Carte e inchiostro al Caffè Garibaldi di Trieste
Simone Volpato
Cosa si nasconde dietro una dedica? Ed è possibile comprendere il substrato, il contesto che conduce all’atto del dedicare? E soprattutto si può partire da una dedica per fare un esercizio di critica letteraria o di microstoria delle biblioteche? Queste tre domande retoriche hanno già trovato, ritengo, ampia risposta in saggi che sono colonne della bibliografia critica[1]; voglio dire che possedendo nel proprio scaffale questi strumenti bibliografici è possibile trovare un porto sicuro al groviglio di questo paratesto che oramai «ha tutte le peculiarità di un vero e proprio sottogenere letterario e che, onnipresente e multiforme attraverso le epoche, sollecita una riflessione tanto sulle strategie retoriche e sui topoi che lo caratterizzano, quanto sulle implicazioni culturali e sociali del suo impiego»[2]. Aggiungo anche un’altra annotazione prendendo a prestito le parole di Laura Novati: « [la dedica] è un microgenere relativamente recente (fra i librai antiquari si fa addirittura questione se aumenti o tolga valore al libro stesso, se libro di prestigio e d’autore, anche se la discussione ha senso solo considerando “chi” ha firmato la dedica) e comunque si distingue oggi in due grandi categorie: la dedica dell’autore all’acquirente / lettore; la dedica dell’acquirente alla persona a cui intende regalare il libro»[3]. Cerchiamo di vedere se anche la casistica che qui si presenta, frutto di recuperi d’antiquariato, per la prima volta possa essere inscritta in quel contesto di metodo o se può rappresentare una sorta di deviazione-variante.
In quel struggente libro che è Trieste nei miei ricordi[4] Giani Stuparich effettua una radiografia del panorama letterario triestino e soprattutto stende una serie di referti clinici sulle figure che animavano e abitavano quella particolare letteratura (di confine? di carta?) il cui tratto distintivo era anche un spiccato senso dell’individualismo, spesso saldato, e non è una contraddizione, anche da sincere amicizie: del resto, osservavano Angelo Ara e Claudio Magris «Trieste è stata contemporaneamente un amalgama di gruppi etnici e culturali diversi […] e un arcipelago in cui questi gruppi restavano isolati e chiusi gli uni agli altri» dove «la multinazionalità culturale di Trieste sembra un fatto soprattutto di élite […]; è l’eccezione e non la regola».[5]
Dunque, in una delle più intense pagine del suo romanzo Stuparich fissa un quadro che ha per soggetto gli abituali frequentatori del Caffè Garibaldi situato un tempo in Piazza Unità n. 5. Ecco la trascrizione della pagina nella quale consiglio il lettore di tenere conto non tanto dei nomi ma di come quelle persone entrano nel quadretto, come l’indolenza si saldi al vitalismo, come il silenzio venga amplificato dalle voci, in breve un piccolo trattato di psicologia mitteleuropea:
«Quasi sempre primi al tavolo si sedevano Romanellis e Rovan. [...] Un giudizio di Romanellis era sempre a fuoco, caustico molte volte e penetrante, anche se espresso in sordina e al margine d’una insospettabile modestia. Vicino al volto, d’una sensibilità un po’ demoniaca, di Romanellis raggiava e s’incupiva l’ingenua faccia popolare di Rovan: erano legati da lunga e costante amicizia [...]. Regolarmente, con la sua abituale puntualità, coi suoi brevi passi sospettosi arrivava Emerico Schiffrer, amico di pittori e pittore lui stesso, finissimo intenditore di musica e di poesia: uno di quegli spiriti tedeschi tutti piantati nella solarità mediterranea [...] E arrivava al tavolo anche lui, l’amico di Joyce, che dopo un trentennale misconoscimento da parte della critica e del pubblico, giungeva di colpo alla rinomanza: Italo Svevo, il più grande romanziere italiano. [...] Con Svevo Trieste si portava sul primo piano della letteratura italiana europea. Egli aveva preso l’aureola che gli porgevano, e con le proprie mani se l’era messa in capo, sfavillando come un bambino festoso. Italo Svevo sapeva fondere con la sua animata e spiritosa socievolezza la compagnia del caffè Garibaldi. Nasceva un calore comune, che senza di lui era come disgiunto fra i piccoli gruppi a sé e le presenze silenziose. Egli apriva con la sua larghezza d’uomo di mondo la conversazione e la conchiudeva col suo bonario sorriso particolare. Parlasse di Londra, di Parigi, di Firenze, il suo tono era sempre triestino: in lui ci riconoscevamo tutti. [...] Svevo ci faceva ridere coi suoi ricordi e con le sue svariate «avventure». Bolaffio disegnava sul marmo del tavolo i suoi due uomini seduti, discorrendo, sulla panchina; e ora accentuava la rosa, in mezzo a loro due, delicatamente abbandonata fra le dita di quello a sinistra, ora la cancellava. Rovan si diceva felice d’essersi finalmente procurato un bel blocco di pietra del Carso, lui costretto dalla povertà a popolare il suo studio soltanto di gessi. Saba già interpretava i sogni e i «lapsus» al modo di Freud, ma aveva l’animo pieno, traboccante dagli occhi, della sua novella vena poetica che creava Le canzonette e Le fughe. Giotti raccontava qualche suo incontro, descriveva una scenetta di mercato, un ambiente di osteria: era come se disegnasse e dipingesse, e tutti l’ascoltavano e «vedevano». [...] Ma alla tavolata aperta venivano ospiti occasionali molti altri triestini e forestieri. Veniva di tanto in tanto il filosofo Giorgio Fano, il primo in Italia che avesse opposto solidi argomenti alla teoria crociana [...] Veniva il pallido e intelligente Guido Voghera, matematico e musicista; Silvio Pittoni, fratello del deputato socialista, e amico di Rovan e Schiffrer. Timmel, pittore klimtiano, fantasioso decoratore, si sedeva spesso al nostro tavolo, sfoderando violenti paradossi nel suo gergo colorito e sboccato. Ci veniva Luigi Aversano, il bersagliere napoletano, innamorato di Trieste, che dipingeva e scriveva versi. Anche il pittore impressionista Tullio Silvestri faceva qualche comparsa [...]. E tanti altri. Fra i giovani, sempre con noi, Roberto Bazlen: «Bobi».
Manca in questo ritratto di gruppo solo Slataper morto nella prima guerra mondiale (ma non so come sarebbe stato accolto); e si profila anche una giovanissima Anita Pittoni che quando nel 1949 creerà la casa editrice «Lo Zibaldone» pubblicherà le opere di questi frequentatori: Giotti, Saba, Svevo, Schiffrer, Rovan. In questo nostro breve saggio analizzeremo tre diverse tipologie di dediche: iniziamo con la dedica manoscritta di Italo Svevo ad Attilio Hortis dell’esemplare di Una vita soffermandoci esclusivamente sul tipo di firma; poi le dediche dattiloscritte e manoscritte di Umberto Saba sotto forma di colophon che nascono dalla sua attività di libraio-mercante coadiuvato da Virgilio Giotti; infine lo scambio di dediche tra Virgilio Giotti e Giani Stuparich che ci hanno costretto ad effettuare un scavo archivistico in quanto tale scambio presupponeva ricchi doni librari.
- 1892: Italo Svevo/Ettore Schmitz e Attilio Hortis
Nei primi giorni del novembre del 1892 appare Una vita di Italo Svevo. Subito, con l’emozione dell’esordiente, dona, con dedica, quattro copie: il sabato 12 «all’amico Giulio Cesari | Ettore Schmitz» e a Cesare Rossi «al mio buon, ottimo Cesare | Nunc et semper | Ettore Schmitz»; il mercoledì 16 «Alla signorina Adele Butti in segno di stima» e, infine, il venerdì 25 «Al Dr Attilio Hortis | che mi onora della sua amicizia | Italo Svevo | Trieste 25.11.’92». Svevo omaggia Attilio Hortis non solo per il suo ruolo di studioso dell’umanesimo, di Petrarca e di Boccaccio[6] (potremmo anche pensare all’omaggio di un campione della rivendicazione dell’italianità di Trieste ma alla data del 1892 Hortis non ha ancora assunto questo emblema) ma sceglie di dedicargli una delle primissime copie, firmandole con il suo nuovo nom de plum (prima usava Samigli) in quanto Hortis è dal 1873 direttore della Biblioteca Civica, luogo caro a Svevo. Quindi Svevo omaggia una figura che aveva facilitato la sua frequentazione della Biblioteca, con cui ovviamente parlava e che lui riteneva, come confiderà a Bice Besso il 23 aprile 1928[7], - assieme a Giuseppe Carpin, Riccardo Pitteri e Cesare Rossi, di Silvio Benco e poi di Ferdinando Pasini - «non grandissimi uomini ma [che] arrivavano a formare quello che si dice un ambiente letterario». Come scrisse poi Silvio Benco si trattava della «scintillante pleiade di artisti e di letterati amici, non pochi di singolare valore e tutti caldi nel patriottismo» che corrispondevano agli scrittori “ufficiali” dell’irredentismo quali il «luminare Attilio Hortis […] Giuseppe Caprin, Riccardo Pitteri, Cesare Rossi, Elda Giannelli, Haydée, Nella Doria Cambon e il romanziere rovettiano Alberto Boccardi»[8]. Ma vi è un ulteriore motivo della dedica. In Una vita la biblioteca civica, diretta da Hortis, che non viene mai nominato, è uno dei luoghi dove il protagonista Alfonso Nitti trova rifugio. Ma perché è importante questa dedica? Non tanto per il destinatario e il tenore della stessa ma per la firma. Si tratta ad oggi della prima apparizione dello pseudonimo “Italo Svevo”. Lavorando a più riprese sul recupero della biblioteca di Svevo mi ero accorto di una peculiarità: i libri che riceveva dagli autori, conservati al Museo Sveviano, presentavano sempre la dedica a Italo Svevo; i libri che lui possedeva, conservati al Museo Sveviano e all’Università di Trieste, o che donava hanno sempre la firma di Ettore Schmitz. Chiosavo che «difeso dai suoi libri, Ettore non ha bisogno di mascheramenti; all’esterno dei libri, nel mondo invidioso e cattivo del pubblico lettore, degli amici letterati, il caro Ettore si tramuta per autodifesa nell’essere parlante Svevo»[9]. Ora, osservando tutte le copie dei suoi primi due libri, conservati al Museo Sveviano della Biblioteca Civica A. Hortis vediamo che si firma sempre “Ettore”. Nel caso delle copie a Cesare Rossi, Giulio Cesari e Adele Butti - persone che erano strettamente legate da amicizia col nostro scrittore - ciò giustifica l’uso di Ettore. Dunque, nel caso di questa particolare copia di Una vita siamo di fronte alla prima testimonianza dell’uso di firmarsi con il proprio nuovissimo pseudonimo e la ragione è data anche dal rapporto direi di natura istituzionale che aveva creato con l’erudito e bibliotecario Attilio Hortis. Questo usus di firmarsi “Ettore” lo ritroviamo molti anni dopo quando appare la seconda edizione Senilità per l’editore Morreale: ebbene, nel Museo Sveviano, vi sono quattro copie con dedica «alla cara cugina Dalia | Ettore | 1.9.1927»; «A Giani Stuparich | omaggio... | Ettore Schmitz | 7.71929 [ma temo che vi sia un errore di datazione visto che Svevo muore nel 1928]»; Al Dr. Marino de Szombathely. Ricordo della sua fraterna collaborazione. | Ettore Schmitz | 27.7.1927» e a Silvio Benco “uno dei miei più vecchi amici”, 25.7.1927. Anche la copia de La coscienza di Zeno del 1923 con la dedica a «Luigi Pirandello omaggio sincero osando di ricordargli la promessa fatta di leggere questo romanzo. Trieste 10 luglio 1925» presenta la firma Ettore Schmitz! Quindi appare una mosca bianca quella dedica firmata Italo Svevo a Hortis.
- Umberto Saba e le dediche della sua private press.
Da qualche anno, assieme a Marco Menato, abbiamo trovato, anche materialmente, tutta una serie di plaquette manoscritte e dattiloscritte che erano prodotte dal duo Umberto Saba e Virgilio Giotti; si può affermare, senza alcun dubbio, che abbiamo proprio scoperto e capito anche il funzionamento di quella particolarissima attività di private press che la libreria Saba, soprattutto nei suoi inizi a partire dal 1919, aveva abbracciato con estrema attenzione con lo scopo di creare plaquette ad uso di amici e bibliofili. In realtà ci siamo messi sulle tracce di vari indizi. Nessuno si era peritato di seguire un’indicazione di Stelio Mattioni, il quale, nell’aureo libretto Storia di Umberto Saba osservava «solo il diavolo sa quanti manoscritti del Canzoniere (per non dire delle singole poesie) abbia mandato in giro Saba. Con la passione dell’instancabile amanuense, per fare omaggio agli amici, per diffondere la propria opera in attesa che fosse stampata o magari anche con l’interesse dell’ormai esperto libraio che sa che per i manoscritti c’è un mercato?»[10]. Non contento ribadiva il concetto «creava manoscritti dei propri lavori non solo per gli amici, ma anche per venderli».[11] Ma non solo Mattioni ricordava questa abitudine; anche Quarantotti Gambini, nel bellissimo racconto Il cestino di Saba descrive l’abitudine di Saba di donare delle poesie ricopiate «a macchina, con un nastro di colore violetto pallido [questo non sempre avviene, ndr], su un foglio di spessa e giallognola carta antica (uno di quei fogli che Saba prediligeva e che il suo commercio antiquario gli dava modo di procurarsi di tanto in tanto)»[12]. E se non bastasse ecco quando diceva lo stesso Biagio Marin: «Io penso che a formare Saba poeta molto ha contribuito Saba mercante anche sordido».[13] Presentiamo qui due casi emblematici che presentano delle precipue caratteristiche: le dediche sono manoscritte o dattiloscritte e appaiono posizionate nel colophon e poi sono rivolte sia a due frequentatori del Caffè Garibaldi.
- 1922. I prigioni
In data “Trieste 1922” Saba invia una prima copia in fogli sciolti manoscritti de I prigioni all’amico Paratico, contenente sei sonetti dedicati a Il lussurioso, Il violento, L’accidioso, L’ispirato, L’empio, L’appassionato, L’amante svelando anche da quali persone aveva preso spunto per ogni singolo componimento. Non contento, nel maggio del 1923 invia ad Aldo Fortuna un’altra copia, di sedici carte dattiloscritte, completa di tutti i sonetti; un altro testimone composto da 16 fogli sciolti dattiloscritti, numerati a matita 55-70 e datato 1923, è conservato presso il Centro manoscritti di Pavia. Dunque, da dove proviene questo nostro testimone che appare fortemente corretto? Con tutta probabilità è il primissimo manoscritto che Saba inviò a Enzo Ferrieri affinché lo pubblicasse per il «Convegno» ma poi il progetto della pubblicazione non ebbe buon esito[14]. Infine, terzo passaggio, anziché sul «Convegno» ma su «Primo Tempo» (prima serie, n. 9-10 s.d. ma 1923) escono a stampa I prigioni abbinati all’Autobiografia. Questa la semplice vicenda testuale di uno dei maggiori e più affascinanti testi sabiani. Il libretto, ora entrato a far parte del patrimonio della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, presenta una dedica struggente ad un appartato commerciante greco ma strettissimo amico sia di Giotti, di Saba che della Pittoni: «Alla malizia gioconda che brilla attraverso ai suoi occhiali, ai detti memorabili, all’umanità calda di Dionisio Romanellis offre questo ms. uno dei suoi vecchi amici». Su Romanellis, commerciante greco che «ascoltava, e poi pronunciava una frase in dialetto triestino, ch’era il compendio, gustosissimo, del suo partecipe silenzio» aveva steso un delicato ritratto Pier Antonio Quarantotti Gambini[15] mentre sempre Saba gli aveva dedicato nella raccolta Parole del 1934 un Ritratto: «Dietro gli occhiali che un tuo gesto raro | squilibra, questo dicono i tuoi occhi: | «Un dio mi sento nella vecchia pelle | d’un uomo». | Un uomo | non forse, un pezzo | sei di Trieste, come la sua Piazza | Piccola | o degli amici a me il più caro». Romanellis morirà nel 1945 accudito da Anita Pittoni.
B.1925. Due felicità
In una tarda mattinata, seduti ad un tavolo del Caffè Garibaldi, il buon Saba tira fuori dalla sua tasca un foglietto su cui ha scritto una poesia, intitolata Due felicità. La porge ai quattro amici con cui sta bevendo un caffè e ordina “Firmatela”; ed ecco che uno a uno, Ruggero Rovan, Dionisio Romanellis, Vittorio Bolaffio, Virgilio Giotti appongono il loro suggello. Poi il foglietto leggero e vagante parte per destinazione Parigi e si adagia sul tavolo di lavoro del gentile pittore triestino Giulio Toffoli “Toffoletto” accompagnata da una lettera datata 30 novembre 1925 nella quale, tra le varie notizie, come il forte desiderio di andare nella capitale francese, Saba confida: «Subito dopo la tua partenza ho scritta una poesia, la quale ha per soggetto amici e un ambiente comune, e mi permetto di mandartela, anche come un saluto collettivo della nostra tavolata al Caffè Garibaldi». Le annotazioni filologiche furono descritte da Bruno Maier nell’articolo Sul testo di due felicità di Umberto Saba[16] e pertanto non ci torno se non per ricordare che tale poesia venne edita anche su “Solaria” (a. I, n. 5, maggio 1926). Sempre Saba, in Storia e Cronistoria del Canzoniere (p. 154), offre tale interpretazione della poesia: «Le due felicità, che il poeta vede fra di loro opposte, sono quella sua e dei suoi quattro amici, rincantucciati nell’angolo di un Caffè triestino; persone povere, ignote “senza credito”, il meglio della grande città dove son nate, e quella – la separazione è segnata da un bellissimo capostrofa, netto come una taglio di spada – di un marinaio inglese e di una ragazza, che siedono ad un tavolo esterno dello stesso caffè». Tuttavia devo aggiungere qualcosa di nuovo ed inusuale. Accanto al testimone manoscritto, occorre ricordare che presso il Fondo Umberto Saba del Centro manoscritti dell’Università di Pavia, troviamo un foglio dattiloscritto numerato II; lo stesso Arrigo Stara osserva poi che Saba dimentica di «averne inviato copie autografe a diversi dei suoi corrispondenti epistolari». In anni sono emersi altri due testimoni. Il primo è un libretto-dattiloscritto, rilegato da Giotti, con un suo disegno raffigurante una ghianda ed una foto del pittore Giulio Toffoli nella sua casa di Parigi. L’esemplare si apre con il titolo “2 Felicità” (il due è in numero arabo) sottolineato da matita rossa e blu, cui segue una epigrafe che recita «Essere felici in una città di mare dove non esiste il tempo e tutto scorre tra pochi amici e cordiali parole». Presenta anche questo affettuoso colophon: «In data 25 dicembre del millenovecentoventicinque [in colore rosso], presso l’armoniosa Libreria di Umberto Saba, libraio di genio e poeta, sono state tirate V copie di questa poesia d’amore fraterno. Ciascun esemplare presenta una differente e colorata legatura artigianale con carta della prestigiosa Ditta Smolars, eseguita da Virgilio Giotti». L’esemplare è il numero II, appartenuto, come da firma, a Giotti. Non mi soffermo sul valore filologico del testimone mentre mi preme far notare che finalmente sappiamo per la creazione dei loro giocattoli tale private press si riforniva di carta presso il negozio Smolars di Trieste, che fungeva da cartoleria, tipografia e fabbricazione di registri commerciali. Il secondo testimone, ora entrato nel patrimonio della Biblioteca Nazionale di Roma, come il primo, è per l’appunto questo esemplare copia V, con tutti i crismi del precedente, ma donato a Ruggero Rovan. Anche qui compare il disegno della ghianda che rimanda sicuramente a un preciso significato simbolico.
- 1942. Dediche tra Giani Stuparich e Virgilio Giotti
Nel piccolo mondo degli affetti di Giotti la figura di Stuparich è assai rilevante tanto da affiancare e poi superare, a partire dagli anni Trenta, quella di Saba[17]; e la stessa sua biblioteca certifica questo connubio con la presenza di molti dei libri di Giani Stuparich recanti affettuose dediche. Il primo omaggio sono i Racconti (Torino, Fratelli Buratti Editori, 1929) editi nella storica collana di Mario Gromo, dove compare la cordiale e sincera dedica «a Virgilio Giotti fraternamente Giani Stuparich». A seguire è una cascata di regali con sobrie tracce: Guerra del ’15 (Milano, Fratelli Treves, 1931) «A Virgilio Giotti con affettuosa amicizia Giani Stuparich nov. 1931»; Donne nella vita di Stefano Premuda (Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932) «A Virgilio Giotti con affettuosa amicizia Giani Stuparich Trieste, nov. 1932»; e non poi non poteva mancare Trieste nei miei ricordi (Milano, Garzanti, 1948) «All’amico Virgilio l’aff. Giani», un testo dove campeggia la figura di Giotti e poi ancora Il giudizio di Paride (Milano, Garzanti, 1950) «Al caro amico Virgilio molto cordialmente Giani Trieste, 18 aprile 1950» fino a Simone, (Milano, Garzanti, 1953) dove la dedica fotografa una lunga corrispondenza d’affetti e registra una sorta di bilancio «a Virgilio Giotti con l’affetto d’un’amicizia che dura per lunga vicenda d’anni, lieti e dolorosi Giani Stuparich Trieste, giugno 1953». Ma vi è in particolare un libro, e si tratta de L’isola (Torino, Einaudi, 1942)[18], su cui occorre soffermarsi con attenzione. Nell’esemplare donato a Giotti compare questa dedica autografa «A Virgilio Giotti per ricambiare, come posso, con queste mia “isola” il suo bel “Velièr”. Giani Stuparich aprile 1942». Un’isola ed un veliero? A cosa si sta facendo riferimento? Sappiamo che una plaquette dattiloscritta, dal titolo El Velièr, con sette xilografie tirate da Paolo Belli - il figlio di Giotti morto in modo drammatico nella campagna di Russia - fu inviata nell’agosto del 1939 da Leonardo Borgese alla redazione della celebre rivista milanese “Il Convegno” affinché venisse pubblicata (ma il manoscritto è del gennaio 1937); ciò non avvenne e il poemetto, senza illustrazioni, apparve, ma non fu una diminutio, su “Letteratura” l’anno seguente (n. 3, luglio-settembre 1940)[19]. Sappiamo che nel Centro Manoscritti dell’Università di Pavia vi sono due testimoni: il primo, manoscritto con le varianti, presenta cinque piccole xilografie mentre il secondo è dattiloscritto con sette xilografie. Compaiono, come colophon, le notazione di Giotti: «Sette silografie come finali per le sette parti del poemetto, nell’ordine in cui si susseguono» e «Silografie di Paolo Belli. La VI riproduce un disegno del pittore Vittore Bolaffio, e la VII uno del poeta. Le altre sono originali del poeta». A questi due testimoni pavesi va aggiunto un terzo esemplare dattiloscritto messo in vendita dalla Libreria Gonnelli (asta 15, 17 maggio 2014, lotto 504) che presentava, in calce, la dedica autografa «A Gianni Stuparich / i cui avi paterni furono […] capitani di nave». Tra le carte dell’archivio del Centro Studi Giani Stuparich di Anita Pittoni ritrovai un ulteriore testimone, ora conservato presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma. Questo nuovo testimone si presenta come un corposo dattiloscritto (11 carte), con alcune correzioni a mano, la firma autografa Virgilio Giotti e la data di fine stesura “1/1937”. Accanto, quasi a formare una cartella, non vi sono le sette xilografie ma ben sette disegni applicati su cartoncino rigido e su quattro carte color grigio da impacco (vi è applicata anche una sorta di etichetta con la scritta di Giotti: «FINALE. Le incisioni sono tutte di mio figlio Paolo. Una riproduce un disegno del caro pittore Vittorio Bolaffio; quello con il veliero è opera mia. Tutte le altre sono di lui. Esemplare privato»). Ma che tipi di disegni sono? Secondo Vittorina Quarantotto, ma per ulteriore conferma ho interpellato anche Sergio Vatta, collezionista di Paolo Belli, i disegni che fanno da pendant al poemetto giottiano non sono altro che le riduzioni a scala dei disegni originali e le prove di come le xilografie dovevano apparire (vi sono anche delle varianti). Il testimone di questa plaquette presenta anche, cosa che negli altri esemplari non sussiste, una prefazione-presentazione che Giotti indirizza in modo commovente proprio a Giani Stuparich e che trascrivo integralmente:
«Caro Giani che bello era bighellonare per la Sacchetta con Saba, Bolaffio e gli amici del caffè. Che bello era perdersi tra navi e velieri, tra odori fortissimi e piccole ciacole; partivano uomini e arrivavano merci (i canditi, il caffè, gli strani oggetti). Incapace di essere marinaio e capitano di navi mi sono inventato, in sogni condivisi con i miei cari, capitano di vascelli e di piccoli velieri che solcano i mari dell’anima. Fu per me sollievo e gioia poter costruire con pochi legni e qualche corda un veliero dell’anima che pur stando fermo su un piano riesce a trasportare me e i miei fuori da Trieste verso Oceani che mai potrò vedere. Tu, caro Giani, figlio di una generazione di capitani, riderai di queste mie piccole fantasie e del mio scarso ardimento; eppure la mia penna ha steso, lei sì coraggiosa, un diario di bordo scritto con le vele bianche tutte gonfie d’aria freschissima, bruciate dal sole. E questo diario lo regalo a te, lo dedico proprio a te che isole hai conosciuto e molte tempeste vivi (e vivremo). Un diario di mare dove ritrovare noi che ci perdiamo, noi che affoghiamo, noi che a fatica poi riemergiamo. A porti sicuri forse arriveremo, sbattuti, affamati e con qualche perdita. Ma questa è la legge del mare, la legge della vita “smarida che de colpo la sparissi”».
A questa impegnativa ed umana prefazione Stuparich risponderà con l’umile dedica posta nella prima pagina de L’isola apparsa per Einaudi, esemplare custodito nella biblioteca di Giotti. Ma queste dediche dimostrano anche come si possa tratteggiare una sorta di geografia degli affetti che ruota attorno a Piazza Hortis sede della biblioteca, il Caffè Garibaldi e la Sacchetta. In breve, dediche nel cuore letterario di Trieste.
[1] Vedi il progetto dell’AIDI (Archivio Informatico della Dedica Italiana) diretto da Maria Antonietta Terzoli (http://www.margini.unibas.ch/web/it/index.html). Oltre all’archivio informatico, M. A. Terzoli ha portato alla pubblicazione I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Basilea, 21-23 novembre 2002, Roma-Padova, Antenore, 2004 e alla fondazione della rivista Margini (consultabile al medesimo indirizzo dell’Archivio); M. Santoro e M. G. Tavoni, I dintorni del testo. Approcci alle periferie del libro. (Atti del convegno internazionale, Roma, 15-17 novembre 2004, Bologna 18-19 novembre 2004), Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2005, 2 vol.; M. Santoro, Storia del libro italiano. Libro e società in Italia dal Quattrocento al nuovo millennio, nuova edizione riveduta e ampliata, Milano, Editrice Bibliografica, 2008 (prima ed. 1994); M. Paoli, La dedica. Storia di una strategia editoriale, Lucca, Pacini Fazzi, 2009.
[2] Vedi il saggio di A. Villa, Tipologia e funzionamento del sistema della dedica nell’Italia del Rinascimento in https://revues.univ-tlse2.fr/pum/lineaeditoriale/index.php?id=202.
[3] all’amico editore. Dediche a Vanni Scheiwiller, a cura di Laura Novati, prefazione di A. Spina, Milano, all’Insegna del Pesce d’Oro 2007.
[4] Milano, Garzanti, 1948; ma vedi edizioni Il Ramo d’oro di Trieste del 2004, p. 18-23.
[5] Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1987, p. 16 e 45.
[6] R. Norbedo, Attilio Hortis e Boccaccio. Appunti dal “carteggio” inedito (con tre lettere di Oscar Hecker) in A. Ferracin-M. Venier (a cura di), Giovanni Boccaccio: tradizione, interpretazione e fortuna. In ricordo di Vittore Branca, Udine, Forum, 2014, 549-565; la voce biografica di Michele Gottardi sul DBI.
[7]I. Svevo, Lettere, a cura di S. Ticciati, con un saggio di F. Bertoni, Milano, Il Saggiatore, p. 1173.
[8] Cultura e Letteratura a Trieste, «L’Illustrazione del Medico», 1939, p. 15-18. Sono tutte persone che avevano un rapporto con Svevo.
[9] S. Volpato-R. Cepach, Alla peggio andrò in biblioteca. I libri ritrovati di Italo Svevo, prefazione di Mario Sechi, postfazione di Piero Innocenti, Macerata, Biblohaus, 2013, p. 37.
[10] Milano, Camunia, 1989, p. 99.
[11] Nel suo articolo Problemi aperti per una biografia di Saba in Il punto su Saba. Atti del convegno internazionale, a cura di C. Benussi Frandoli et alii, Trieste, Edizioni Lint, 1985), p. 14.
[12] Il poeta innamorato. Ricordi, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1984, p. 44-45: p. 45.
[13] Claudio Magris. Ti devo tanto di ciò che sono. Carteggio con Biagio Marin, a cura di R. Sanson, prefazione di Marzio Breda, Milano, Garzanti, 2014, p. 92.
[14] A. Modena, Saba al Convegno, in Saba extravagante. Atti del convegno internazionale di studi Milano, 14-16 novembre 2007, a cura e con introduzione di G. Baroni, «Rivista di Letteratura Italiana», 2-3, XXVI, 2008, p. 255-258.
[15] Il poeta innamorato, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1984, p. 52-54.
[16] B. Maier, Sul testo di due felicità di Umberto Saba, «La Rassegna della Letteratura Italiana», anno 61, serie VII, n. 2, aprile-maggio 1957; Id., Ancora sul testo di Due felicità di Umberto Saba, ivi, n. 1, gennaio-aprile 1958; Giulio Toffoli, catalogo della mostra alla Tommaseo Galleria d’Arte, Trieste, 1978.
[17] Accanto a Stuparich anche la presenza di Quarantotti Gambini è notevole. Ricordo poi che a Gambini Giotti donò copia dattiloscritta della silloge Colori edita da Parenti nel 1941 (il manufatto è conservato presso l’Irci-Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata di Trieste).
[18] Sul significato di quest’opera si veda M. Pagliara, L’immagine dell’isola in due scrittori triestini: Giani Stuparich, Pier Antonio Quarantotti Gambini, in Giani Stuparich tra ritorno e ricordo. Atti del convegno internazionale Trieste 20-21 ottobre 2011, a cura di G. Baroni e C. Benussi, Biblioteca della «Rivista di Letteratura Italiana. 21», Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, 2012, p. 37-43.
[19] V. Giotti, El Velièr, a cura e con una nota di Rinaldo Derossi, Trieste, Istituto Giuliano di storia, cultura e documentazione, 1997; C. Gibellini, Ut poesis pictura. Il Velier di Giotti padre e figlio, in «Si pesa dopo morto». Atti del convegno per il cinquantenario della scomparsa di Umberto Saba e Virgilio Giotti, a cura di G. Baroni, «Rivista di letteratura italiana», XXVI-1, 2008, p. 173-180.