La discordia del fiato,
vociferazione dei segni
Daniele Poletti
Prima del suo battesimo Cristoforo era chiamato Reprobo, ma in seguito fu chiamato il portatore di Cristo, ciò perché portò Cristo in quattro modi: sulle sue spalle trasportandolo, nel suo corpo per la macerazione del pentimento, nella sua mente per devozione, nella sua bocca per confessione o predicazione.
Legenda Aurea – Jacopo da Varagine
Sembra anzitutto opportuno sottoporre all’attenzione del lettore la differenza fondamentale che passa tra “oralità” e “vocalità”. «Per “oralità” si intende il funzionamento della voce in quanto portatrice di linguaggio; mentre la “vocalità” è l’insieme delle attività e dei valori che le sono propri, indipendentemente dal linguaggio» [indebito => Paul Zumthor]. In questo articolo il focus ricadrà prevalentemente sulla “vocalità”, intesa come strumento più prossimo al portamento della scrittura.
La voce in quanto prodotta dal fiato, nel meccanismo della respirazione e dalla meccanica laringea e faringea, anticipa qualsiasi linguaggio strutturato e informazionale; è esistenza in sé, perché legata al fatto e all’atto di esistere, l’ossigenazione appunto, e si trasmette come potenzialità di significazione al di là del traghettamento di significati. «La voce è dunque distinta dalla parola, sia orale che scritta, e dal linguaggio che ritma le parole per segni, fonetici e non e anzi si confonde con il ronzante turbinìo delle pulsazioni corporee, che sfuggono alla coscienza perché la precedono» [indebito => Corrado Bologna].
Seppure classificabile secondo una tassonomia tipologica (un po’ come per le caratteristiche somatiche), la voce può considerarsi unica per ciascun individuo, una sorta di marca identitaria che individua la persona nella sua specificità, ma che non lascia alcuna traccia, in ragione del suo carattere transcorporeo. Vale a dire che tutto parte dal corpo nel doppio binario di entrata e uscita dell’aria e poi si disperde irrimediabilmente nello spazio. Dopo l’emissione vocale rimane il corpo, come testimone in potenza di ciò che è già eco e suggellatore del suono vieppiù attraverso il gesto e la presenza.
«Il termine attore ha il suo etimo nell’agere retorico e nemmeno per sogno nel verbo agire. E nonostante la solarità della mia lezione, questi frenetici spazzini del proscenio seguitano a naufragare, dove?, nell’identità scorreggiona del teatrino occidentale, patronale, del testo a monte, prosternati davanti alla morale del senso, alla strisciante, servilissima, venerazione dei ruoli, all’insensatezza psicologica, alla verità verbale coniugata alla più insulsa e stucchevole frenesia del moto a luogo, alla rappresentazione insomma dei codici di stato» [indebito => Carmelo Bene].
La lettura, come la scrittura, ma più di quest’ultima, evidentemente, per la sua immaterialità, incomprensibilità fisica, devono essere aurorali, non possono che preludere all’alba, senza il compimento dell’alba. O, per endiadi rovesciata, crepuscolari, per quella somiglianza di vago e incerto delinearsi. L’opacità è lo stato di potenza della voce, è ciò che struttura, attraverso la traslazione fonica del significante, un significato che non si dà come verità economica. Il ruolo della voce dovrebbe essere quello di resuscitare il cadavere scritto di un testo letterario, perché di cadavere si tratta, nell’evidenza del suo silenzio; a tale proposito, come ha affermato più volte Carmelo Bene, l’attore (nel senso ampio di colui che traduce segni in suoni) non è, scespirianamente, colui che agisce ma colui che perora una causa. Per far sì che questa invocazione non rimanga evocazione di una vox clamantis in deserto (o al contrario lo sia pure, in assoluto disdegno dell’inascolto, di fronte alla pigrizia dell’orecchio e dell’occhio che si pongono senza disporsi), l’attore/lettore deve essere in grado di persuadere chi ascolta. Ma l’atto fonico di persuasione va ben oltre l’arte rettorica, perché le parole diventano canovaccio della voce e non più la voce lìberto, o, peggio, ilota della parola. Il risultato è intangibile, non quantificabile, se non nel concreto spostamento dell’auditorio verso l’inconscio dell’indagine.
Purtroppo la produzione e la ricezione del letterario, con rare eccezioni, sono state compromesse da uno status filosofico che è divenuto senso comune. Il logocentrismo di marca occidentale legato alla tesi della creazione mediante la parola – ma già prima nella tradizione greca, da Aristotele a Platone – risente pesantemente della rilettura cristiana del Vecchio Testamento. Per gli ebrei, ad esempio, creazione e autorivelazione non provengono dalla parola di Dio, bensì dal suo respiro e dalla sua voce. La scrittura occidentale appartiene in qualche modo alla scena teologica, dove si inaugura la storia come storia del testo. Da un lato dunque la phonè semantikè di Aristotele che lega indissolubilmente la phonè al logos, subordinando la componente fonica del logos a quella semantica, del significato; dall’altro la verità cristiana della parola incarnata che si comunica nel silenzio. Questo retaggio antico fa sì che la “scrittura perimetrata” (vale a dire il testo che si traduce in “pagina”, prima, e successivamente in “libro”, creando un dispositivo di certezza comunicativa, univoco e normativo) viva in una economia della colpa. Il testo è archetipo della legge, il messaggio deve essere apodittico, privo di quelle ambiguità che andrebbero a minare la verità rivelata; ciò che sconfina da questi parametri ha la colpa di essere degenere, di tralignare dalla regola, ma in più lo stato di sacro pudore in cui versa il logos instilla il senso di colpa in coloro che per natura o per agnizione sono portatori di vettori di alterità. La scrittura congruente con il testo è sempre commento condivisibile, protezione della lettera, della parola giusta per il pubblico che deve essere preservato, se non imbonito. Ma il feticismo del senso e della verità incastonati nel tabernacolo del testo è scavalcabile attraverso un procedimento di “rienunciazione”, atto di divergenza, politicamente inviso al potere ed esteticamente distante dalla massa desiderante. Questo procedimento passa per due sentieri che possono intersecarsi: la produzione di un testo, per citare Jean Paul Manganaro, come di uno spazio ateologico in cui vi sia l’istigazione continua della legge a prostituirsi; un linguaggio dell’abolizione, che superi quella demarcazione abusiva che confina le cose da una parte e le parole dall’altra. Credere di stare in mezzo alle cose è pura illusione, l’uomo è circondato da significati, in cui l’arbitrarietà del segno non può essere restituita se non con una diffrazione del senso e dei sensi. E qui entra in gioco la voce che autonomamente, su qualsiasi testo degno di essere riconosciuto come tale, o come stigma peculiare di un preciso modo di fare ricerca letteria, scompagina, vulnera, mette in olocausto il tragitto parola>verbalizzazione>signifcato.
La scissione dell'io provocata dalla separazione tra il soggetto dell'enunciazione e il soggetto dell'enunciato non può che preannunciare un processo di ri-enunciazione: dunque la parola viene portata all’apice del senso fino alla sua oltranza, e da una scrittura che non si piega alla semplificazione della comprensione, e dalla voce che rifonda la parola stessa con la creazione soprasegmentale di senso. Il puro vocalico è indifferente alla funzione semantica della lingua e questa si piega alla musica del vocalico che, privo delle leggi stringenti della scrittura, organizza l’enunciazione come diretta emissaria del corpo. «La phonè non dipende in maniera immediata dal senso, ma prepara al senso il luogo dove esso si dirà» [indebito => Paul Zumthor]. Parola disarcionata dalla voce, voce sul punto di divenire parola.
La corrispondenza instabile tra segni e “cose” dovrebbe far riflettere coloro che cercano un’individuazione monolitica, categoriale dei diversi tipi di scrittura, tutto compreso tra scrittura verbale, segnica, immaginale, musicale. Il segno che rappresenta un concetto è vociferazione della cosa, dell’“oggetto” (sia concreto che astratto), e il significato, a sua volta, è vociferazione del segno. Questi passaggi filtranti sono le fondamenta del nostro linguaggio, ciò che ne scaturisce è un’illusione di verità, un’articolazione nebulosa che transita attraverso sequenze di phantasmi (in senso platonico), in cui vige il predominio del campo visivo su quello auditivo. Lo statuto della metafisica occidentale è dunque del tutto coeso con una pratica della scrittura che «imprigiona, tirannicamente e per sempre, in un campo visivo le parole» [indebito => W.J. Ong], perciò la componente fonica del logos è in subordine rispetto a quella semantica. Mai come oggi però c’è stato così bisogno della “voce” per ridestare le concrezioni significative delle parole e della catena simbolica e “atopica” (fuori luogo) della significazione. Il linguaggio si è schiacciato (o è stato schiacciato) sulla massimizzazione della sua efficienza comunicativa – sia che si parli di trasmissione di informazioni, sia che si prenda in considerazione un messaggio estetico – arrivando a configurarsi come «lingua dell’amministrazione totale» (H. Marcuse), e giunti al parossismo della “desonorizzazione” del logos, ha ulteriormente perduto le capacità destrutturanti e disorganizzanti della voce sulla pretesa del linguaggio di controllare il processo di significazione. Nella società tecnomassiva e dell’ipernormatività si assiste però a un passaggio ulteriore, che tende a svuotare ineccepibilmente anche la “trama” del significato, e a disinnescare qualsiasi tipo di pensiero trasversale in favore di una frammentata identificazione emozionale del soggetto con la merce. Ma la merce del XXI secolo ha subito una sublimazione e si trova nella sua disposizione più eterea e quasi spiritualizzante. L’oggetto concreto, simbolo dell’appagamento ed emissario della merce, oltrepassa l’ultimo posto di blocco, quello del significato, per imboccare la via di un nuovo strapotere sull’orizzonte cognitivo e linguistico: quello dei contenuti. Propaggine estrema della sragione asservente del sonno del consumo, i contenuti si avvicendano senza soluzione di continuità, in qualsiasi settore, senza alcun bisogno di collegamento o di una logica che ricostruisca un’intenzione unitaria. I contenuti sono l’ultima impostura del simulacro, sono simulacri di simulacri.
In questo scenario la voce diventa semplice veicolo di trasmissione, se non orpello inutile ai fini della circolazione di un linguaggio sempre più procedurale e depotenziato. La funzione “vocativa” della voce, quella di “nominare” e di “chiamare”, si affievolisce nella solitudine dell’utente e nel suo silenzio. Si perde il contatto con la propria cassa toracica e con le capacità e possibilità boccali. La voce è sempre quella dell’altro. La reponsabilità della propria voce è atrofizzata dal rispecchiamento nelle norme di buon consumo e di comportamento.
Il fiato, motore della vita biologica e dell’incisione sonora dell’aria, diventa quindi oggetto di discordia, perché sfuggente per la sua impalpabile sostanza e potenzialmente sovvertitore rispetto ai principi del “discorso”. Proprio per questo però la “discordia” da fattore negativo, per imposizione dell’irredentismo capitalista, diventa principio attivo, enzima divaricatore tra l’ordine delle parole e la loro forza immaginale. Il fiato attraverso l’apparato fonatorio è lo strumento che non deve concordare con l’enunciazione, ma sovvertirla, ridestinarla, porla nell’altrove di un discorso senza parametri di tempo e di luogo. La voce quando entra in contatto con i segni della comunicazione ha il dovere di fondare una dimensione che ecceda il messaggio. Meccanicamente e biologicamente l’apporto della voce è proprio questo: il bel canto, la bella lettura sono funzionali alla trasmissione, non alla penetrazione, e rappresentano non solo una convenzione, ma una sofisticazione delle possibilità archetipiche della voce stessa. Carmelo Bene dixit: «Si può solo dire nulla, destinazione e destino d’ogni discorso, ma solo questo nulla è proprio quel che si dice, la verità del discorso intesa come esperienza stessa del suo errore. Altro non resta, in tutto abbandono, che lasciarsi comprendere dal discorso senza, appunto, la nostra volontà di intenzione». Lasciarsi comprendere dal discorso significa oltrepassare il discorso che è formulato nella sorveglianza di forme icastiche e compiute. La voce appartiene all’immissione ed emissione corporea, perciò è espressione diretta delle viscere, la sua normazione ha lo stesso valore del riallocamento di animali selvatici in uno zoo.
La potenza deragliante della voce, ciò che permette la creazione di un ambiente e di un luogo perspicui non didascalici e di un tempo dilatato rispetto all’esperienza della dizione, sta nella sua capacità mimetica, nella diversificazione delle lingue e nel contatto con le emozioni primigenie.
Prima di tutto la voce è suono, e in quanto tale è marginalità non circoscrivibile rispetto alla parola pronunciata; nella sua capacità di imitare i suoni degli oggetti e degli animali essa desemantizza il potere del logos e il potere tout court, attraverso una “glotturalità” asemantica che estende le possibilità del racconto.
In una lingua unitaria i dialetti o anche l’inserzione di passaggi dialettali o del parlato del luogo in un dettato comunicativo ordinario produce situazioni di opacità, di latenza, di fuga musicale; alcuni passaggi si perdono, non si capiscono, eppure l’inadempienza dell’emissione sillabica rispetto al significato ha l’effetto di un ampliamento di senso.
Il pianto provocato da una gioia o da un dolore è una disarticolazione del fiato, la parola pronunciata si trasforma, non somiglia più al segno che la determina, perché i singulti i sospiri i rantoli producono incongruenza ed espandono il tempo del messaggio. Il sottoporsi a un grande sforzo fisico, la corsa ad esempio (non il jogging), è un’esperienza di morte in vita, la respirazione diventa tumultuosa, gli spasmi portano alla dispnea, il sudore ricorda il lutto delle lacrime, la parola pronunciata diventa epifanica perché (s)tentata, non definita né definitiva.
Tutti questi elementi denotano il potere maieutico dell’emissione vocale nella sua matrice più primordiale, quella legata alla zoè (la prima sorgente inesauribile e feconda), e non hanno niente a che spartire con la rappresentazione sonora dei contenuti adulterata dall’impostazione, dall’intenzione e dalle aspettative di un uditorio, sempre conformi al passaggio di significati.
Detto questo, restringendo drasticamente il punto di vista sulla lettura o interpretazione di testi letterari, penso che la maggioranza dei poeti, degli scrittori e degli attori dovrebbe tacere, non leggere né le proprie cose né tantomeno quelle altrui, perché il pregiudizio rimane quello della comunicazione e della comprensibilità cristalline. Oggi si leggono testi in pubblico (quando va bene) secondo le regole di un sistema culturale sclerotizzato, che prevede delle posture e dei ruoli rigidamente strutturati e definiti di offerta e ricezione. La parola ben pronunciata, la drammaturgia, il sovraccarico emozionale o per contro l’anafettività verbale non sono a favore del testo e della parola, ma solo a favore di un presunto spettacolo del sé.
Per questo, a mio inviso parere, chi può emettere fiato rispetto al testo letterario è colui che è in contatto con gli interstizi e le ombre dei testi, con tutto ciò che da scarto dell’effimero diventa notomia di un viaggio verbale.
Fanno la differenza in questo paesaggio due elementi: la timbrica e la tecnica. Per quanto riguarda il timbro vi sono alcune persone che posseggono naturalmente un impasto sonoro inconfondibile, irripetibile e del tutto pervasivo. Mi vengono in mente alla rinfusa (Carmelo Bene a parte, che è connubio di natura e tecnica) Edoardo Sanguineti, William Burroughs, Elio Pagliarani, Antonin Artaud, Gherasim Luca, senza mettere in conto alcuni, non tutti, poeti sonori d’eccezione come Luigi Pasotelli, Giovanni Fontana o Arrigo Lora Totino, Jaap Blonk. Dunque in quel caso non c’è possibilità di scampo, per attrazione o ripulsa, quelle voci sono un motore autonomo rispetto al testo, pur comunicandolo nella sua più profonda significatività.
Sulla tecnica i nomi sono molti di più, ma perché settoriali. In effetti dal coté musicale possiamo partire da Demetrio Stratos, Cathy Barberian, per arrivare a Fatima Miranda, Koichi Makigami, Anna-Maria Hefele etc. che portano le possibilità della voce a conseguenze estreme, ma sempre secondo una ricerca che attraverso le più diverse tradizioni fa emergere le radici presemantiche del linguaggio, in una messa in opera aumentativa del linguaggio stesso.
Questo dovrebbe essere il minimo da farsi per poter leggere in pubblico; la voce è discordia del fiato e, per dirlo con Julia Kristeva, abiezione, nel senso che non è né oggetto, né soggetto, ma abietto, per ciò stesso spossessamento del senso per la riconquista del senso.
In ciò non si legga (veda) un anatema in chi si dispone a leggere a voce alta, ma almeno che l’improvvido sia portatore del valore della voce come San Cristoforo del suo nome.
ottobre 2023
Bibliografia minima
AA.VV., Carmelo Bene il teatro senza spettacolo, Venezia, Marsilio, 1990.
C. BOLOGNA, Flatus vocis: metafisica e antropologia della voce, Bologna, il Mulino, 1992.
A. CAVARERO, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Roma, Castelvecchi, 2022.
J. KRISTEVA, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Milano, Spirali, 1981.
W. J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, il Mulino, 1986.
P. ZUMTHOR, La presenza della voce: introduzione alla poesia orale, Bologna, il Mulino, 1984.