rovi. Questa scelta di posizione diviene in un certo senso complementare a quella, esattamente opposta, intrapresa dall’autore in molte delle sue realizzazioni poetiche. È come se Zanzotto oscillasse continuamente tra i due opposti poli della sua poetica: quello freddo, espressione di una poesia che punta alla Verità assoluta nell’oblio della contingenza e della fisicità del soggetto e quello caldo, manifestazione/esaltazione della cieca volontà di nascita, di sopravvivenza e di espressione, di ogni forma di vita per quanto minimale. I versi finali della poesia stanno lì a testimoniare la perentorietà (anche se solo momentanea) della scelta di campo:

[...]
arbusti di rosacanina,hiemalizzate
miriadi corse in sù, più in sù
del niente più biaccato,più patinato,
benedizione
benedizioni
contro ogni infibulazione.

Per sfuggire al «niente più biaccato», per venire al mondo mantenendo la sua esuberante, 'provocante' vitalità, le forze della natura devono essere «quasi vaccinate ad essere inverno»[63], cioè essere in grado di sopravvivere all’assiderante, paralizzante gelo della dimensione 'altra' da cui provengono e dalla quale sfuggono per emergere nel mondo fenomenico quali 'benedizioni' e 'rivelazioni' contro ogni castrazione erotico-noetica («contro ogni infibulazione»).

III L'ordine formale della retorica vs l'informale mondo 'horeb'

III.1 Il fascino connettivo della retorica

Nella poesia Retorica su: lo sbandamento, il principio “resistenza” (ne La Beltà) l’autore affronta il rapporto problematico che si instaura tra la natura retorico-ordinatrice della poesia e 'l’igneo' spirito di un mondo interpretato quale immenso «horeb»[64], come rivelazione ed epifania perenne dell’Essere. Il poeta si chiede problematicamente se nella sua 'rappresentazione' poetica debba mai scavalcare quello che è il sottile confine tra una riorganizzazione retorica del continuum fenomenologico e una riproduzione ''informale del caotico esperire dei sensi: «oh retorico amore/opera-fascino. Non saltare e saltare al di là di questo cerchio/non promuoversi e promuoversi oltre». Sembra che Zanzotto prenda coscienza dell’impossibilità di fare poesia al di fuori della forza connettiva, 'fascinosa', di una strutturazione retorica, unica in grado di tradurre in versi la combustione/conversazione della realtà: «ardeva il fascino e la realtà/conversando convergendo/ horeb ardevi tutto d’arbusti/ tutto arbusto horeb il mondo ardeva». Ma il poeta rimane perfettamente cosciente che la traduzione poetico-retorica della realtà rischia di essere nient’altro che un tradimento-superfetazione del messaggio autentico espresso dalle epifanie del paesaggio, tradimento tanto più profondo quanto più il poeta si sforza di cogliere ’misticamente’ quella «sola parola», quel Verbo in grado di assumere e decodificare l’intero cosmo. Gli effetti del conflitto che si consuma inevitabilmente nel poeta su un piano per così dire, epistemologico, si riflettono chiaramente nei versi successivi nei quali l’unità del punto di vista di un io a ’tutto tondo’ lascia il posto ad una vera e propria ’spaccatura’ del soggetto in due distinti livelli di coscienza: uno entusiasticamente disposto alla formalizzazione del reale, l’altro drammaticamente cosciente del carattere surrettizio di ogni operazione retorica[65]:

[...]
e aveva una sola parola
(non è vero, no,
questa espressione è la punta di diamante
del retorizzamento, lo scolice della
sacramentale contraddizione,
ma vedi come ne sono...)
male ascoltata
bene ascoltata
una sola parola che diceva
e diceva il dire
e diceva il che. E. Congiungere. Con.
[...]

9) Zanzotto MeridianoAd un certo livello di coscienza il poeta si auspica il ritorno di una parola rivelatrice, poeticamente ’sacra’, in grado di orientare e di guidare la comunità il ’noi’ e di ricomporre l’io in una comprensibile unità. Per fare questo sarebbe necessario il ritorno ad una poesia ’classica’ in         grado di fondere tradizione e contemporaneità (Holderlin) e ad una dimensione noetica se vogliamo di ridotto cabotaggio, ma di una efficacia operativa degna di una brigata ’partigiana’ («battaglione lepre, brigata coniglio,/ all’assalto»). Sembra essere arrivato il momento in cui il poeta decide di impegnarsi definitivamente nella realizzazione dell’«opus maxime oratorium», ma in realtà il dubbio profondo nella bontà e nella fattibilità di questa operazione rimangono ben vivi nel super-io ‘nietzscheano’ del soggetto che, infatti, è costretto ancora a porsi delle domande, senza peraltro essere in grado di darsi una risposta definitiva: «Si? Nel fascino tutto conversa converge?» Il poeta è costretto a chiedersi se il fascino della retorica e delle strutture del linguaggio siano sufficienti a riordinare benignamente l’informe e totalizzante ierofania di un mondo ’horeb’, in cui ogni minima componente del paesaggio acquista una valenza rivelativa. È una domanda destinata ovviamente a non ottenere mai una risposta conclusiva, tant’è che la ricerca poetica dell’autore trova, proprio in virtù di questa irrisolta questione, nuovo carburante per acrobatiche volute creative. Il carattere epifanico del paesaggio che abbiamo rilevato nella poesia appena analizzata torna a caricarsi di connotazioni erotiche in alcune delle liriche successive della raccolta. Nel quinto paragrafo di Profezie o memorie o giornali murali Zanzotto, sulla scorta delle teorie lucreziane sul clinamen[66], descrive la nascita dell’universo come fosse una sorta di «per-tras-versione» delle «iperbellezze» ed «ipereternità» a partire dall’immobile perfezione della dimensione assoluta dalla quale queste provengono. L’esistere stesso, la problematica comparsa nel mondo fenomenico è inevitabilmente una ’trasgressione’ ontologica che qualche volta nel poeta veneto si carica di sfumature patologiche e nella quale l’esplosione delle forze erotico-vitali nel paesaggio finisce per rappresentare la 'dermatologica' sintomatologia di una 'venerea' malattia cosmica: «il loro afrore in stagione o fuori stagione/ abbacina allergizza - e poi eritemi sfavillanti» Queste beltà pur essendo «trasverse», «perverse», per aver definitivamente rinunciato al loro statuto iperuranico possono pur sempre permettere al poeta di riattivare un qualche contatto con la loro terra 'màtria' visto che mantengono ancora un rapporto freudianamente figliale con quella: «ipereternità leccano l’idillio,/ succhiano dall’idillio,/ l’idillia la piccola cosa/ la cosina la bella». La parola idillio, come ben ci fa notare lo stesso Zanzotto nelle note alla poesia, deriva dal greco eidyllion che significa «ideuzza, poesiola, cosina»[67] e che quindi fa anche riferimento alla chose di foucaultiana memoria. La dimensione altra, quella della verità 'assoluta', è dunque quella dell’idillio e della coincidenza fra le parole e le cose e rappresenta quel principio di femminile maternità universale verso la quale il soggetto è continuamente attratto 'eroticamente' e richiamato per mezzo delle semidivine beltà del paesaggio, le uniche in grado, in virtù della loro natura per metà 'terrena' e per metà ancora idilliaca, di svolgere il ruolo di veri e propri 'tunnel spazio-temporali' per la dimensione altra. Nel settimo paragrafo della stessa poesia questa stimolazione degli 'erogeni' punti di contatto tra il mondo fenomenico e l’ultramondano idillio viene definito, utilizzando un termine per cosi dire pornografico: cunnilinctus; sarà certo interessante ricondurre l’idea de «la dolce fessura» stimolata e sollecitata dal soggetto 'linguisticamente', «all’idea di barra (fenditura, scissione: il francese fente) che separa il significante dal significato e ricondurre le operazioni della lingua su questa fessura a tentativi impossibili di far convergere le due facce del segno»[68]. In questa reiterata sollecitazione 'orale' del paesaggio il poeta deve però fare i conti con una sostanziale frigidità dei «luoghi» che lo circondano, che oppongono una forte resistenza al tentativo del poeta di ricongiungersi con la dimensione altra, e questo avviene proprio in virtù delle loro «convinte castità»:

[...]
e io credo del resto che tutte le presenze
della selva e fuori e ognidove
siano attente come me
al lieve cunnilinctus miele fico sole e polveri
convinte stanchezze
e senza mai stanchezza
e senza
e la grande purezza, i luoghi; convinte castità.

Nell’ottavo paragrafo della poesia il poeta prende coscienza di come, una volta attivata questa relazione conturbante con il paesaggio, la funzione rasserenante e 'piacevole' del bello viene ampiamente spodestata dall’aspetto «inquietabile»[69] e problematico del sublime:

[…]
Ma ora il bello e il bello
si fa sempre più inquietabile,
titillare e divezzamento, su ad altri centri,
il bello punta al sublime,
l’uccello giardiniere sbeccuzza e sceglie
bello da bello e butta su,
ahi mai ci arriverò,
e: scontemplare smuovere da un fascino
per riaffastellare in un altro fascino
e: origine del cono sublimizzante
si abbarbicano si avvinghiano soffocano
picchiano i nomi
saltano uno sull’altro nomi e cromi
[...]

«Il compito del poeta (l’uccello giardiniere, una specie realmente esistente) è di mettere ordine (l’ikebana) in questo caos botanico “dando di becco” nel sublime, ossia attingendo all’origine della significazione, in quello spessore originario dove si annulla l’arbitrarietà del segno linguistico»(Dal Bianco)[70]. Quella del poeta è una vera e propria risalita controcorrente rispetto al flusso della significazione nel tentativo di raggiungere il punto in cui il mondo dell’eidyllion, nel quale le serie del significante e del significato ancora coincidono, 'scola'[71] emorragicamente nella dimensione dello spazio-tempo ipostatizzando la chose nella parole; per compiere questa proibitiva ascesa utilizza, quale vettore ottimale, un conturbante sublime dagli alti voltaggi, in grado di spingere il soggetto verso livelli sempre più alti di 'ordine' semantico. Si tratta in effetti di slegare gli elementi «da un fascino» vale a dire da un livello semantico basso per riunirli «in un altro fascino» su un piano superiore di consapevolezza noetica, nel quale vengano maggiormente esaltate le connessioni tra il continuum del significato e la pur inevitabile quantizzazione del significante. L’acme del percorso in risalita verso «la fonte dei messaggi»[72] sarebbe in effetti raggiungibile solo con la realizzazione di quella Welt-opera il cui 'fascino' sia finalmente in grado di connettere in un unico significante-Verbo l’informe energia-materia del Significato.

III.2 Un ipersonetto per il mandala

La trilogia composta da Il Galateo in Bosco, Fosfeni e Idioma permette a Zanzotto di attraversare ampiamente tutta la geografia semantica della sua poesia, dalle glaciali altitudini del logos in Fosfeni alla selva storico-biologica rappresentata dal Montello del Galateo in bosco, passando per la piccola comunità di Pieve di Soligo che identifica il protetto microcosmo di Idioma.[73] È chiaro che il rapporto con il paesaggio assuma un ruolo rilevante soprattutto nel Galateo e in Fosfeni e sia meno presente (ma non certo assente) in Idioma[74], dove l’attenzione-partecipazione al tessuto sociale della piccola comunità dove il poeta è inserito, lo distoglie in parte da una posizione altamente speculativa o contemplativa. Se in Fosfeni questa attitudine filosofico-meditativa raggiunge certamente i suoi vertici espressivi, bisogna riconoscere che pure nel Galateo, e magari con un atteggiamento in parte antitetico rispetto a quello della successiva raccolta, il rapporto con il paesaggio ha una sua piena centralità tematica. L’istanza normalizzatrice dei codici letterari sfida in singolar tenzone l’informe vitalità della selva montelliana, coacervo-non sense di storia e di biologia. È un conflitto che vive il suo parossismo nella sezione centrale della raccolta dove la composizione dell’Ipersonetto rappresenta il momento di massimo sforzo normativo compiuto dal poeta nel tentativo di sublimare le 'ineducabili' forze della natura nel 'galateo' dei codici letterari.
Il poeta si imbarca nella proibitiva impresa di riportare l’ordine nel brulichio informe del bosco montelliano, muovendosi, negli incerti sentieri della selva, con l’ausilio di bacchette 'rabdomantiche'[75], alla ricerca di nuove corrispondenze poetiche e di nuove credibili simbiosi tra realtà e letteratura. Quello dell’Ipersonetto è un poeta-scienziato disposto a notomizzare e ad analizzare micro- e macroscopicamente il mondo fenomenico alla ricerca di nuove e più efficaci algoritmi poetici. Nel sonetto I (che però segue quello dal titolo Premessa che in realtà è il primo della serie) le premesse metodologiche a quello che sarà l’atteggiamento operativo del soggetto all’interno dell’Ipersonetto vengono chiaramente esposte da Zanzotto nei versi che seguono:

Traessi dalla terra io in mille grifi
minimi e in unghie birbe le ife e i fili
di nervi spenti, i sedimenti vili
del rito, voglie così come schifi;
manovrando l’invitto occhial scientifico
e al di là d’esso in viste più sottili,
da lincee linee traessi gli stili
per congegnare il galateo mirifico
onde, minuzie rïarse da morte
-corimbi a greggia, ombre dive, erme fronde-,
risorgeste per dirci e nomi e forme:
[...]

È un poeta dunque che, in un’esaltazione-moltiplicazione dei sensi («in mille grifi»), ha bisogno di 'grufolare' nella terra nel tentativo di captare e reimmettere nel circolo 'digestivo-estetico' gli elementi più insignificanti e più 'infimi' della selva («le ife e i fili/ di nervi spenti»), e deve inoltre sapersi confrontare con gli aspetti gradevoli e sgradevoli della sua ricerca («voglie così come schifi»). Lo scopo dell’operazione è quello di creare un nuovo ordine (con l'egida di un italiano ipersonettistico, letterariamente iper-tradizionale) tracciando delle «lincee linee» in grado di indicare nuovi percorsi formali e nuove “norme”. È una poesia onnivora e “bulimica”[76] costretta a masticare compulsivamente la realtà nel tentativo di rimetabolizzarla in nuove e più efficaci sintesi. 10) Il Galateo in BoscoQuello che il poeta ricerca è una sorta di 'supercodice' «[...] per cui vento e bufera/ estremo ciel, braciere, cataclisma/ cederanno furor per altre regole...»[77] e per trovarlo deve continuamente oscillare tra una posizione pienamente partecipativa del 'furore' incontrollato del bios ed il bisogno, pur impellente, di un ciclico allontanamento dall’occhio del ciclone termodinamico; distacco che è assolutamente necessario al poeta per passare da una prima fase puramente esperienziale ad un’altra di riflessione e di elaborazione 'teorica'. Se nella fase di input il soggetto si sperde e si confonde con l’oggetto della sua analisi, nella fase di output, invece, non può che riprendere coscienza della singolarità del suo punto di vista e della strutture del proprio cogito. Ma quello che si guadagna in chiarezza cartesiana si rischia di perderlo su un piano prettamente 'biologico' ed esistenziale, tanto che il poeta, ricacciatosi fuori dal fascinoso 'carname' dei cicli biologici, finisce per autoescludersi da quella che è la promiscuità orgiastica della Selva, finendo per vestire, nel sonetto VI i dimessi panni dell’impotente voyeur:

[...]

«coi fari sfonda il guardone, tra l’elce
e l’orno e il faggio, tra la foglia e il fiore;
[...]

Il poeta-«guardone» utilizzando, quali strumenti primari, gli accecanti fari della razionalità, non è più in grado di cogliere l’affascinante sensualità della natura ed il suo epifanico erotismo, tant’è che «deluso fa retromarcia», là dove invece prima, in un momento di fusione 'panica' con il paesaggio, aveva colto il conturbante richiamo delle forze femminili e creative della selva:

[...]
là dove sottopalmo e sottofelce
la fragola rinvenni e dell’accesa
fichina l’umido lieve turgore
[...]

Nel sonetto IX (Sonetto di Linneo e Dioscoride) il lume della ragione comincia a vacillare pericolosamente tanto che il poeta è costretto ad invidiare la lucidità con la quale due personaggi storici come Linneo e Dioscoride hanno atteso alle loro opere classificatorie in cui hanno tentato un ordinamento nominalistico e tassonomico del reale; sembra che al botanico greco ed al filosofo svedese non sia stata necessaria la pratica umiliante del cunnilinctus tra il significato e il significante, visto che è una ’tecnica’ della quale hanno potuto fare a meno in virtù dell’«acume» del loro ’nominalismo’ terminologico-tassonomico:

[...]
di Linneo l’occhio invidio e Dïoscoride
tanto fecondo è il far vostro, e il costume
molteplice e l’aspetto, e i nomi acume
più che a lingua dulcedo di clitoride
[...]

È un lume che «s’allenta» a causa di una lenta disgregazione dell’io cartesiano, non più chiaro e distinto, non più a tutto tondo. Dalla ’sferica’ riconoscibilità dell’Io che ’pensa dunque è’ si è ormai passati alla mutevolezza di un Io «testa di serpe» a forma di «punta» ma sempre più tendente al «punto». Quello vissuto da Zanzotto è un vero e proprio dramma lacaniano dove tutto si trasforma «in mero significante anzi in lettera»[78]; nasce «il sospetto che l’io [sia] una produzione grammaticalizzata dell’immaginario, un punto di fuga e non una realtà...»[79]. Ed è proprio in virtù di queste considerazioni che il poeta può affermare nell’ultima terzina del sonetto le ragioni del fallimento della sua illuministica volontà di ordinamento poetico del reale:

[..]
«Ma non testa è la mia; non voce o testo
che venga a penna, a gola non è questo;
non mondo o immondo io; né pur mai mondo.
[...]

Il tentativo forse più alto compiuto da Zanzotto di ’rieducare’ la selvaggia incontinenza della natura, nei modi e nei versi di quello che è il ’contenitore’ per antonomasia della tradizione poetica italiana, il sonetto, è destinato comunque a lasciare il poeta nella frustrazione di un’operazione sostanzialmente fallita, in cui il tentativo di ricostituire il ’mandala’[80] nelle strutture di una poesia rigidamente normativa, come appunto è il sonetto, possiede il retrogusto amarognolo del falso e del surrettizio. È quanto emerge drammaticamente dall’ultima composizione dell’Ipersonetto, dal sottotitolo emblematico Postilla (Sonetto infamia e mandala) in cui l’ambivalente rapporto del poeta con le norme letterarie si carica di un alone decisamente pessimistico:

Somma di sommi d’irrealtà, paese
che a zero smotta e pur genera a vista
vermi mutanti in dèi, così che acquista
nel suo perdersi, e inventa e inforca imprese

vanno da falso a falso tue contese,
ma in sì variata ed infinita lista
che quanto in falso qui s’intigna e intrista
là col vero guizza a nozze e intese.
[...]

Zanzotto constata che 'il vero' non è altro che un 'effetto di linguaggio' o meglio della falsificante formalizzazione letteraria degli informi elementi del reale che di per sé sono «somma di sommi d’irrealtà». «Resta il sentimento di un vero e di un falso minotaurizzati come non mai nel sonetto, proprio in questa figura, che sembra avere il diritto di riassumere tutti i deficit della fictio letteraria e poi della società letteraria, e poi di tutto quel che si vuole»[81].
Quello instaurato con la forma-poesia, è, per il poeta, un rapporto di necessità, destinato a rimanere fortemente conflittuale, visto che per raggiungere un riordinamento seppur illusorio, diciamo pure 'fantasmatico' della realtà il soggetto ha dovuto servirsi della natura illusoria delle «righe infami e ladre» del sonetto, in cui il continuum analogico e informe del mondo fenomenico viene 'derubato', e ridotto negli spazi quantizzati e 'mandalici' del verso:

[...]
così ancora di te mi sono avvalso
di te sonetto, righe infami e ladre –
mandala in cui di frusto in frusto accatto.

Conclusioni

La poesia di Zanzotto, nel suo approccio estremo e totalizzante, attraversa alcuni dei grandi archetipi della cultura occidentale e non solo. Lo fa in modo aperto, dinamico, multiforme, sperimentando uno stile originale e portando il linguaggio al limite, con una densità a volte criptica che però rifugge il non-sense. La condizione strutturale dell'esperienza umana che, con una visione quasi ‘taostica’, in Zanzotto si consustanzia di una natura binaria e paradossale, sembra essere il principale carburante creativo del suo comporre in versi. Questo paradosso, quasi in una mise en abyme frattale, acquista di volta in volta, connotazioni diverse (linguistiche, filosofiche, fisiche, psicoanalitiche, antropologiche, geologiche, botaniche, ecc.) a seconda degli strumenti di osservazione utilizzati e delle particolari rifrazioni rilevate dai diversi punti di vista, immagini, correlativi poetici attivati. 11) A. ZanzottoDiverse 'micropoetiche', quali veri e propri armonici semantici, entrano in potente e coerente risonanza tra loro accrescendo il valore e la ricchezza dell'esperienza poetica di Zanzotto, amplificandone il segnale e facendone una delle più importanti e compiute esperienze letterarie in versi dal dopoguerra ad oggi. Una poesia che si è caricata il compito, impossibile per definizione, di sciogliere il paradosso, di tentarne un'impossibile reductio ad unum, una sintesi. Lo ha fatto acquisendo la consapevolezza (evidente nelle ultime raccolte ed in particolare nella 'testamentaria' Conglomerati) che cedere di schianto alle sole ragioni dell'una o dell'altra polarità è potenzialmente dis-umano, pericoloso, patologico, che probabilmente un autentico esperire umano è possibile solo oscillando in equilibrio tra i due poli. La poesia -vera e propria avanguardia della parola- può in qualche modo riattivare la consapevolezza del paradosso, tentare una via di sintesi tra due istanze in equilibrio dinamico ed in continuo rimescolamento.
Chiudiamo allora il cerchio ermeneutico, aperto con la poesia Parola, silenzio, citando intanto un altro brano dell'intervista con Paolini in cui Zanzotto fa riferimento esplicito all’aspirazione ad una parola “pentecostale”[82] in grado di conciliare, il particolare con l’universale, la diversità con l’omologazione, il silenzio dell’incomunicabile metafisico con i limiti di una parola idiomatica:

"Paolini: E come si regge l’equilibrio tra l’infinito omologante e l’infinito particolare, che ribolle ogni tanto, tira su acidamente il problema della sua identità e la rivendica come una contrapposizione alla omologazione?"

"Zanzotto: Può generare le peggiori confusioni, i peggiori conflitti. Sappiamo che questa ricerca della non omologazione, della radicazione assoluta è altrettanto pericolosa che il vorticare omologante, per questo ho sempre pensato all’idea di un linguaggio pentecostale, in cui come nella descrizione degli Atti degli Apostoli gli apostoli parlano in aramaico, però ognuno li sente nella propria lingua: “l’arabo, l’indo, il siro in suo sermon l’udì”. Quindi notiamo che c’è una punta quasi verso una metafisica, è possibile essere tutti diversi e nello stesso tempo essere uni nella diversità? È un problema che resterà sempre aperto e non sarà mai risolto. Ma bisogna cercare di fermarsi un po’ prima che la bilancia crolli verso il catastrofico. [...] La poesia credo che possa essere sempre comunque, se correttamente presentata, vista come qualcosa che celebra contemporaneamente il massimo dell’identità ma con la spinta verso l’esterno, anche se poi richiama per avere il massimo dell’identità."

La poesia, sembra suggerire Zanzotto, è uno strumento strutturalmente ideale per tentare questo percorso pentecostale proprio perché è, quia absurdum, espressione massima di questo paradosso: se infatti il poeta da un lato ricostruisce in modo originale il rapporto tra significante e significato attraverso l’espressione (e lo fa in modo tanto più ’eroico’ ed alto quanto più tenta la via della forzatura dell’idioletto, della cripticità, della coincidenza ’analogica’ con la propria soggettività), aspira al contempo al massimo riconoscimento universale di queste unicità nella langue della comunità letteraria e umana, in un 'democratico' equilibrio sempre rinnovato, di massima libertà espressiva del soggetto e di possibile condivisione comunitaria. In ultimo, quale perfetta sintesi/epitome del nostro percorso di analisi critica riproponiamo un brano del saggio Tentativi di esperienze poetiche (poetiche lampo) pubblicato nel 1987 da Zanzotto su «il verri»:

"[...] Così, il destino della ’poesia’ in tale quadro di tensioni è quello di manifestarsi come un mero significante che regge un immenso gioco di significanti ma scava per contraccolpo incontenibili, infinite nostalgie di significato, come un flatus vocis entro il quale però viene a istituirsi un campo di senso talmente esteso da diventare ’perturbante’ in senso freudiano. Uno che dica ’poesia’ partendo dall’idea di Heimlich, di casalingo, di stare a casa sua, nella propria conchiglia, si trova poi a ridosso i 273 sotto zero dello spazio cosmico, dell’estraneità assoluta. E ciò avviene anche per aver egli spinto ciò che è di un microcosmo, soprattutto come lingua, a funzioni impossibili di macrocosmo: ma diversamente non poteva accadere. A questo punto sarà ancora più difficile ritornare al problema di un sapere sul farsi della poesia in quanto tentativo ed esperienza arrivati a dar luogo ad un testo, ad un oggetto. Quanto agli autori, che ’si sono aiutati’ in ’quel’ momento a scrivere ’quel’ testo, forniranno la serie tutta smagliata degli indizi, delle ’poetiche-lampo’: ma forse ogni punto del poema o rinvia a queste o ne è costituito. Il poeta darà indizi dell’idioma del suo fare mentre sta anche spingendo l’idioma storico da lui usato, verso/contro il limite della sua idiomaticità/particolarità [...]."[83]


[1]Zanzotto A.(i968), La beltà, Milano, Mondadori

[2]Montale E. (1968), La poesia di Zanzotto, «Corriere della sera», 1 giugno, p. 3.

[3]Cfr. Contini G. (1978), Prefazione in Zanzotto A., Il Galateo in bosco, Milano, Mondadori.

[4]Zanzotto frequenta alcuni seguaci della dottrina del filosofo svedese (citato più volte in versi ed interviste dal poeta veneto) durante il periodo in cui vive e lavora in Svizzera per circa un anno(subito dopo la II Guerra Mondiale tra il 1946 e il 1947) come ricordato nella “Cronologia essenziale” di Zanzotto A.(2011), Tutte le poesie, a cura di Stefano dal Bianco, Milano, Mondadori.

[5]Microflm è una poesia inclusa in Zanzotto A.(1973), Pasque, Milano, Mondadori. La relazione tra le lettere I ed O ed i numeri 1 e 0 nei versi/immagine “IODIO/ODIO/DIO/IO/O” inclusi in Microfilm e le sue suggestioni esoterico-filosofiche sono ben esplicitate dallo stesso autore in Zanzotto A.(1984), Una poesia, una visione onirica, in (a cura di) Branca V.,Ossola C. (1984), I linguaggi del sogno, Firenze, Sansoni poi in op. cit. Zanzotto A.(1999), pp.1288-1299.

[6]Cfr. Zanzotto A.(1987), Tentativi di esperienze poetiche (poetiche-lampo), «il verri», n.1-2, marzo-giugno poi comodamente disponibile in Zanzotto A.(1999), Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori, pp. 1309-1319.

[7]Ultima se si esclude la raccolta 'sui generis', con versi scritti in inglese: Zanzotto A. (2012), Haiku for a season, edited by Anna Sacco and Patrick Barron, Chicago and London, The University of Chicago Press poi in (con traduzione in italiano) Zanzotto A. (2019), Haiku for a season/Haiku per una stagione, a cura di Anna Sacco and Patrick Barron, Milano, Mondadori.

[8]Zanzotto A.(2009), Conglomerati, Milano, Mondadori.

[9]Zanzotto A. (1996), Meteo, con venti disegni di Giosetta Fioroni, Roma, Donzelli.

[10]Zanzotto A. (2001), Sovrimpressioni, Milano, Mondadori.

[11]“Dal Bianco S. (2011), Introduzione in Zanzotto A.(2011), Tutte le poesie, a cura di Stefano Dal Bianco, Milano, Mondadori, p. LXXIII.

[12]Vedi nota 6

[13]op.cit. Dal Bianco S.(2011), p. LXIX.

[14]Mazzacurati C., Paolini M., Ritratti : Andrea Zanzotto, Padova: Vesna film, produzione 2000 poi in Mazzacurati C., Paolini M., Ritratti : Andrea Zanzotto (2007), Roma : Fandango libri, p.59; [Italia]: Jolefilm, 2007,

[15]Ibidem, p.58

[16]Dell'idea della poesia come forza connettiva si parlerà in modo più ampio nel cap. III

[17] Qui il termine si ammanta di suggestioni lacaniane, vedi Lacan J.(1966), Ecrits, Paris, Editions du Seuil, poi in Lacan J.(1974), Scritti, Torino, Einaudi, pp. 848-849 (vol.II): “Ebbene, immaginiamo che ogni volta che le membrane si rompono, dalla stessa uscita s’involi un fantasma, quello di una forma della vita infinitamente più primaria, e che non sia affatto pronta a raddoppiare il mondo come microcosmo. Rompendo l’uovo si fa sì l’Homo ma anche l’Hommelette”. Cfr. anche Stefanelli L.(2015), Il divenire di una poetica [...], Milano-Udine, Mimesis, pp.110-115

[18] Zanzotto A., Poesia? (1976), «il verri», n. 1 poi in Zanzotto AX1999), Le poesie e prose scelte a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori, pp. 1201.1202.

[19]op.cit. Montale E. (1968).

[20]Zanzotto A. (1951), Dietro il paesaggio, Milano, Mondadori

[21]Zanzotto A. (1957), Vocativo, Milano, Mondadori.

[22]Nel 1950, un anno prima della pubblicazione di Dietro il paesaggio, Zanzotto si aggiudica il premio San Babila per la sezione inediti. La giuria è composta da Quasimodo, Sereni, Sinisgalli, Ungaretti dallo stesso Montale. Cfr. Gian Mario Villalta, Cronologia in op. cit. Zanzotto A. (1999). pp. XCV-CXXXII.

[23]Zanzotto A.(1954), Elegia e altri versi, Milano, ed. della Meridiana.

[24]Zanzotto A. (1962), IX Ecloghe, Milano, Mondadori.

[25]Cfr. Lenisa M. G. (1990), Il Segno Trasgressivo [...], Foggia, Bastogi, p. 64.

[26]op. cit. Mazzacurati C., Paolini M. (2007) pp. 47-48.

[27]Zanzotto A. (1979), Nei paraggi di Lacan in AA. VV., Effetto Lacan, Cosenza, p. 1211.

[28] ibidem, p. 1213.

[29]Agosti S. (1999), L'esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto, in op. cit. Zanzotto A. (1999) p. XXI.

[30]Con riferimento, naturalmente, alle teorie dello psicanalista Jacques Lacan secondo le quali la ’natura’ dell’Io è essenzialmente linguistica. Il ruolo centrale del pensiero di Lacan nella poetica di Zanzotto è stato affrontato con maggiore o minore profondità da buona parte della critica. Per approcciare alla tematica rimane fondamentale la lettura di op. cit. Zanzotto A. (1979) Nei paraggi di Lacan; Una recente monografia ha analizzato la tematica in dettaglio: Russo Previtali A. (2019), Zanzotto/Lacan: l’impossibile e il dire, Udine, Mimesis.

[31]Bandini F. (1999), Zanzotto dalla ’heimat’ al mondo in op. cit. Zanzotto A. (1999), p. LXXIV.

[32] op.cit. Agosti S. (1999), p. XII.

[33]op. cit. Zanzotto A. (1979), p. 1214.

[34]La musicalità è comunque un elemento importante del verso zanzottiano, come rilevato in Pedullà W. (1968), L'oltraggio di Zanzotto, «Avanti!» 1 giugno

[35]op.cit. Agosti S. (1999), p. XXVIII

[36]Notare l'interessante etimologia dal latino del termine rievocato da Zanzotto: sideratus “colpito dall'influsso maligno di un astro, esposto al freddo delle stelle”(G.D.L.I. Vol I, p.766, Torino, Utet)

[37]De Mauro T.(2000), Il dizionario della lingua italiana per il terzo millennio, Torino, Paravia

[38]passim Allen Beverly (1988), The language of beauty apprentice, Berkeley (United States), University of california press. In questo saggio l'autore suggerisce l'esistenza di una vera e propria “theory of cold” zanzottiana.

[39]Zanzotto A. (1987), Tentativi di esperienze poetiche, «il verri», n°1-2, marzo-giugno

[40]Zanzotto A. (1968), Sì, ancora la neve, in op.cit. Zanzotto A. (1968)

[41] Zanzotto A. (2001), Ligonàs in op.cit. Zanzotto A. (2001).

[42] cfr. Piangatelli R.(1990), La lingua, il corpo, il bosco, Macerata, Verso, p. 8.

[43] passim Pezzin C. (1988), Zanzotto e Leopardi. Il poeta come infans, Verona, Cierre.

[44] L’importanza che quest’opera di Virgilio riveste nel background culturale di Zanzotto si esplicita in

un'intervista del 1962 destinata ad un opuscolo pubblicitario per la collana “Il Tornasole” di Mondadori, adesso disponibile in op. cit. Zanzotto A. (1999), pp. 1104-1106.

[45]Importanti riflessioni dell’autore sulla ricerca di una lingua “pentecostale” in una Europa “melograno” di lingue si ritrovano nel discorso inaugurale tenuto nel 1995 a Ca’ Foscari nel primo anno di fondazione. La trascrizione è ora agevolmente disponibile in op.cit. Zanzotto A.(1999), pp.1345-1365. Molto interessanti anche le riflessioni di Zanzotto sullo stesso argomento nell'intervista di Marco Paolini (2000), op cit. poi in op.cit., Mazzacurati C., Paolini M. (2007), p.61

[46]Zanzotto A. (1983), Fosfeni, Milano, Mondadori.

[47] hapax in greco ’una sola volta” ’una volta per sempre’. L’ ’essere hapax’ è evidentemente immutabile e sempre uguale a se stesso.

[48] op. cit. Zanzotto A. (1979), poi in Zanzotto A.(1999), p.1212.

[49] Zanzotto A., Ligonàs in op. cit. Zanzotto A. (2001).

[50]Ibidem.

[51]Ibidem.

[52]Ibidem.

[53] op.cit Zanzotto A. (1976), poi in Zanzotto AX1999), p. 1202.

[54]È un ossimoro utilizzato da Zanzotto nella poesia Da un'altezza nuova (Vocativo), successivamente ripresa ad esempio in Non si sa quanto verde sia sepolto... (Meteo); espressione la cui emblematicità è colta da Roberto Piangatelli il quale ne La lingua il corpo il bosco (op.cit.,1990, p.32) afferma: “[il ricchissimo nihil] rappresenta davvero il punto di partenza/di arrivo dell’itinerario speculativo del soggetto poetante poiché definisce, come nella sintesi del mandala, gli aspetti complementari ed identici della realtà suprema...”.

[55]op. cit. Dal Bianco S. (2011), p. LXXIII.

[56] Zanzotto A., (2001), OGM? (in Sovrimpressioni).

[57] Zanzotto A.(1968), Sì, ancora la neve (ne La Beltà).

[58]Sono due aggettivi utilizzati con questa stessa connotazione da Zanzotto in Spine, cinorrodi, fibule (Sovrimpressioni).

[59]Zanzotto parla esplicitamente di poesia come 'collaudo' della realtà in Zanzotto A. (1977), Autoritratto, «L'approdo», n°1392, 23 maggio poi in Zanzotto A.U999), p. 1207 e passim

[60] passim Kant I, Critica del Giudizio.

[61] Zanzotto A. (2001), OGM? (in Sovrimpressioni).

[62Interessante ad es. l'uso esplicito che Zanzotto fa del termine unheimliche nella serie di poesie Succo di melograno, presenti in Zanzotto A. (2009) op. cit.

[63] Zanzotto A. (2001) note alla poesia Spine, cinorrodi, fibule (in Sovrimpressioni).

[64]cfr Motta U. (1996), Ritrovamenti di senso nella poesia di Zanzotto, Milano, Vita e pensiero, p. 64.

[65]cfr. Bertini L. C. (1984), Andrea Zanzotto o la sacra menzogna, Venezia, Marsilio, p. 109.

[66]cfr. Zanzotto A. nota alla poesia Profezie o memorie o giornali murali (La Beltà) par. III

[67]ibid., par V

[68] Luzzi G. citato da S.Dal Bianco in op. cit. (1999), p. 1510

[69] cfr. M.G. Lenisa (1990), op. cit., pp. 83-92.

[70]op. cit. Dal Bianco S. (1999) p. 1510.

[71]cfr. Zanzotto A. (1973), Pasqua di maggio (Le Pasque) “in giù in gluglu nell’acquaio nel rivolo io scola”.

[72] Zanzotto A.(1968) Sì, ancora la neve, (La Beltà) “e che messaggi ha la fonte dei messaggi”.

[73] op.cit. Dal Bianco S. (1999), p. 1640

[74]Zanzotto A. (1986), Idioma, Milano, Mondadori

[75] cfr. Tassoni L. (2002), Caosmos, La poesia di Andrea Zanzotto, Roma, Carocci, cap. IV.

[76] cfr. Zanzotto A. (1978), Ipersonetto II «masticazioni, bulimie dolenti», (Il Galateo in Bosco).

[77] Zanzotto A. (1978), Ipersonetto III (Il Galateo in bosco).

[78] op. cit. Zanzotto A. (1979) poi in Zanzotto A. (1999), p.1211.

[79]ibid.

[80] cfr. Piangatelli R (1990), op. cit., pp. 32, 36, 82 e seg.

[81]Zanzotto A. (1978), nota al sonetto Postilla (Sonetto infamia e mandala) in «Tuttolibri», 141-142, 12 agosto.

[82] cfr. nota 45.

[83]op. cit. Zanzotto A.(1987), poi in op. cit. Zanzotto A.Q999), pp. 1314-1315.