Giovanna Frene, Eredità ed Estinzione, Roma, Donzelli,2024[1]
di Paolo Giovannetti
Frutto di un lavoro decennale, il libro di Giovanna Frene è – assai meritamente – uno dei casi letterari del momento, e certo avrebbe bisogno di analisi più precise di quella che qui si può realizzare, vista la gran quantità di problemi e di forme che convoca e che costituiscono un perentorio invito a ragionamenti di natura non solo letteraria. Che l’ultima sezione del volume precedente l’Explicit finale rechi il titolo Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda, già dice molto delle ambizioni che animano questo tipo di scrittura. Semmai (ma è una questione “comunicativa” che qui solo si sfiora), ci si può chiedere come mai un libro del 2018, uscito per Arcipelago Itaca con il titolo della sezione ricordata e contenente molte poesie ora riprese, abbia incontrato così poco interesse da parte della critica, e anzi – a ben vedere – sia passato quasi inosservato. La potenza mitopoietica (una mitopoiesi polemica, come spero di riuscire ad argomentare) di questa poesia era nell’aria, ma, colpevolmente, forse non ce ne eravamo accorti.
Oppure – ed entriamo in argomento – c’era bisogno che una struttura, una dispositio, spremessero il senso di certe invenzioni puntuali. Semplificando al massimo, quello che abbiamo di fronte è un libro che attraverso gli strumenti della poesia “studia” il valore della storia e del suo racconto, esplorando certi episodi ritenuti esemplari. Elenco le varie sezioni. Con Antichità romane, sono affrontate le vicende della battaglia di Adrianopoli (9 agosto 378) che di fatto rappresenta la fine dell’Impero romano, ma la cui ricostruzione già si manifesta come «rapporto sociale», «doppia finzione» (p. 23). Nelle Sestine bizantine, è in scena l’attentato di Sarajevo e lo scoppio della Prima guerra mondiale, non senza un indugio sulla prima «storia fotografica» rappresentata dal racconto della guerra di Crimea (p. 30) e su un importante ricordo di tipo familiare. Poi, in Canzoni all’Italia, ecco il punto di vista nazionale e “basso” sulla Grande guerra con l’ausilio del diario del soldato contadino Giuseppe Bof. Quindi, Larve acquatiche si concentra sull’immagine – mediata dal dispositivo virtuale del “museo” – dello scioglimento dei corpi in seguito ai bombardamenti di Dresda. Segue l’ecfrastico Linea gotica, dedicato alla celebrazione sarcastica delle imprese e del processo di Slobodan Miloševič, narrato – di nuovo – anche per reperti museali inventati e descritti, e quindi monumentalizzato. Con un arretramento temporale che andrebbe spiegato, si passa poi all’episodio di Mayerling, cioè al suicidio di Rodolfo d’Asburgo, ma soprattutto alla vicenda della sua giovanissima amante Maria Vetsera e del suo corpo profanato dalla ragion di Stato. Chiude il già ricordato Tecnica di sopravvivenza…, che è una riflessione all’insegna del “doppio sguardo”, della necessaria diplopia cognitiva – che peraltro, come diremo, sembra essere la più importante proposta di metodo proveniente da questo libro. A incorniciare le otto parti: un Introitus. Sestina funebre, in cui si leggono parole “pasoliniane” o “fortiniane” quasi di commiato («santi voi, enigmi incistati / nella vostra lingua morta, // mai più mia», p. 12); e un Explicit. Eredità ed estinzione, dedicato alla madre morta, in versione italiana e, da ultimo, latina.
La diplopia di Frene è un’interrogazione su che cosa significa “divenire storia”, su ciò che rende possibile la continuità memoriale di un evento, su un neanche troppo paradossale futuro del passato. Non si tratta (per lo meno non soltanto) del famoso contrappelo o contropelo di Benjamin, ma proprio dell’interrogarsi su quali storture e ingiustizie siano contenute nell’atto stesso di ricostruire e restituire i tempi trascorsi, non senza qualche sarcasmo verso il mestiere dello storico («che la storia non è un fatto, è invece un permesso, / a volta casuale»: così comincia una poesia dedicata a Carlo Ginzburg; p. 75). Le possibili definizioni di questo processo, appunto sottoposto a un doppio sguardo, oscillano fra opposte connotazioni: ora si manifesta come una ripetizione quasi abissale, consistente nel «torn[are] / indietro […] in un tempo incalcolabile», p. 39), ora ha le fattezze di una maiuscola «Storia crionizzata» (p. 46), a sua volta negata dalla paronomasia di una «scoria ustoria» (p. 25; corsivo mio); ma forse soprattutto si impone come una «storia» che «ha lucette dopo la morte, lucette dorate irradiate / al limite della nullità» (p. 70). Il discorso sul passato si confronta appunto con il pericolo dell’estinzione: che riguarda non solo la memoria e il ricordo, ma proprio il senso, il valore delle azioni umane. Tanto più si guarda al tempo e alle sue tracce, tanto più ci si convince del vuoto di significato che lo domina, anche se dentro questo vuoto siamo costretti a vivere. Siamo in presenza di una specie di doppio legame. Il passato impegna il futuro e lo aggioga, mortificandolo; ma il dominio va accolto e “detto”, senza scampo. La poesia è costretta a svolgere questo doloroso compito.
I tanti documenti (veri o falsi) qui esibiti consentono peraltro di collocare meglio l’operazione di Frene: i riferimenti al lavoro di Nicholson Baker (penso al libro di montaggio Cenere d’uomo, qui peraltro ricordato, uscito nel 2008), ma soprattutto all’oggettivismo di Charles Reznikoff e del suo Olocausto (del 1975), sono necessari, ma devono essere precisati. La scrittura di Eredità ed estinzione è sontuosamente avvolgente e inglobante, è capace di risucchiare il dato storico con tutte le sue potenzialità negative e di rimontarlo in maniera appunto ambigua, sempre al limite dell’ironia e del sarcasmo. Il punto decisivo è che – se si eccettuano i luoghi liminari – la soggettività è esclusa, pur entro una cornice che non può non essere detta poetica. La voce che qui parla è assertiva, pronuncia sentenze ed esprime opinioni; ma lo fa assumendo una postura impersonale, in senso lato descrittiva e narrativa, anche se forte degli strumenti istituzionali che trasformano un manufatto verbale in un discorso poetico.
Il ritmo e il linguaggio della “lirica” nella sua più ampia accezione (il riferimento all’opera di Andrea Zanzotto è scontato) combattono un corpo a corpo con la parola storica. La manifestazione quasi esemplare di un simile processo si ha nella sequenza delle tre Sestine bosniache contenute in Sestine bizantine. Qui, in ogni “strofa”, Frene annota tre versi “poetici” con spiegazioni storiche anche lunghe, secondo una procedura che pertiene alle scritture di questo tipo. Il fatto è che la glossa, l’annotazione in prosa, risale dall’appendice conclusiva – dalle annotazioni di fine volume – al corpo del poema, così da promuovere la parte esplicativa al ruolo di vero e proprio testo poetico, nella forma di un anomalo prosimetro. Il fenomeno non va sottovalutato, anche perché – paradossalmente – ha la funzione non tanto di desublimare il linguaggio lirico quanto di fluidificare quello storico: come se la spiegazione, l’illustrazione di un fatto poetico si manifestasse improvvisamente nella sua potenzialità – dicevamo – mitopoietica, ma in chiave grottesca ed eccedente. Insomma, sapere che Gavrilo Princip ha davvero dichiarato che «…un proiettile non va esattamente dove si vuole» (p. 38) non aggiunge nulla alla nostra consapevolezza fattuale, sì alla nostra diffidenza verso il valore del processo stesso di razionalizzazione, di storicizzazione.
Costringere la poesia a farsi storia, a parlare con la voce dei fatti che reputiamo – per convenzione – ricostruiti rigorosamente e in modo condiviso, significa dunque assistere a un processo di dissoluzione, a un collasso. Ma in questo modo di operare non c’è alcun compiacimento e, soprattutto, alcun vero nichilismo. C’è una perenne polemica, piuttosto, una rabbia repressa qua e là affiorante, e in luoghi nodali: «una impotenza tolta / e rimessa per sempre, come un peccato, che è / infinita sete», ma anche una «pioggia che non piove / piovuta una volta per tutte // in odio» (p. 112). Dove l’ananke del tempo, trasformatasi in verso, culmina in un sentimento di odio.
Insomma, certi contenuti di Nietzsche, fin troppo spesso presi in considerazione, finiscono per essere rovesciati. L’utilità della storia risiede nel risentimento che la storia stessa non smette di generare. Consiste nello sdegno, e forse proprio nell’impotenza, di scoprire le storture e i lutti – le apologie di storture e lutti – che ogni azione ricordata genera. E questo a me sembra un messaggio ampiamente condivisibile, per lo meno se viene messo in opera con le risorse “reversibili”, diplopiche, di questa splendida poesia.
[1] Salvo diversa indicazione, i corsivi contenuti nelle citazioni appartengono al testo.