Le fuggitive di Carmen Gallo
di Marianna Marrucci
A tre anni di distanza da Appartamenti o stanze (d’if 2017), Carmen Gallo pubblica un libro che segna – mi sembra – una tappa importante. Le tre parti che lo compongono si presentano tanto formalmente eterogenee quanto geometricamente composte e disposte: la prima (La corsa) è costituita da cinque sequenze tripartite secondo uno schema fisso (testo in versi/testo scenico/testo in prosa) e una poesia in coda; la seconda (Le fuggitive) coincide con un (notevolissimo) poemetto seguito da una poesia più breve; la terza (Uscirne vivi) comprende ventidue prose («storie che hanno a che fare con piccole strategie di lotta o di fuga» - spiega l’autrice nella Nota), chiuse da un testo in versi che fa da sigillo all’intera opera. Opera che prende forma (e senso) facendo perno su due principi fondamentali: la cinestesia e la ripetizione.
È il principio cinestetico, in apertura, a premere sui confini e a spingere il movimento che dai versi arriva alla prosa per il tramite della parola-azione teatrale. Il libro si apre sull’interno di un museo, dentro una teca, «dietro il vetro»: «Nella teca del museo di Taranto/ le due figure sono immobili». L'assenza di movimenti rende «la posa sempre identica», perciò «il gioco non è chiaro» (p. 9). Così comincia la corsa: il movimento è necessario all’indagine sul senso; ma il perimetro del gioco è circolare e occorre «la giusta oscillazione del corpo in avanti» per superarlo, salvo poi, una volta all’esterno, arrestare l’azione: «Siamo andate avanti fino a notte fonda/ poi ci siamo addormentate/ fuori dal cerchio» (p. 15). Ma quando il movimento si interrompe «nessuno sa come continuare il gioco» (p. 18) e i corpi diventano pesantissimi, fino all’esplosione della corsa: «Ho trovato lo slancio/ per rialzarmi e ho cominciato a correre./ Siamo andate lontano, fino a dove c’era fiato» (p. 21).
Il principio della ripetizione è in azione già nella figura, raddoppiamento/sdoppiamento della fuggitiva proustiana (e da Proust è tratta una delle citazioni in esergo), che dà il titolo al libro e alla sua sezione centrale, «autobiografia per luoghi reali» - avverte l’autrice nella Nota – dove «chi parla usa i pronomi per nascondersi». Tutto il poemetto centrale è costruito sulla ripetizione ossessiva a inizio verso del verbo essere declinato alla prima persona plurale («siamo»), che, a sua volta, è una ripresa degli incipit dei cinque testi in prosa della prima parte: «Siamo in una incubatrice, in una clinica, in un ospedale» (I); «Siamo in un bagno, sotto il lavandino, accanto alla vasca» (II); «Siamo in una stanza, con un letto grande e un armadio enorme» (III); «Siamo in un’automobile, in una centoventisette» (IV); «Siamo in un sogno, in un corridoio, in una casa in affitto» (V).
L’effetto che si produce in chi legge è quello di una carrellata veloce di istantanee, di situazioni strappate all’indistinto e riconosciute fuggevolmente (ma ripetutamente) come proprie da un soggetto la cui unica azione è quella di vedere e riconoscere tracce di esperienza da una prospettiva mobile e sotto sforzo. Non viene meno, in questo nuovo lavoro di Gallo, la componente teatrale, avvertibile con evidenza già in Appartamenti o stanze e che qui, colorandosi di tinte quasi brechtiane, diventa funzionale a una sorta di estroflessione della memoria, le cui immagini vengono proiettate all’esterno. Gallo definisce ora con precisione assoluta il primato dello sguardo e dello spazio; sguardo e spazio che tendono a subentrare, rispettivamente, a voce e tempo. La dimensione temporale, su cui si distenderebbe una narrazione autobiografica condotta da una voce narrante, è sostituita dal piano spaziale su cui si esercita ossessivamente lo sguardo, nel tentativo di fermare i corpi in movimento, di portare con sé tutti i luoghi, di non dimenticarne nessuno. È proprio sullo sguardo e sulla estroflessione della memoria visiva e motoria che può fondarsi la possibilità di un’autobiografia, come atto necessario alla definizione di una soggettività.
L’immagine chiave del libro è l’altalena, che compare due volte: nel poemetto della sezione Le fuggitive («Siamo in una casa al mare/ tra gente che mangia e urla/ su un’altalena, in un parco», p. 28) e nella parte finale del testo conclusivo («Spesso guardo l’altalena nel parco sotto casa/ la spinta che la mano imprime all’oscillazione/ di corpi minuscoli e vulnerabili», p. 57). L'altalena è spazio e mezzo per un movimento che si ripete identico e che, solo, può darle senso. Ma per essere attivatrice di senso ha bisogno di due corpi e di un doppio movimento; funziona, cioè, in maniera simile all’ephedrismos, l’antico gioco greco che è al centro della prima parte: due partecipanti devono colpire una pietra-limite e «chi perde deve correre, e trovare la pietra, con l’altro sulle spalle e gli occhi coperti» (Nota, p. 59). Restituita a uno sguardo separato, che si ferma a «fissare quei corpi capaci di restare/ nel movimento dell’aria e della forza», l’altalena si rivela, allora, evidente correlativo oggettivo di quella coazione a ripetere che è il nucleo profondo e incandescente dell’opera.
Carmen Gallo, Le fuggitive, Nino Aragno, Torino 2020