p. 3-19 > Una “docilità volenterosa” o della poesia di Vincenzo Frungillo

Una “docilità volenterosa”

o della poesia di Vincenzo Frungillo

Toni D’Angela

 

ABSTRACT

 

Che cosa sopporta il verso di Vincenzo Frungillo? La ferita ricomposta nella parola. La parola che non si arrende alla Storia, alle sue violenze e alle sue rovine, che è strappo, dislivello, contro-piega. Una parola che, come vuole Roland Barthes, è peripezia, fa rumore inceppando il funzionamento della comunicazione. Una parola che affronta perfino la faglia animale, il primordiale, la caduta o, il che è lo stesso, l’origine. La poesia di Vincenzo Frungillo è interpretata in quanto materialismo in versi che addiziona materia a materia, senza cedere alla sublimazione. I versi di Frungillo scavano dentro l’abisso del quotidiano e proprio qui incontrano quell’altra origine, quell’altra caduta, che è la parola stessa.

 

 

What does Vincenzo Frungillo's verse stand for? The wound. The wound recomposed in the word. The word that does not surrender to History, its violence and its ruins. The word which is a tear, a difference in height, a fold, and a counter-fold. A word that, as Roland Barthes said, is an adventure that makes noise, jamming the functioning of communication. A word that even addresses what we can call "the primordial", the fall or, which is the same, the origin. Vincenzo Frungillo's poetry is interpreted as materialism in verse. It adds matter to matter, without giving in to sublimation. Frungillo's verses dig into the abyss of everyday life and right here they encounter that other origin, that "other fall", which is the word itself.

 

KEYWORDS

 

 rischio – vita anteriore - realtà/reale - filosofia - origine

 

 

1.

La poesia come lotta e amore

 

Che cosa sopporta il verso di Vincenzo Frungillo? Il sopportare è quasi ricorsivo nel primo libro di versi di Frungillo, I fanciulli della via maestra (2002):

 

«Lo strofinio di due trasparenze / Che non si sopportano sole»; «Ci si rassegna all’assenza, la si sopporta»; «sopportare la trazione del nuovo giorno»; «Che questo collasso non vi rapisca mai del tutto. / Questo è ciò che sopporta il mio verso»; «Ripercorrono quel canale, verso nuove rotte, / facendosi portare dalla corrente trasversale. / Tutto questo è ancora da sopportare».

 

La poesia, scrive Frungillo in uno dei suoi saggi raccolti in Il luogo delle forze. Lo spazio della poesia nel tempo della dispersione (2017), si fa carico di un compito, si sforza, sa sopportare questo sforzo, sopportare quel peso che è la differenza. La poesia, per dirla con l’Heidegger di A che poeti (1946), è in bilico. La parola Wage, rammemora Heidegger, significa bilico, pericolo. Die Waage è bilancia. Il bilico sta al centro del giogo, fa il gioco e si mette in gioco. Fare il gioco, il gioco del bambino – quello di Eraclito – andare per una via, avere un andamento, far muovere, mettere in moto. Da qui wiegen, pesare, far pesare nel gioco del movimento il peso per far pendere la bilancia da un lato o dall’altro. La poesia come Rischio. E come campo di forze, lotta. Ma anche amore. In un libro di filosofia che Frungillo dedica a Heidegger e al linguaggio, Il rischio e la perdita (2022), ritorna il sopportare – l’essere, che poi è ciò che forma l’uomo, debordando il suo sé. L’amore è la trascendenza che oltrepassa, è la comunanza – forse l’epica che tiene insieme in un rapporto senza rapporto la dispersione. Frungillo nel saggio scrive che la parola è questa cura amorosa, questa trama, ciò che sopporta la «contemporaneità dei mondi». Diotima ispira Hölderlin – e Arendt rimproverava a Heidegger di aver omesso l’amore. L’amore è incontro. La poesia è incontro che sospende la dispersione e l’insensatezza e il l’affaccendarsi nelle faccende quotidiane. Perfino nelle parole più stigmatizzate si apre un incontro. Ancor di più nella poesia. In questa vita anteriore in cui si dischiude la trascendenza, il soggiornare presso un mondo in un tempo sempre più indigente e di crisi. Questa è poesia di Vincenzo Frungillo: linguaggio originario e ferita, peso e differenza, corpo smembrato in un dramma ricomposto.

 

 

2.

Del trapasso e dello sbalzo (Ogni cinque bracciate, 2009)

 

Composto tra il 2002 e il 2007, anche a seguito dell’esperienza di vita di Frungillo in Germania e, soprattutto, del Crollo del Muro di Berlino, il poema epico-narrativo in ottave, è, come ha scritto nella Prefazione Elio Pagliarani, poesia che si fa «storia», racconto della Storia, quella che, con Hegel e Marx, è violenza, violenza che, con Benjamin, conserva o toglie il diritto del più forte; ma è anche storia di un racconto, di un farsi, perfino nel suo disfarsi, racconto anzitutto del tempo e non solo di quello storico. Come in Baudelaire, il lirismo qui è voce di un corpo e voce di un’epoca, voce inscritta ma mai circoscritta. Nella sua storia il racconto continua a rifarsi, la vita non cessa di zampillare, come una testa fuori dal pelo dell’acqua, per catturare un respiro o, forse, per gettare aria nell’aria e slargare il mondo sempre più vasto dei complotti e delle provette della Storia. La Storia, suggeriva sempre Pagliarani, è inscritta e si scrive in questi corpi a loro modo eroici – emblematici di una geologia storica, altari cui si consegna una promessa di liberazione o riscatto: «la via di fuga dalla miseria», salvarsi dal «puzzo di piscio».

Le nuotatrici della Germania dell’Est che trionfarono alle Olimpiadi di Mosca del 1980 che, per effetto delle pillole dopanti e di un training totalitario, avevano sviluppato una tecnica per spingersi oltre i limiti e respirare ogni cinque bracciate. Le pillole di Bigger Than Life (1954) di Nicholas Ray e The Wolf of Wall Street (2013) di Martin Scorsese, per sostenere il peso dell’immagine del benessere, della società opulenta, in questo caso. Il «fiato artificiale» che, dopo la caduta del Muro, depenna il senza respiro del “socialismo reale”.

La modernità come progetto incompiuto, cimitero di promesse, razionalità che dai Lumi a Auschwitz è stata solo calcolo e appropriazione? La modernità ha captato, incantato e incatenato anche quegli esperimenti politico-sociali chiamati “socialismo reale”. I record, le pillole e le provette, tutte figure di un movimento nichilista che perfino i pensatori della «rivoluzione conservatrice» avevano avvertito, anche se, a volte, con una certa ingenuità e comunque da destra. Perfino il sogno di una post-umanità – alluso nell’epigrafe scelta da Frungillo – è stato da tempo decostruito e abbandonato dal pensiero critico, penso alla pratica ecofilosofica Donna Haraway che parla di Humus in luogo di post-umano e di Homo e all’interpretazione trasformativa assembleare di Hardt e Negri, per cui l’oltreumano è, semmai, il Cervello sociale. Il Postmoderno, quello critico e non reattivo e decorativo, è proprio questa modernità della luce che contesta.

E «all’apice della luce» che avviene lo schianto, la catastrofe. La luce della verità che, come sapeva Leopardi, piuttosto che illuminare ha incendiato la natura. Il poemetto narrativo (e cinematografico), articolato per canti e sequenze, una tecnica che mima e, insieme, dirotta quella delle nuotatrici, si apre con la luce, al suo apice. L’orlo della catastrofe. Mito prometeico e fragilità pascaliana, come in Rebel Without a Cause (1955), ancora un altro film di Ray. Ma il poemetto è anzitutto strutturato dalla tensione tra realtà e reale, il «trapasso» e lo «sbalzo», la Storia e la sua contro-piega. Milo De Angelis, nella Postfazione al libro di Frungillo, parla di «cadenza guerriera» e «indizi funesti». Anche se i tagli di Frungillo più che funesti divaricano il senso e il candore.

La luce al suo apice, versione da “socialismo reale” dell’illuminismo tecnocratico già criticato dai francofortesi in fuga dalla Germania nazista e, più recentemente, da Sloterdijk, che parla di «nichilismo fotologico», intollerante alle zone buie, alle incertezze, alle esitazioni e perfino al diritto di giocare, piangere e amare.

I corpi di queste nuotatrici (Renate, Karla, Lampe e Ute) che si alternano nella staffetta (dorso-rana-stile libero-delfino) non possono essere veri «di fronte alla secca / che la Storia produce». Devono essere corpi che cantano la gloria della marcia del “socialismo reale”, la tragedia più tremenda nella storia del movimento operaio.

Ma all’apice della promessa, della luce, Frungillo, da subito fa inciampare la Storia, questa scivola: «Dal piede gocciola il tempo della memoria». Horkheimer e Adorno una volta commentarono l’effetto provvisorio del cloroformio, che dà solo un sollievo relativo, accecando la capacità del soggetto di ricordare davvero, come accade al James Mason di Bigger Than Life, anche lui, più che sottoposto a, interpellato da un training performativo. Alle nuotatrici è indicata «la traiettoria». Il traitterorismo, come ha mostrato Appadurai, è la vocazione terribile dell’Occidente da Platone all’Illuminismo e alla globalizzazione, non solo un grand récit moderno, ma un destino. Frungillo fa scivolare questo destino, come sulla superficie bagnata della piscina. Farsi volo, farsi gesto ma a dispetto delle pillole azzurre. La via di fuga, in ultima analisi e nonostante i trionfi e le medaglia, le fatiche e le deformazioni, è «un moto di gioia», questa gioia «riapre lo spazio della storia», da sempre e per sempre. Il trapasso e lo sbalzo.

Il poemetto è attraversato da questa dialettica, una lotta tra realtà e reale, ciò che è accaduto e l’accadere, la trama e l’evento, i record e gli amori. Lampe è alterata e macchinata, eppure «è come l’acqua, pressante la sua assenza / dolce e irraggiungibile la sua evidenza». Nonostante la realtà della gabbia, del doping, Lampe è reale. Questo reale è quando Ute, disegnata come le altre nuotatrici per incarnare quella traiettoria, «si sente fuori posto / mai coincidente con quel segno», Ute è nel reale quando «avverte il corpo come se fosse discosto». Il corpo, «sottile e nerboruto», è l’arena di questa lotta, «sottratto in frattali di minuto», realtà, «socialismo reale», ma anche «introiezione d’onde e di peso», reale, esodo.

Il poema narra duramente l’epica di questi corpi chiamati a cantare la gloria della modernità nella versione social-realista, ma Frungillo fa debordare il livello dell’acqua che la piscina, la tecnica, il training totalitario non possono trattenere – e si scivola: «un oscillare d’incertezza che sfigura» le regole della realtà, della Storia. Ma quando Ute (Sequenza IV, Canto I) «si carezza la pancia, la stira, / cerca sotto l’adipe lo stomaco, l’essenza della vita», noi siamo punti, quello è un punctum, un senso ottuso, come direbbe Barthes; un terzo senso oltre il livello informativo e simbolico (la Storia e le sue violenze e le risposte di chi l’affronta) – che pure non mancano e, anzi, contribuiscono ad articolare la narrazione del poema. Ma questa immagine – ancora una volta molto cinematografica – è senso eccedente, è supplemento, è Contro-Storia che riga il senso ovvio, l’informazione e il simbolo. Questa essenza della vita è forse l’essenza della poesia. Quando si scivola, si deborda.

La poesia salva, redime, come voleva Benjamin, «il destino dei perdenti», come quel padre che «sputava veleno», in uno dei momenti più dolenti e toccanti del poema (Sequenza IV, Canto II)

La Storia, con le sue «docce gelide», preme su quei corpi affinché «escano le spalle e la testa», che non possono nemmeno morire, perché «tutto il mondo» li deve seguire.

Le mattine hanno un cielo dal colore azzurro, come quello delle pillole. La Storia richiede di essere afferrata nella gara, quella scioccamente esaltata da Croce nel suo libro sul secolo decimonono, in cui celebra la «religione della libertà». Questa gara, questa competizione è il veleno che consuma anche il «socialismo reale», siamo ancora nella preistoria. Sopra la cresta dell’acqua che inonda e travolge, c’è però ancora una volta il «sorriso, improvviso, così bello / strappa il filo, è un volo puro», proprio come quello immortalo nell’ultima fotografia che chiude il volume, con le quattro nuotatrici che sorridono sbalzando fuori dai veleni della Storia.

Frungillo sa non solo raccordare ma accendere la «cucitura» che «lega la sconfitta alla vittoria», l’esitazione al trionfo, l’amore alla condanna, la realtà delle medaglie e il reale che, forse, è anche la «la pressione d’un corpo che chiede di morire?».

E, dopo tutto, il corpo e l’amore, Lampe e Ute, in quello che forse è il luogo più sublime del poema (Sequenza IV, Canto III): «L’amore non ha braccia e non ha gambe, / l’amore scagiona le mie attenzioni». È l’irruzione del reale: «Come poter resistere allo spessore del reale»? Le parole qui, quelle di Frungillo, si fanno carne, «trasparente e vitale». L’amore, con i suoi tonfi, i suoi scivoloni: «Ma il tuo abbandono non è niente / in confronto alla possibilità del tuo ritorno». Il reale smargina la realtà, questi corpi dopati e sottoposti a dressage, resistono, eccedono quelle macchinazioni: «l’articolazione / della spalla quando nuotiamo / ha sempre un raggio più ampio della trazione / dei nostri legamenti». È questo corpo, sottratto a articolazioni e legamenti, che può dire «Io sono già oltre il loro pudore».

Nel Canto IV l’intimismo e le accensioni liriche, come in una staffetta, cedono il passo a un linguaggio più desertificato, dalla Stasi alla Metastasi, radioattivo, ma tagliente, taglia l’aria, non si respira, le sequenze sono immagini di immobilità e morte, una poetica da “The Day After”. Versi anemici che cor-rispondono al divenire-anemia della Storia. E proprio quando crolla il Muro, quando si annunciano la «fine della Storia» e le nuove «magnifiche e sorti progressive», quando l’Europa straripa a Berlino. Ma lo sbalzo reale nel trapasso, non è quello di una Berlino che in gran parte non ha conosciuto il Modernismo e che salta a pie’ pari nel Postmodernismo di Postdamer Platz, il balzo dal «socialismo reale» al capitalismo globalizzato e neoliberista, ma l’esitazione, il volo, il velo, l’inciampo, anche «tra le rovine dell’impero» che, ormai, è il mondo intero, non c’è più un fuori – il libro di Hardt e Negri fu pubblicato nel 2000. Tra i cocci della «provetta di vetro», in cui il Secolo è stato «costretto», quasi un’eco heideggeriana. Quel secolo che per Mandel’stam aveva già la schiena spezzata appena nato. Le «magnifiche e sorti progressive», il progresso, anzi la narrazione della crescita delle stoviglie, sui resti del Muro, annuncia «Un solo organismo mondiale, senza distinzione / tra il fuori e il dentro». Poco prima che Frungillo cominciasse il suo poema, Hardt e Negri (critici del “socialismo reale”) scrivevano che la sovranità aveva ormai assunto una nuova forma, era diventata globale, un’unica logica di potere attraversava il globo, l’Impero, senza centro né confini, un mondo levigato che il capitale mette a lavoro sfruttando comunicazione, cooperazione e affettività.

Nel Canto V ci sono la caduta e i suoi pezzi, anche nella grafica appaiono le sospensioni, le discontinuità e, ancora e di nuovo, il candore. Il «franare» dei versi di Frungillo, una sorta di dis-gelo tellurico, entra in risonanza con le piogge non solo di Tarkovskij ma forse ancor di più con quelle di Béla Tarr. I suoi sono corpi catastrofici, che degradano, usurati dalle piogge e dalle attese, consumati e sospesi su ruderi e rottami, uno sfacelo non solo storico ma quasi cosmico. Ma anche i corpi di Tarr, come quelli di Frungillo, pur appesi a un filo, attendono un’apparizione, quei corpi sfiniti danzano, resistono anche se malinconicamente, anche se «la realtà scompare», dopo la caduta, tra le macerie, senza casa. Un paesaggio che è quello di Berlino, in particolare Berlino Est, della Germania e non solo dopo il crollo del Muro. Anche i corpi delle nuotatrici, come quelli che danzano nelle bettole ungheresi di Tarr, sono attraversati da un fremito, da «un risalire», danno fiato «alla nostra odissea». Da quei corpi, per molti aspetti ridotti a rottame, germina «un nuovo inizio, un diverso candore».

Questi sono gli strappi di Frungillo, la sua rigatura che strappa un’esitazione, una speranza al «mondo spezzato» dalla Storia. Questi barlumi improvvisi, questi corpi che sono testi e resti, discorsi in cui si inscrive e scrive la Storia. Berlino, ancora oggi, è disseminata di questi testi. Questi corpi non sono cyborg ma nemmeno monumenti, testi, tracce che c’è stata Storia, violenza, ma anche amore, resistenza, i «veleni del mondo» e il candore.

Come in un’inquadratura di Tarkovskij, quella sedia, quel tavolo, quel piatto, quel bicchiere non sono soltanto miei. La «fede» di Frugillo, che sta nella sua poesia, non è nel passaggio dal «socialismo reale» senza respiro, in cui non si può respirare, se non ogni cinque bracciate, al «fiato artificiale» del capitalismo globalizzato che non ha debellato né guerre né diseguaglianze, ma nel salto, lo sbalzo che rovescia il verso conclusivo – che non a caso piacque molto a De Angelis – niente affatto funereo e terminale: «la morte aspetta sempre che la vita le getti un’esca» dice: che la vita si faccia esca affinché la morte le si getti addosso.

 

 

 

3.

L’amore in manette. Il cane di Pavlov (2013)

 

La «falda di natura» da cui si allontanano le donne e gli uomini, le une oche perché direzionate (dagli uomini) come l’ochetta di Lorenz e gli altri cani che obbediscono agli stimoli, rispondono condizionati dal loro capo. È il tarlo del totalitarismo – anche di quello delle merci: avere sempre un «fido». Micro-storia, una drammaturgia minimalista, come cristallo dell’accadere storico, della macro-storia.

Ancora un poemetto cinematografico e narrativo, ma la lingua gelida è ustionante. Ma che cos’è la peripezia? Non semplicemente un espediente che manda avanti il racconto, che ne ritarda l’esito incuriosendo il lettore e puntellando così la storia. «L'uomo non si rassegna / ad una vita senza storia». Narrazione poetica ma anche volontà di farla finita con la storia, le sequenze, l’incipit, la conclusione. Volontà di rompere la volontà di lasciare tracce, di cercare un rifugio che rassicura, perizia piuttosto che peripezia. Per Barthes peripezia è mettersi fuori posto. Quello che, forse con troppa perizia e poca arte delle dosi, cercano i due personaggi di questo Pavlov.

Il divenire-immagine della merce e non solo la mercificazione dell’esistenza. Milano è città della vetrinizzazione del sociale, come la chiama Aldo Bonomi, della miseria della vetrinizzazione, capitale italiana dell’economia dei desideri, della finanza che, come l’aperitivo, si schianta nella nostra vita quotidiana. Ecco la peripezia dei nostri eroi, cani e oche. Condizionati anche quando la merce è assente, il suo segno, l’immagine, lo spettacolo, ormai è ciò che fa sbavare. Certo se… «Se il cane avesse afferrato l'osso, se non ci fosse stato un ostacolo / tra lo stimolo e la risposta, / si sarebbe saziato». Appunto. Ma come si fa a saziarsi inchiodati nella «satellizzazione del reale». Noi guardiamo attraverso gli occhi di Instagram, degli schermi dislocati dappertutto, dei satelliti, ecc. Una galassia complessa di rappresentazioni e condizionamenti.

Qual è l’oggetto del desiderio? Cos’è ormai il desiderio? Di sicuro «Gli aperitivi a Milano sono una fregatura / mangi grassi e frittura / e non sei mai davvero sazio». Il Virtuale, scriveva Baudrillard, è la scomparsa della realtà. Ciascuno di noi è interpellato, come avrebbe detto Althusser negli anni Settanta, dal virtuale, pertanto ciascuno di noi già «recita» nella vita ordinaria: acting out.

L’aperitivo milanese! Nella società dello spettacolo «Si salva solo chi danza in catene». Ma il sensismo materialista riaffiora, con intensità e stranezza, nella carne macchinata dal sesso, poco convenzionale, «estremo», terreno finalmente reale in cui sperimentare, sentire il desiderio, la vita che, altrimenti, affonda nelle sabbie mobili della banalità di base, là dove la peripezia è solo perizia. L’orgasmo è anch’esso contraddittorio, Bruno viene ma guardando l’immagine di Martina che beve il vino. Poi, però, si sentono quando si mordono e si prendono a schiaffi. Piaghe sulla pelle, fede nell’esistenza. Fight Club/Fight Sex. Il sesso che forsenna l’orgasmo e la sua ortopedia, se è così, allora, come vuole Lacan – o Warhol – non c’è rapporto sessuale. Estasi – ma non della comunicazione. Forse quella di Bataille. Anche il poeta, Frungillo, sperimenta il fuori-di-sé parlando la voce di una donna. «Non ero più io,/ero desiderio che prende peso, / una musica che occupa spazio». Fuga in cui risuona, ma disperatamente, il volo delle nuotatrici.

Senza passione, ciascuno di noi corre lungo la sua orbita, chiuso in una bolla. Oggi psicologi e pedagogisti parlano di «ritiro sociale», per esempio a proposito degli adolescenti, rinserrati nei bubble, come nel film di Steven Soderbergh. Bolla o satellite, questa proliferazione di immagini ha una qualche correlazione con l’aumento dei disturbi per questo nostro corpo che, al cospetto di tutte queste immagini, questi spettacoli ci appare fin troppo reale, fastidiosamente reale, eccessivamente reale e anche, come in questa drammaturgia in versi, eccessivamente eccitante, attraente.

La «funzione» e la «linea d’ombra». Serpeggia ancora l’inciampo, la rigatura, il rumore, il debordare dell’acqua dalla piscina: «sabotare le costanti». Le costanti di un mondo che Adorno avrebbe chiamato amministrato – anche se dall’algoritmo. Ma questa volta, a differenza di Ogni cinque bracciate, Frugillo racconta l’over-dose, il poco dosaggio che la coppia di amanti sado-maso usa per saltare fuori dalla linea d’acqua. «Io e lui cercavamo qualcosa, / che si nasconde nelle pieghe/troppo luride della nostre vite».

Una storia fredda e gelidamente muta di regsination non solo dalle forme del lavoro ma anche dai riti sociali che a quelle sono ancorate. Una poesia d’agonia ma che, nel suo contro-testo, il testo s-regolato di Frungillo, nella sua differenza è anche sottile e ironica. Nel suo primo libro di versi, Fanciulli sulla via maestra, Frungillo scriveva: «tanta fragilità trattenuta in un solo corpo / questo dramma ricomposto», è come la sinossi di questo suo libro più maturo che, come quello, è anche inquisizione della poesia, della scrittura. La differenza di una scrittura, quella di Frungillo, che non è la voce dei personaggi, né il loro sesso che, come sapeva bene Barthes, è sempre semantico, origine del significato. Il contro-testo, i versi gelidi ma sensuali di Frungillo sono ciò che fa inciampare, il traboccamento – che libera dalle manette.

 

 

 

 

4.

Della ferita che si fa parola. Le pause della serie evolutiva (2016)

 

Il quarto libro di versi di Frungillo, scava in quella ferita aperta non solo e non tanto dalla Storia e dalla sue violenze, ma in una «faglia animale», un’anteriorità, una ferita che è la vita stessa nei suoi ritmi e nelle sue pause. Quegli inciampi, quegli slittamenti, quelle gocce improvvise che tagliavano il senza respiro della Storia in Ogni cinque bracciate, qui colano un sangue ancora più primordiale. La ferita è «distonia», «piega straniera», certo violenza, ma non storica ma originaria, anche se la fonte, come sapevano Valéry e Derrida, è già da sempre divenuta. L’anteriorità, «il vertice naturale della distruzione» è pur sempre cantato: «la nostra natura è fatta di parole». La vie antèrieur dai vastes portiques di Baudelaire, ma ancor di più quella del materialismo. Oppure, con Heidegger – sui cui Frungillo ha scritto un libro dedicato a filosofia e linguaggio, Il rischio e la perdita (2022) – l’anteriorità è quel mehr, quel «più» che risiede nell’Essere e che, al tempo stesso, è templum dell’Essere, cioè la parola? È la circoscrizione, il cantare il canto...

Poesia versata, versi che si riversano. Poesia sulla caduta, cadere è nascere, cadere dalla nascita verso la morte. Nel poema in cinque canti sui corpi delle nuotatrici disciplinati dall’età del mondo, c’è la dimensione dello «storico», qui, con un riferimento storico devastato dalla natura, c’è come una dimensione più «cosmica». Come il Leopardi di Sebastiano Timpanaro, Frungillo avverte il condizionamento, il peso non solo della storia (realtà economico-sociale) ma anche di quella che lui chiama «meccanica pesante», la «forza logoratrice e distruttrice» per dirla con Leopardi. Cadere è nascere, cadere è morire.

È la lezione del De Rerum Natura di Lucrezio, testimone di questo libro di versi. All’alba delle cose c’è come un piano inclinato, come un tavolo di Cézanne, su cui tutto rotola, anche la nostra anima. L’atto di nascita della natura è questo declinare. La sua stabilità è l’inclinazione, come la «palla sospesa» di Giacometti. La natura è (alla) deriva. Una caduta. Del resto anche la fisica moderna nasce nella discesa, con i gravi, le regole della caduta di Galileo. Una caduta. Se l’uomo è natura, allora l’io è un turbine: una dissipazione che si disfa. La morale, come ricorda Michel Serres, è la fisica.

Di questa dissipazione si sostanziano le parole raccolte in questo libro. Eppure, ancora una volta, c’è una pausa, c’è «la tenerezza dello stare al mondo», nonostante la violenza, la barbarie, c’è «il mancato utilizzo / d’ogni oggetto» che fa sobbalzare la «meccanica pesante». L’apertura del libro si raccorda con la sua conclusione: la sedia, che è mezzo e che il poeta usa per scrivere i suoi versi, cola a picco nel mistero se pensata «nell’insieme / della sua astrazione» Nel canto di Frungillo l’uomo è come quella palla sospesa di Giacometti: «un capezzolo che guardava il cielo / l’altro l’inferno». Nell’uomo «i due estremi si toccano», il tenersi insieme degli opposti impasta la nostra natura – parlante.

Sì, perché se la nostra natura non è che un invaginarsi della natura, della «meccanica pesante», della nostra natura è «tradire» – con la parola. Con la parola ci sforziamo di risalire alla fonte, divenuta e parlata, di «risanare ogni volta l’assenza che ci forma». Siamo questa ferita – non siamo. «Che questo collasso non vi rapisca mai del tutto. / Questo è ciò che sopporta il mio verso, / Tutto questo è ancora da sopportare», scriveva Frungillo nei suoi versi giovanili raccolti in Fanciulli sulla via maestra.

Per Montaigne l’uomo è tra le cose, è solo un modo di essere della natura, una posizione. La natura genera l’inesauribile diversità del mondo e il suo inesauribile riflesso in noi. Non si tratta di cogliere il segreto della natura, ma di lasciarsi portare da essa. La natura ci include in se stessa, è attiva in noi, per questo bisogna lasciarsi andare alla natura. L’uomo è chiamato a coincidere con il dettato della necessità naturale. L’uomo appartiene alla natura. Paradossalmente la «natura» dell’uomo consiste nella facoltà razionale di contraddire e di sfigurare il dato naturale: «la nostra natura è tradire», scrive Frungillo, sfidare la distonia, siamo comunque imbarcati tra azione e reazione, nella «tangenza» in cui si tengono insieme gli estremi. Traditori – come Aguirre – non padroni. Come sapeva Montaigne, anche Frungillo ripete che «non si afferra ciò che ci precede». Forse quel lato asciutto di cui Frungillo parla nel suo primo libro Fanciulli sulla via maestra?

 

«Può essere che tutte queste voci

Conoscano il lato asciutto dove andarsi a posare?

Sono frange di alghe che catturano il nero terriccio

per legarlo ancora al mare.

Se è così che ciò che taccio

restituisce

chi da sempre lo ha posseduto

com’è che ancora mi spauro?»

 

Per Montaigne l’uomo è formatore, tende a formare, correndo il rischio della difformità e della deformazione. Come conciliare natura e forma? Come realizzarsi senza tradire la natura? Conosciamo le risposte del Capitalocene e anche quella di Heidegger, non ci occorrono né l’una né l’altra per staying with the trouble. Forse quella catena cui il poeta alludeva nella Ginestra, che ritorna nei versi di Frungillo: «il fruscio di fondo della macchina, / il suo motore che continua ad andare, / ci unisce gli uni agli altri». Invecchiamo, soffriamo la solitudine, ci allontaniamo, ma, anche se la macchina continua il suo moto pesante, siamo sempre uniti e non solo agli altri uomini. Questa è «l’assenza che ci forma», l’altro che non siamo.

Co-abitare le «terre straniere», altrimenti davvero «Non serve lavare la biancheria, / se poi scende cenere / sulle case vuote»; altrimenti sì, c’è da chiedersi «se tutto questo sia vero». Dal sogno ci risvegliano «le voci dei muratori / che alzano ponteggi al cielo», come se i loro gesti fossero un «modo per zittire i cani» sognati. I cani sognano? Hanno memoria? Ancora una volta l’assenza che ci forma, l’altro che non sono. Se lo domandavano anche Kant e Husserl, ma la risposta poetica apre orizzonti e intensifica la vita: «Rientro nella faglia animale». Senza alcun idealismo né cornice idillica, perché «è scissa la faglia in cui m’innesco».

Bailly suggerisce che non ci sono regni animali e regni umani ma solo passaggi, fughe e incontri. L’incontro improvviso, nella notte, con l’animale è incontro con una gioia arcaica, senza nome, fuori di confini. L’uomo non è se non un recinto, ciò che se si separa dall’animale, che esclude l’animale. L’animale è come nascosto, ecco perché lo si incontra di notte all’improvviso, come gli dèi o la natura che ama nascondersi. La bestialità rimossa o dimentica dall’uomo è selva oscura, accesso alla vita selvaggia, all’intimità perduta. A questa bestialità attinge l’arte da Lascaux a Pollock? L’animalità è sempre pronta a risvegliarsi nel fondo dell’uomo. L’arte non che, come vuole Kant, rende l’uomo sensibile all’altezza del suo destino – al di sopra di cose e animali – ma che risuona e rimbalza nella «grande ragione», nel corpo dell’uomo, risvegliandone l’animalità. Lo sguardo dell’animale, quello dell’«Ottava elegia» di Rilke, è aperto, sospeso sull’immenso, non un occhio teso come una rete che vuole catturare l’aperto, l’occhio umano. C’è un partito preso delle cose, le cose hanno un’aura, come in Ponge o nei paesaggi di Cézanne.

Non si può risalire alla fonte, non serve sperare in una riconciliazione. Ciò che importa è l’innesco. Perché siamo questa faglia scissa, questa scissione, questa assenza, anche questa separazione tra umano e animale.

Siamo questa assenza, c’è da imparare ad abitare le «terre straniere». E non lo si fa canalizzando «il vertice naturale della distruzione», riducendo la physis ad un’immagine e a un fondo, racchiudendo «la forza nella vasca della piscina». E poi, dopo Ogni cinque bracciate, sappiamo che l’acqua deborda sempre i confini della vasca. Abitare le terre straniere sapendo che «il mio modo d’avere voce/è un rantolo che non m’appartiene», risuona ancora nel verso di Frungillo il materialismo dell’anteriorità, di Lucrezio, di Leopardi. E poi, poi che cosa cacciare ancora? Se la preda «si è estinta dalla faccia dalla terra» – soprattutto in questi tempi di indigenza, che Frungillo in un suo saggio chiama dispersione (Il luogo delle forze, «Il tempo della dispersione»). L’uomo è forza ma anche rantolo.

Come Plinio il Vecchio, diventa «calco della terra». Per affrontare la «sparizione» no, «non serve lo sguardo frontale, / la postura verticale del primate», quella che secondo Freud addomestica l’uomo pronto a vivere civilmente allontanandola dall’orizzontalità animale, a cui torna Pollock. E infatti dal materialismo sensuale di Frungillo emerge, tra carcasse e elementi, che «devi solo andare tra le pozze».

Morire è far crescere l’erba, da Lucrezio a Stan Brakhage. «Finire non è uscire dalla vita / ma è restare per sempre / nella sua scena madre». In «L’estate di San Martino», tratta dalla sua prima raccolta, Frungillo ha scritto: «La verità più spietata è che niente mai / realmente si consuma». Noi siamo questa «ferita mortale». Saperla o poterla guardare è uno sforzo, sul limite. C’era già Lucrezio nel primo libro di versi di Frungillo, c’erano i crolli di cui parla anche Lucrezio, crolli verticali non si scelgono, si subiscono, certo. «Misterioso non è il tutto che crolla

Ma quel poco che di volta in volta resta», la crudele verità, poiché: «Fa la spola tra i fiori e il mio orecchio / La volatile struttura del mondo» («Misterioso non è il tutto che crolla», I fanciulli della via maestra). Nonostante i crolli, la serie evolutiva è pur sempre punteggiata da pause e, senza alcuna ricaduta nell’idealismo – magari kantiano – «la parola del poeta» è ciò che «cattura ogni particella». «Sarebbe polvere lunare / senza il suono della sua voce» – ma, ricordiamolo, la voce non ci appartiene. Le lacrime del poeta sono pur sempre asciugate da quella stoffa che è la materia prima e poi il suo «tessuto di pergamena / traduce il canto delle cicale», ma solo perché la stoffa è la medesima, come se la natura (delle cose) cantasse da sé – ma non è Kant e il suo «uomo di genio» finalità della natura, semmai è Roberto Rossellini o Ponge.

L’uomo delineato nei versi di Frungillo è «mutazione costante» e la pergamena del poeta è graffiata dalla sua penna perché questa è come ridestata dalla «semiosi concreta». Un uomo che ha da incarnare la ferita, come Joe Bousquet, quella ferita che ci attende, che ci precede, che è là per noi. Ferita venerea, di «latte e urina», ancora la tangenza in cui si toccano gli estremi. Ma la regola è una sola, la natura, a ciascuno sta incarnare la ferita, scegliere la sua caduta. «Una / è la regola / ma varia la misura». Prendere le misure non per appropriarsi, ma cadere per darsi una misura. Questo è rientrare nella faglia animale, rientrare è muoversi e «solo se sto fermo imputridisce il mondo» e la sedia, quella evocata anche in Ogni cinque bracciate, con la sua agentività, non solo «rinnova la sua funzione» ma «ringiovanisce la mia morte».

 

 

 

 

 

5.

Il disincanto nel tempo delle prove. Prime scene di caccia (2021)

 

Ma incarnare la ferita non è da poco, è «il buco nero che ci sta accanto», il nostro quotidiano, il «mostro quotidiano» che da «dentro» scava, erode, ustiona. La ferita siamo noi anche perché quando «veniamo al mondo /– ‘distruggiamo il mondo’ – / con un solo gesto, lo stesso». Il nostro incedere è, ancora, una caduta, uno «spezzando». Entrando nel mondo anche noi siamo una ferita per questo. Nessuna marcia trionfale.

La parola, che è tradimento, è anche «inizio di ogni cosa», perché «in sua assenza è tutta pianura». Distese di vento sbarrano gli occhi sospesi nel colore-fermo. E, subito – senza volontà alcuna – sono come ravvivati dall’odore tagliente della lettera. Quando la luce si spegne, appare la parola, che saliva, si fa secca, prosciugando la luce, la fiamma, ghiacciando braccia e gambe. Il cuore singhiozza. L’occhio, muto, percorre questo movimento e questa furia. Le prime scene di caccia, per temi e lingua, proseguono Le pause della serie evolutiva, il passaggio dal fisico al meta-fisico. La cosa è là dove è la parola? Heidegger? Stefan George? Forse. Ma la parola è anche caduta, un cadere dal letto, un cadere di nuovo, «la prima immagine che vede», «una macchia scura che diventa figura». Quasi Beckett.

Anche qui l’uomo è distonico, un «essere-di-mezzo» che guarda al cielo e all’inferno, «che graffia la roccia, / segna il solco sul muro», come quei cacciatori-pittori di Lescaux, l’origine dell’arte, ma anche l’arte dell’origine, la figura che prende corpo dalla macchia, da un buio che comincia a parlare. Ma anche solo «in mezzo alla scena», nel mentre, parlare – agire.

La parola come origine, l’origine della parola. La poesia! Romanticamente la poesia come linguaggio primordiale. Frungillo, titanicamente, prova l’impresa del risalire alla fonte. Poesia come infanzia perduta, innocenza, poesia ingenua, come diceva Schiller? Ma c’è di mezzo il Moderno, «sentimento moderno», la crisi, la scissione se non la infelice – e ormai pure la fine dei grand récits. Forse più Friedrich Schlegel, poesia primitiva, poesia come ritmo. Quella poesia, quella «linea di parole» originaria, «che viene prima, ancora prima, / di ogni vittoria e di ogni sconfitta», oltre o al di qua della caccia e della preda.

Ma il materialismo dei versi di Frungillo lo frena dalla tentazione di aggirare, di prendere da dietro ciò che, appunto, ci precede, l’anteriorità. La parola forma, lavora perfino le pietre per la caccia, ma «ogni forma ha in sé il suo rovescio, / è una vendetta che lega alla terra» e poi questa forma è pur sempre una figura di quell’assenza che ci forma di cui il poeta parla nelle Pause, è la vendetta di quella terra cantata dalla parola «che copre mentre dissotterra», dis-vela direbbe l’Heidegger che commenta Anassimandro, Parmenide e Eraclito. Ma il filosofo non avrebbe accolto l’immagine della vendetta. Forse. La parola, pure quella originaria, primitiva, il verso, canta sì, ma chi canta è «attore», certo non un «personaggio», ma nemmeno l’«autore». Siamo chiamati a compiere l’azione «ma senza una precisa indicazione» come se assecondassimo «una forza superiore». Geistskraft, con Herder? Questa forza originaria, questo impulso primordiale che si dispiega storicamente nelle diverse lingue, che sono anche diverse visioni del mondo in cui il singolo soggetto empirico è già gettato, pertanto nel suo atto di parola risuona l’oggettività storica della lingua parlata e anche questo Geistkraft, che nondimeno non è mai riducibile al piano dei significati di cui il soggetto empirico è consapevole e «padrone». È questa la forza «priva di nome» cui allude Frungillo? O l’Essere heideggeriano? Forse di meno – forse di più. Un vuoto in cui si inscrive sempre la nostra azione – anche se non siamo poeti – «sull’angolo aperto della creazione», che poi potrebbe essere una definizione del clinamen lucreziano. Non c’è sublimazione, la parola, la «figura è un’ombra», non toglie, non c’è alcuna visione ideale come in Plotino che toglie, cesella, scava la materia fino a liberare l’idea, lo spirito. I versi di Frungillo sono materialisti: la sua parola, non trasfigura, ma «aggiunge materia».

 

Fra noi e «la luce del sole» si «frappone» l’«ombra lunare». È una caduta, e il soffio può diventare spasimo, il nome può perdersi. Ma si può imparare. In fondo, scriveva Deleuze, si impara ad amare da vecchi. «Non serve ritirarsi in convento, / bisogna patire il peso degli stracci/sui badili, le scenografie del pallore, / le camere vuote, bisogna ghignare» anche «alla vista dei poeti chini sulle parole». Nessun idealismo né vocazione o funzione per il poeta che si crede davvero io. Il dis-in-canto di Frungillo – rispetto alle vibrazioni e alle sferzate dei primi libri di versi – con un richiamo anche alle polveri che ci avvolgono di De Angelis e soprattutto a Biagio Cepollaro («il nero / sullo sfondo e intorno da sempre ha richiesto un raggio / di piacere e presenza un antidoto buono a fare di poco / un mondo», Al centro dell’inverno, 2018), ma, poi, ancora una volta anche al Lucrezio delle Pause – ci invita, senza intidimidazioni, a stare: «bisogna stare qui, nel mentre». «Non ne verremo mai fuori» magari, ma stoicamente, e perfino agostinianamente, stiamo, stiamo nel «tempo delle prove». Epicamente, come Frungillo scriveva a proposito della poesia di Pagliarani, capace di contenere la dispersione e, al tempo stesso, di esporre il rischio.

 

 

 

6.

 

Per Heidegger i poeti sono quei mortali che si arrischiano, il cui canto è udire il Ritiro, un vento. Il poeta è colui che, come Rilke, è volto verso l’Aperto, il suo non è ma un volente prepotente, ma ha una «docilità volenterosa». Un tratto che, certo, delinea il ritratto di Vincenzo Frungillo.

 

 

 

 

Bibliografia

 

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L- ALTHUSSER, Ideologia ed apparati ideologici di Stato, in Freud e Lacan, Roma, Editori Riuniti, ,1977

J.-C. BAILLY, Il versante animale, Roma, Contrasto, 2021

R. BARHTES, Il terzo senso, in Sul cinema, Genova, il Melangolo, 1994

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J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 2007

A. BONOMI, Il distretto del piacere, Torino, Bollati Boringhieri, 2000

A. BONOMI, Milano nell’Expo, Milano, Shake Edizioni, 2009

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V. FRUNGILLO, Ogni cinque bracciate, Firenze, Le Lettere, 2009

V. FRUNGILLO, Il cane di Pavlov, Napoli, D’if, 2013

V. FRUNGILLO, Le pause della serie evolutiva, Salerno, Oèdipus, 2016

V. FRUNGILLO, Il luogo delle forze. Lo spazio della poesia nel tempo della dispersione, Messina, Carteggi letterari, 2017

V. FRUNGILLO, Prime scene di caccia e di morte, Milano, Zacinto Edizioni, 2021

V. FRUNGILLO, Il rischio e la perdita. Su identità e linguaggio in Martin Heidegger, Milano, Mimesis, 2022

M. HEIDEGGER, A che poeti?, in Holzwege. Sentieri erranti nella selva, Milano, Bompiani, 2014

M. SERRES, Lucrezio e l’origine della fisica, Palermo, Sellerio Editore, 2000