Tra Fortini e Pagliarani.
Dediche, letture, polemiche (1955-1963)*
Fabrizio Miliucci
1. Come lui stesso racconta, l'incontro di Elio Pagliarani con Franco Fortini si deve alla comune frequentazione di Luciano Amodio, redattore della rivista «Ragionamenti».[1] Siamo a Milano nel 1955 e al giovane Elio si prospetta la possibilità di lavorare per/con Fortini al quale serve un aiuto nelle ricerche di biblioteca. I due si incontrano a casa di quest'ultimo, che ha appena ricevuto da Pasolini una lettera in cui lo si invita a collaborare alla nascente «Officina». Istintivamente, Fortini estende l'invito a Pagliarani, ma se ne pente subito e alla fine sfumano sia la collaborazione per le ricerche che il contatto con la rivista, stabilito autonomamente alcuni mesi più tardi. Nonostante sia solo un ricordo, la scena presenta un qualche aspetto rivelatore. Scrutando Fortini, infatti, Pagliarani afferma di avergli letto in faccia un pensiero in base al quale sarebbe stato istantaneamente privato della qualifica di potenziale collaboratore, per vedersi attribuire quella di «eventuale concorrente»:
Poi si passò a discutere a lungo delle posizioni di «Ragionamenti» e, a un ritorno del nome di Pasolini e dell'uscita di «Officina», mi disse che non solo lui era stato invitato ma era stato anche pregato di suggerire qualche nome di nuovi collaboratori, preferibilmente giovani e aggiunse precisamente: «Mettiti in contatto anche tu: aspetta che ti do l'indirizzo» e si mise a ricercare la cartolina postale ricevuta da Pasolini. […] «Eccola. Aspetta che ti do l'indirizzo» e si mise a fissare molto attentamente, troppo attentamente, troppo lungamente quella cartolina: «Va bene, ti darò l'indirizzo un'altra volta» e rificcò la cartolina in un cassetto. Io glielo avevo letto preciso sulla fronte: «Ma perché aprire una porta gratis a un eventuale concorrente?». L'illustre, poetico inquisitore non sapeva che la cartolina postale con l'annuncio della prossima uscita di «Officina» Pasolini l'aveva mandata anche a me.[2]
Nel prosieguo del racconto sono presenti solo alcuni fugaci cenni alla valutazione critica che Fortini dedicherà a La ragazza Carla sul numero 2 del «Menabò» (1960) e alla seguente lettera in versi a lui indirizzata nel 1961 tramite le pagine di «Nuova Corrente». Il rapporto fra i due è presentato da Pagliarani come un'occasione mancata e un dialogo presto interrotto: «Mandai a Fortini quel componimento, lui deve essersi sentito in dovere di rispondermi nello stesso modo […] e mi scrisse […] pressappoco “Ci ho provato ma non credo in quelle cose lì” e così finirono i miei rapporti con Fortini».[3]
Se effettivamente è possibile rintracciare una certa dose agonistica negli elementi che testimoniano il rapporto Fortini-Pagliarani – molto più importante, nella dialettica interna alle poetiche del secondo Novecento, di quanto quest'ultimo non sia disposto ad ammettere – è pur vero che, soprattutto nelle lettere intercorse fra i due autori, nati a dieci anni esatti di distanza l'uno dall'altro, si può cogliere la testimonianza di una vicinanza venata d'affetto e stima sincera, pur se da posizioni che si faranno, nel volgere di pochi anni, irrimediabilmente distanti.
Un altro luogo di Pro-memoria a Liarosa rievoca l'unico contributo di Pagliarani a «Ragionamenti». Si tratta di un articolo intitolato Ragione e funzione dei generi che incontra qualche perplessità in seno al comitato di redazione (attribuita dal narratore ad Armanda Guiducci e, ancora, a Fortini) sull'uso del termine “semantico”.[4] Siamo ormai nel 1957, Pagliarani ha esordito da tre anni con Cronache ed altre poesie (Schwarz, 1954) e lavora a La ragazza Carla e Inventario privato (Veronelli), sua seconda raccolta, che vedrà la luce nel 1959. Dal canto suo, Fortini ha fatto uscire da circa un anno I destini generali (Sciascia, 1956) e si appresta a licenziare Dieci inverni, che verrà pubblicato da Feltrinelli nell'ottobre di quello stesso anno, insieme a un'edizione di Sestina a Firenze (Schwarz) numerata e illustrata da Ottone Rosai.
In Ragione e funzione dei generi, Pagliarani si sofferma sulla lingua della poesia di fine anni Cinquanta, partendo dal panorama del dopoguerra per registrare un cambio di paradigma relativo alla rimodulazione dei generi letterari. La sua tesi è che il periodo bellico abbia favorito il sorgere di un nuovo linguaggio capace di modificarli dall'interno. La più consistente conclusione che ne deriva riguarda la maggiore consapevolezza della poesia contemporanea nel trasferire la contraddizione del linguaggio di classe nel linguaggio poetico, a differenza di quanto potesse accadere a guerra ancora in corso e negli anni immediatamente successivi. Come la prosa dell'entre-deux-guerres si avvicinava per depauperamento linguistico alla lirica, conclude dunque l'autore, così la lirica del suo tempo comincia a rivolgersi alla prosa attraverso un ampliamento lessicale-sintattico che favorisce un uso inedito del poemetto e della poesia didascalico-narrativa, intesa come tipologia espressiva e categoria stilistica.[5] Con questo suo intervento, Pagliarani sembra insomma preparare il campo per La ragazza Carla, ricercando e motivando i presupposti storico-letterari che ne informano la composizione.
Nel numero successivo di «Ragionamenti» anche Fortini interviene con un articolo di carattere metrico-retorico, nel quale non sembra eccessivo rintracciare, fra molte altre cose, anche gli elementi di una ripresa dello scritto di Pagliarani. Metrica e libertà cerca di ampliare il discorso intorno ai generi, retrocedendo all'origine stessa del ritmo verbale che si fa istituzione. È in questo movimento che Fortini indica il valore del linguaggio poetico – «la fondamentale “aggiunta” ai ben più rilevanti elementi semantici dati alla lingua» –[6] capace di collegare il lavoro dei poeti all'invisibile linea coincidente con l'essenza dell'uomo e la storia della civiltà. Fortini reintroduce infine la questione dei generi, rimarcandone la funzione rivelatrice nell'ambito del rapporto uomo-(poesia)-realtà.
A quest'altezza, le posizioni dei due non appaiono troppo distanti, sebbene divergano su un punto fondamentale: il valore attribuito al tono del discorso poetico,[7] che nel primo sembra essere un elemento essenziale nel processo d'innovazione letteraria, mentre nella visione del secondo non è che un'illusione. Ma per arrivare a un incontro diretto bisogna riprendere un altro degli scritti fortiniani, Su alcuni paradossi della metrica moderna, risalente al successivo 1958. Il paradosso su cui si sofferma l'autore riguarda la ricusazione – avanzata da certa poesia moderna – della metrica come espressione di autorità, in favore di una neo-metrica più “sbagliata” e asfittica della tradizione che rinnega. Secondo Fortini, il danno più grave di questo divorzio risiederebbe nella perdita di quell'invisibile continuità con la civiltà passata (e dunque presente) su cui già in precedenza aveva puntato la sua attenzione; l'elusione della metrica come tradizione cosciente porterebbe a una paradossale enfasi degli stessi elementi metrici, slogati in un dettato inorganico, sino allo sprofondamento in una zona di relativismo culturale che isola dalla storia e impedisce il progresso:
Ma quando, al rifiuto dei «vecchi metri» si aggiunse, da noi, il rifiuto della metrica; quando cioè fu tolto ogni fondamento alla norma metrica in nome della identità forma-contenuto; e questa nozione costituì il fondo comune della «avanguardia» e del «novecento», i residui, o irriducibili, elementi metrici assunsero (e mantengono fino ad oggi) una eccezionale rilevanza: vendetta della oggettività respinta dalla soggettività ritmica, l'ossequio alla legislazione metrica si trasferì e mascherò nell'ossequio al «genere».[8]
Ci troviamo su una faglia di separazione i cui sommovimenti sono avvertiti in anticipo da Fortini che, per darne una seminale descrizione, ricorre proprio a un testo di Pagliarani, Vicende dell'oro, tolto dal numero 9-10 di «Officina» (giugno 1957) e successivamente accolto dall'autore in Lezione di fisica, sua terza raccolta.[9] Il riferimento all'«ossequio del genere», che potrebbe richiamare il breve articolo di «Ragionamenti» da cui siamo partiti, rappresenta il termine ultimo di un processo che, agli occhi di Fortini, ha sicuramente un carattere regressivo, causando, come abbiamo già visto, una frattura fra la composizione poetica e il suo fantasma culturale: «Il poeta (e il lettore) riportano al di fuori dell'espressione poetica, al di fuori del testo, in una convenzione culturale, tutto quel che, nella metrica, collegava col mondo delle relazioni oggettive, con la società».[10]
2. Su questi presupposti devono essere letti i documenti che testimoniano il rapporto Fortini-Pagliarani. Il primo, in ordine di tempo, risale al febbraio del 1959. Si tratta di un'articolata dedica stesa a penna blu, in bella grafia corsiva, che si trova sul foglio di guardia dell'esemplare di Poesie ed errore (Feltrinelli, 1959) presente nel fondo Pagliarani.[11] La dedica consta di una poesia dal titolo La critica sociale, composta da quattro quartine di endecasillabi rimati secondo lo schema ABAB CDCD EFFE GHHG. Se ne trova riscontro in una lettera del 25 febbraio '59 conservata nell'archivio Fortini dell'Università di Siena,[12] in cui il mittente si dichiara commosso e toccato per l'omaggio. Passa poi a ricordare come fra il '48 e il '51, coltivando clandestinamente un lavoro senza padri illustri o diretti, pensasse di misurarsi con il giudizio di due sole persone, Fortini e Pavese, e ringrazia, infine, il destinatario per aver scritto Poesia ed errore, sul quale promette di divulgarsi in pubblico, firmandosi in chiusura «il tuo devoto».
Si può avanzare l'ipotesi che La critica sociale sia una poesia scartata nel piano finale della raccolta e recuperata successivamente in forma di dedica per Pagliarani. Il testo si apre sulla descrizione di una folla che si affanna negli acquisti natalizi, intralciata da un fango che ricorda le poesie dei vecchi socialisti e battuta da una dantesca pioggia nera e lorda. Lo sfondo è una Milano neo-liberty, particolarmente congeniale alla sezione eponima della raccolta,[13] dove troviamo un testo gemello, A Delio Tessa: il poeta di Milano è nominato esplicitamente anche ne La critica sociale. La terza strofe propone una carrellata a scendere, dai tetti affollati di antenne rugginose (altra figura topica in Fortini) verso i marmi dei beni immobiliari, fino al piano stradale offuscato dai gas di scarico. L'ultima quartina è poi informata su una triplice similitudine, ancora richiamante A Delio Tessa attraverso il dettaglio dell'acido che riga le bronzine.[14] Il verso finale rappresenta una sorta di appello all'inesorabile passaggio della vita, colta nel contesto delle possibilità non realizzate: l'esistenza ormai trascorsa è come una notte addensatasi prima di sera, come il segno della corrosione impresso dall'acido sulle bronzine di un motore,[15] come lo smarrimento di un guanto in una sala cinematografica. La dedica de La critica sociale a Pagliarani può essere letta ancora alla luce della questione metrica. Poesia ed errore, infatti, definisce il posizionamento di Fortini in una zona di ormai innegabile contrasto rispetto alle sperimentazioni verso cui il poeta più giovane si va rivolgendo con crescente radicalità alla fine degli anni Cinquanta. Le quattro quartine di endecasillabi perfettamente rimati possono allora essere letti come un bonario pungolo, un'implicita dichiarazione di poetica in contrasto, con tanto di dedica manoscritta.[16]
Nell'agosto del 1959, la seconda raccolta fortiniana subirà una sostanziale stroncatura da parte di Alfredo Giuliani sulle pagine del «verri».[17] Il capo d'accusa è formulato nelle prime righe della recensione: quella di Fortini sarebbe una poesia neo-crepuscolare,[18] incapace di agire sulla realtà e concepita come un'astuta negazione dietro cui si deve leggere l'estrema cautela di un non-poeta. Un giudizio così duro contribuirà a compromettere i rapporti tra Fortini e Pagliarani, ripresentandosi nel cuore della polemica animata sulle pagine di «Nuova Corrente». Ciononostante Fortini non mancherà di apportare il suo decisivo contributo all'affermazione del più giovane poeta, promuovendone l'opera in un importante intervento critico e compilando una scheda di lettura che aprirà a La ragazza Carla la strada di Mondadori.
Siamo ormai al 1960. Il secondo numero della rivista diretta da Vittorini e Calvino ospita sia il «racconto in versi» di Pagliarani che un panorama poetico di Fortini,[19] nel quale è scritto:
Dei molti autori di versi che hanno appartenuto al confuso ma importante gruppo dei cosiddetti «neorealisti», pochi sono stati quelli che abbiano portate avanti le premesse morali e ideologiche dei loro versi senza flettere, in corrispondenza della grande crisi del 1956, verso forme metriche e ordini di linguaggio che avrebbero rivelato il fondo idillico di quei furori. Ora Pagliarani è uscito da quelle incertezze per una via che non saprei indicarne di più pericolose; ma ne è uscito.[20]
Le parole di Fortini, incoraggianti, lasciano spazio agli esiti futuri di questa notevole riuscita. Il primo sospetto da fugare riguarda il tono dimesso di una poesia che rischia di cadere nel bozzetto popolaresco e «socialisteggiante», e si può leggere qui un implicito riferimento a La critica sociale, con il richiamo alle poesie dei «vecchi socialisti». Tuttavia, tale rischio è superato brillantemente da Pagliarani, per il quale viene chiamato in causa il magistero di «Jahier, con le letture di Majakovskij o di Brecht».[21] La preoccupazione del critico è piuttosto di far notare l'ombra che minaccia lo sviluppo di questa poesia e che già si presenta come il suo limite più evidente:
Vorrei si notasse come la griglia metrica di Pagliarani sia sempre o quasi sempre necessaria, lontana dalla sbadataggine alla quale troppi ci avevano abituati. Semmai quello che manca ancora a Pagliarani è la sicurezza e la plausibilità narrativa: probabilmente perché lo schema narrativo è già slogato, già posto fuori del tempo cronologico, prima che gli inserti lirici provvedano alle transizioni; di qui la mancanza di ogni progressione. La «storia» di Carla è molto meno vera della Milano che le sta intorno; una Milano che è fatta veramente di parole, cioè di un tessuto sintattico studiato sul vero, che non scade mai a colore locale.[22]
Metrica necessaria ma slogata: uscita dalla storia. Carla non è un personaggio narrativo ma drammatico che si muove su un fondale costruito ad arte, manca però la progressione tipica di un vero racconto. Benché sia senza data, si può collocare in questo frangente anche l'altra testimonianza – stavolta privata – della lettura fortiniana, ovvero la scheda editoriale pubblicata nel 2013 da Valentina Tinacci e Marianna Marrucci:
Di Pagliarani ho scritto sul numero 2 del Menabò. Che queste sue poesie siano da stampare, non mi pare dubbio. C'è un piglio, un tono: è il meglio, oggi, di quella certa vena. (Anche se, probabilmente, il meglio per ora sta nelle liriche che precedono, nel manoscritto, il 'poemetto' della 'ragazza Carla'.) / Il punto è un altro: P. fa versi sulla umiliazione neocapitalistica e sul suo 'effetto d'eco' anarchico. (Cinquant'anni, almeno, di poesia francese). Guai se gonfia le gote. Per questo il suo incontro con quelli del 'Verri' dà da pensare (male). / Che l'ironia della provincia non trapassi nella provincia dell'ironia. Nelle academiute informal-atonal-elettroniche. / Ma tocca a lui, semmai, preoccuparsi della salvezza dell'anima propria. / A noi tocca riconoscere che qui c'è una pronuncia spesso molto intensa; che definisce benissimo un momento, forse un decennio; che resiste. Pubblicare.[23]
La diagnosi è in sostanza la medesima che si evince dall'articolo; la raccolta rappresenta il frutto maturo di un decennio, benché permanga il rischio – reso palese dall'incontro con «quelli del 'Verri'» – di chiudersi in una “academiuta” dal gusto radicale, ma questo aspetto riguarda il futuro dell'autore e non già l'opera su cui si è chiamati a esprimere un giudizio, che non può essere che positivo. La raccolta (comprendente il poemetto, un estratto di Cronache e tutto Inventario privato) uscirà nell'aprile del 1962 nella collana «Il Tornasole» di Niccolò Gallo e Vittorio Sereni. Nel fondo Fortini della Biblioteca di Area Umanistica dell'Università di Siena, dove sono conservati i libri appartenuti al poeta, si trova un esemplare del volume impreziosito dalla seguente dedica: «A Franco Fortini / con l'affettuosa gratitudine / della "Ragazza Carla" / e mia / Elio Pagliarani».[24]
3. Due lettere, una del settembre 1960 e una del settembre 1961, testimoniano il punto di maggiore vicinanza fra i due autori. Nella prima, da Fortini a Pagliarani, il mittente rifiuta con garbo la richiesta di partecipare in qualità di giurato a un premio letterario. Si lascia poi andare a un bilancio, non roseo, dei suoi primi vent'anni di attività, lamentando la mancanza di spazio e riconoscimenti, prefigurando per sé un futuro angusto e aggiungendo in coda qualche verso di imitazione da un autore ignoto del Seicento.[25]
La seconda lettera, che Pagliarani spedisce da Roma esattamente un anno dopo, fa invece riferimento a una visita a Bocca di Magra, durante la quale ha potuto leggere al suo ospite – che ringrazia per la squisita accoglienza – una Lettera in versi, che ora riallega in forma migliorata. Seguono i complimenti per il commento di All'armi siam fascisti (film che vedrà la luce nel 1962) e la promessa di mandare quanto prima la prefazione agli «Sperimentali», probabile riferimento al Manuale della poesia sperimentale, che uscirà solo nel 1966.[26]
La “lettera” verrà pubblicata nel luglio-settembre del 1961 sul numero 23 di «Nuova Corrente» con il titolo Lettera a Fortini, prima di confluire come testo incipitario in Lezione di fisica (Scheiwiller, 1964), stavolta con il titolo Proseguendo un finale, richiamo agli ultimi versi de La ragazza Carla, come spiegato nella Nota che chiude la raccolta.[27] Provocherà una Risposta a Elio Pagliarani, pubblicata sul numero 25 della stessa rivista, nel gennaio-marzo 1962 – la cui parte in versi, con il titolo La casa nuova,[28] confluirà in Una volta per sempre (Mondadori, 1963) – e un'ulteriore risposta di Pagliarani, sempre in forma di lettera ma stavolta non in versi, sul successivo numero 27, nel luglio-settembre dello stesso anno.
Federico Fastelli,[29] individua nel concetto di egemonia il nodo essenziale della polemica. Secondo Pagliarani la distanza del ceto intellettuale dagli strati più bassi della società non inficia la possibilità di intervenire sulle altre classi sociali: l'idea di forza, intorno a cui ruota il testo, garantisce la possibilità di una lucida organizzazione dei sommovimenti storici anche al di fuori degli stati popolari e piccolo-borghesi.
Rispondendo nel 1967 a un'intervista che apparirà sul secondo numero di «Ideologie», Pagliarani traccia una sorta di parabola degli stimoli che conducono alla scrittura. Si comincia scrivendo per sé, afferma, a causa di uno scompenso di energie, e si arriva a scrivere per gli altri. Gli altri sono la borghesia intellettualistica, e si cerca pertanto di reagire a questo stato di cose creando un cuneo che separi gli intellettuali dal seno della borghesia. È un lavoro rischioso che può portare al fallimento. Non rimane quindi che la scommessa della scrittura, corroborata dalla consapevolezza che le classi sono in comunicazione, data la loro organizzazione in strutture sempre più similari:
E in sostanza, alla domanda che dice “in forza di quali argomenti il poeta può presumere di comunicare messaggi a un uditorio di una certa vastità”, è molto forte la tentazione di rispondere: in forza di nessun argomento, per scommessa, tragica o banale che sia. In realtà, siamo già d'accordo che l'ipotesi di lavoro è data dal fatto che la somiglianza degli svolgimenti sociali abbia creato o sia per creare anche in ambienti diversi bisogni di un certo livello sufficientemente simili fra loro, perché un determinato messaggio poetico, originatosi in uno di quegli ambienti, contenga in sé la possibilità di soddisfarli.[30]
Al contrario, per il Fortini dei primi anni Sessanta, impegnato nella scrittura di alcuni dei saggi fondamentali poi raccolti in Verifica dei poteri (Il saggiatore, 1965) la creazione di un ceto organico di intellettuali provocherebbe nient'altro che un moto di assimilazione al sistema; scrive a tal proposito Davide Dalmas:
Sul terreno della poetica, questo terrore di essere facilmente impiegabile, subito arruolato nell'inarrestabile armata del progresso «neocapitalistico, elettronico, riformistico», si concretizza in un rilancio del «puro gioco», dello «sberleffo», addirittura dell'«arcadia», perché sempre prendere in mano la penna significa sentirsi dalla parte dei nemici, oppure, nei momenti di sogno, lontano dal presente, già nel futuro, in attesa dei compagni che devono arrivare. È chiaro, quindi, che la letteratura di denuncia, nel suo rappresentare direttamente la servitù sembra rendere «immediatamente possibile l'illusione di una libertà», e pertanto serve in realtà «una libertà illusoria». Le «residue capacità rivoluzionarie del linguaggio» devono essere cercate invece in nuove estraniazioni, che potrebbero riabilitare le «poetiche dell'occulto e dell'ermetico», sia pur «paradossalmente» e «fra scoppi di risa». Non ci stupiremo quindi se di lì a poco Fortini sarà tra gli oppositori – non certo per volontà conservative, però – di quel Gruppo che prenderà il nome dall'anno […] '63.[31]
Lettera a Fortini si apre con un richiamo all'angoscia intellettuale, esclusivo appannaggio delle classi agiate (un «male alla milza», ovvero spleen, «solo per ricchi»). Conformemente a quanto affermato nell'intervista di «Ideologie», questa prospettiva adolescenziale è superata senza rimpianto, in vista di un seguito che appare decisamente complesso:
L'angoscia intellettuale della gioventù quando scopre insufficiente
l'intelletto, cioè la capacità della ragione di distinguere
com'è lontana, Franco: era quella che chiamavano
angoscia esistenziale? Fosse o no un male
alla milza, solo per ricchi voglio dire, né di essa m'addoloro
né della sua lontananza. È il seguito che è grave.[32]
Viene a questo punto evocata la forza (violenza, sommossa, rivoluzione, ma anche forza individuale) che nel processo di auto-definizione può dare ordine e senso agli impulsi corporali-sentimentali (campo esclusivo di Carla) e all'intelletto:
Senza forza
amore e intelletto nemmeno servono
a definire se stessi, ma per quant'altro poco sappia della vita
quanto attrito che brucia, assieme come sono stridenti![33]
Questo assunto è verificato su un esempio. È solo alla fine del processo rivoluzionario che Lenin comprende davvero cosa significhi la fame, se lo avesse saputo prima, non avrebbe avuto la forza di una tale riuscita; aspetto che l'autore ritiene meritevole di un'ulteriore specificazione: «Lenin, rifugiatosi in Finlandia non molte settimane prima della Rivoluzione d'Ottobre, segnò in un appunto che solo allora, osservando gli stenti dei suoi ospiti, si era reso adeguatamente conto di quanto potesse significare un pezzo di pane, un pezzo di pane vero e proprio, per chi non ce l'ha».[34]
Questa intelligenza della storia – l'esperienza della fame è infatti preclusa alle classi dominanti – mostra le contraddizioni nelle quali si rischia di cadere: i contadini del Pavese creano cooperative per far studiare alcuni dei loro figli, strappandoli alla fame ma condannandoli in realtà a un'ulteriore e più profondo stato d'alienazione: «da noi può capitare che dei poveri / si spremano per fare un estraneo del figlio / perché non lo vogliono immondo».[35]
È questo il “grave seguito” prefigurato in apertura. Cosa succede all'organizzazione localistica e spontanea che segua la via della socializzazione in una struttura che rimane d'impianto capitalistico? La risposta è in un inserto narrativo che contrappone due figure di proletari – Tommaso e Frattini – rappresentanti degli unici esiti possibili: un alienato conformismo borghese o il fallimento della scalata sociale. Il ragionamento in versi scopre infine un fondo sostanzialmente autobiografico («Parlo troppo di una vicenda personale, lo so») manifestandosi nell'ansia del destino individuale e familiare. L'unica possibilità di salvezza da opporre al rischio della solitudine è nell'unione: «E un essere solo / non è mai forte, né può amare o misurare l'intelletto».[36]
La risposta di Fortini sarà particolarmente secca e amara ed eluderà il genere della lettera in versi, a cui Pagliarani dà in questi anni molta importanza. Ma altri commentatori – tra cui lo stesso Pagliarani – hanno letto nel diniego di Fortini un riferimento al “genere” dell'avanguardia, una sua definitiva stroncatura.[37] Passa poi alla definizione di forza, riconducendola alla sua idealità. Il veleno è addensato nella coda e tocca ancora la questione del neo-cepuscolarismo, idolo polemico dei Novissimi, nonché tacito richiamo alla lettura che Giuliani («alcuni tuoi amici») aveva dedicato a Poesia ed errore. Esiste, afferma l'autore citando Baudelaire, un crepuscolo della sera e uno del mattino e non bisogna commette l'errore di confondere il tramonto (la conclusione) con l'alba (l'inizio) di una nuova stagione poetica.[38] I versi di Dunque ricominciare, assunti come possibile risposta, propongono proprio un'immagine crepuscolare: un gruppo di giovani attraversa il parco in solitudine («banda canaglia che giuoca all'eterno») mentre il crepitio degli uccelli «consiglia impreciso».[39]
La controrisposta di Pagliarani prova a comporre i pezzi di quello che si presenta ormai come un rapporto concluso. Per fare questo riprende e mima il modulo dell'apparente contraddizione già usato da Fortini, facendo balenare fra le righe un “noi” allusivo di un gruppo letterario ormai formatosi. Segue un richiamo all'ortodossia della lotta di classe, alla necessaria unità, e alla parola che prelude alla lotta. Passa infine alla vexata quaestio del crepuscolo: un problema che non può essere sciolto dal linguaggio, essendo il crepuscolo sempre e comunque una fine.
Ma la vera e propria conclusione del dialogo fra i due poeti può essere fissata all'altezza della recensione di Pagliarani a Una volta per sempre (Mondadori, 1963) apparsa sul numero 31 di «Nuova Corrente» nell'inverno del 1963, titolo: Poesia ideologica e passione oggettiva. La tesi iniziale è che esistano due modi di vivere la passione poetica: una soggettiva, che si esalta nella solitudine, e una oggettiva, che cerca di realizzarsi nella compartecipazione. Una volta per sempre sarebbe una raccolta percorsa da questa intima contraddizione, annoverando sia parti in cui la ricerca è positivamente volta all'altro, sia parti ritenute irricevibili, per la loro esibita chiusura e difficoltà linguistica, sintomo di uno spirito aristocratico, tendente all'isolamento, e dunque di carattere “negativo”:
Del registro «in negativo», della razione di Fortini alle questioni che hanno dato in questi anni risalto ai problemi del linguaggio […] mi pare espressione la «Poesia delle rose», componimento in sette parti e un congedo: un poemetto che può anche essere detto stupendo, e con momenti che non si dimenticano, di linguaggio però sostanzialmente chiuso, aristocratico, iperletterario […]. Si direbbe che Fortini con la «Poesia delle rose», mentre vuole dimostrare che non è secondo a nessuno nel costruire un intrico di simboli e nell'esibire poi chiavi prestigiose, intenda d'altra parte arroccare su nobili spalti la poesia, quasi a sottrarla a certa volgarità dell'epoca, a certe contaminazioni, a certa furia dissacratrice.[40]
L'interruzione del rapporto Fortini-Pagliarani non riguarda un'incomprensione, ma la cosciente conseguenza di due differenti visioni politiche ed espressive (di linguaggio), da cui derivano posizioni in aperto contrasto. Se Fortini si propone, a cavallo di anni Cinquanta e Sessanta, come il paradossale continuatore di una tradizione putrescente da usare in chiave rivoluzionaria,[41] Pagliarani non può che dissentire, sulla scorta dei suoi compagni di viaggio, commettendo quello che per Fortini è il tipico errore di chi vuole credersi autonomo all'interno di una società capitalista. Mossi da una simpatia umana venata da un'ombra di reciproco sospetto, i due ipotizzeranno una collaborazione che si dimostrerà sempre fallimentare sul piano degli intenti, mentre darà invece dei buoni frutti in campo critico-editoriale. Al favore che Fortini accorderà al primo Pagliarani, quest'ultimo cercherà di rispondere con una sorta di appello a un maestro che però si trasformerà in un freddo congedo, divenuto rottura all'indomani de I novissimi.
Vale la pena di notare come il nome di Fortini compaia anche in un altro passaggio di Lezione di fisica, si tratta stavolta della lettera in versi indirizzata a Giò Pomodoro, intitolata Dalle negazioni, sempre inerente al ruolo della creazione artistica. In un clima da guerra fredda e minaccia nucleare, Fortini diviene testimone di un'apparente contraddizione riguardante il destino di condannarsi a un conflitto come unica ragione di vita: «è provato mi ha detto Fortini che Kruscev ha pianto / a lungo per l'assassinio di Kennedy, e quanta luce su Kennedy / specchiato nella sua sorte».[42]
* Ringrazio Marianna Marrucci per i preziosi consigli.
[1] La cui redazione è stata composta da Luciano Amodio, Sergio Caprioglio, Franco Fortini Armanda e Roberto Guiducci (e dal numero 9) Franco Momigliano e Alessandro Pizzorno.
[2] E. PAGLIARANI, Pro-memoria a Liarosa (1979-2009), prefazione di W. Pedullà, postfazione di S. Ventroni, Venezia, Marsilio, 2011, p. 229.
[3] Ivi, p. 230.
[4] Cfr. Ragionamenti 1955-1957: ristampa anastatica, saggio introduttivo di M.C. Fugazza, Milano, Gulliver, 1980, pp. 250-252. L'articolo, siglato «e.p.», uscì sul numero 9, febbraio-aprile 1957, accompagnato da questa postilla: «Viene adoperato due volte, in questa nota, l'attributo semantico e una volta il sostantivo semanticità – ad evitare equivoci si specifica che il sinonimo più vicino è “significante”, la perifrasi “che dice e vuole e deve dire quello che è”: nella parola si assegna il maggior peso al semantema, cioè all'elemento cui è affidata la funzione significativa; in antitesi con quel procedimento per il quale in poesia la parola spesso è usata come mero flatus vocis, la scelta essendo determinata dal fonema».
[5] Pagliarani mutua da Theory of literature di Austin Warren e René Wellek le categorie di «kind» e «genre» per differenziare «la corrispondente bipartizione in generi come classi psicologiche, cioè qualificanti certi contenuti delle opere di poesia (dramma, epica, lirica), e i generi come portatori di tradizioni stilistiche (poema, poemetto, ode, etc.)», ivi, p. 251.
[6] F. Fortini, Metrica e libertà, «Ragionamenti», n. 10, maggio-ottobre 1957. Cfr. Ragionamenti 1955-1957: ristampa anastatica, cit., pp. 317-324, a p. 320, corsivo mio. L'articolo è poi confluito in ID., Saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, pp. 325-39. Per una introduzione generale ai saggi metrici, cfr. S. Ghidelli, Norma, orma, forma. La metrica per Fortini, in Franco Fortini e le istituzioni letterarie, a cura di G. Turchetta e E. Esposito, Milano, Ledizioni, 2018, pp. 105-20 [https://books.openedition.org/ledizioni/5437?lang=it].
[7] Ciò che Pagliarani chiama «kind» e Fortini «mimesi dei “moti” dell'animo», cfr. Ragionamenti 1955-1957, cit., pp. 251 e 320.
[8] F. Fortini, Saggi italiani, cit., pp. 350-358, alle pp. 352-353, corsivo mio.
[9] E. Pagliarani, Lezione di fisica, Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1964, p. 37-38. Oggi le poesie dell'autore sono raccolte in E. Pagliarani, Tutte le poesie (1946-2011), a cura di A. Cortellessa, Milano, Il saggiatore, 2019.
[10] F. Fortini, Saggi italiani, cit., p. 356.
[11] Ringrazio Maria Concetta Petrollo Pagliarani per aver concesso la consultazione di questo documento.
[12] Segnatura: F1 Pagliarani.
[13] «[…] l'ambientazione principale di Poesia e errore è una Milano industrializzata, segnata dallo squallore e dallo sfruttamento pianificato», F. Diaco, Dialettica e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini, Macerata, Quodlibet, 2017, p. 177.
[14] «Lo squinzàno del trani / e il Supermoka qui, / (case signorili, / condomini a fine aprile) / gli acidi delle bronzine / (dissaldano i binari), / le vernici a spruzzo, / le agre acacie, la pozza / di sangue secco sulla calce (pòvar / magùt…) al sole, il rovinio dei nuvoli / verso San Siro…», F. Fortini, Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2014, p. 197, primo corsivo mio.
[15] Fortini si corregge in una nota spiegando come il verso sia «tecnicamente» sbagliato, perché l'acido non riga le bronzine ma i cilindri.
[16] «[…] anche quando ricorre a delle misure lunghe, Fortini non sembra distaccarsi troppo da un regime di “verso liberato”. In altre parole, l'impressione generale è che la polimetria di Poesia e errore possa essere descritta come il mobile accostamento […] di versi tradizionali […] di endecasillabi anomali o ipermetri, di tredecasillabi non segmentati e, soprattutto, di versi doppi […] assemblati ovviamente con una licenza e un dinamismo pienamente novecenteschi», F. Diaco, Dialettica e speranza, cit., p. 174, n. 157.
[17] «il verri», n. 3, agosto 1959, pp. 70-72. L'intervento verrà poi raccolto in Gruppo 63. Critica e teoria, a cura di R. Barilli e A. Guglielmi, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 53-56.
[18] Vale la pena notare come il neo-crepuscolarismo rappresenti il principale idolo polemico anche nella prefazione a I novissimi: «Ciò che molta poesia di questi anni ha finito col proporci non è che altro che una forma di neo-crepuscolarismo, una ricaduta nella realtà matrigna cui si tenta di sfuggire mediante schemi di un razionalismo parenetico e velleitario, con la sociologia, magari col carduccianesimo», A. Giuliani, Introduzione (1961), in I novissimi. Poesie per gli anni '60, a cura di ID., Torino, Einaudi, 2003, p. 16.
[19] «il menabò», n. 2, 1960, F. Fortini, Le poesie italiane di questi anni, pp. 103-42; E. Pagliarani, La ragazza Carla, pp. 143-70. Il primo articolo è poi confluito in F. Fortini, Saggi italiani, cit., pp. 96-149. Cfr. anche le occorrenze presenti in ID., I poeti del Novecento, a cura di D. Santarone, con un saggio introduttivo di P.V. Mengaldo, Roma, Donzelli, 2017.
[20] Ivi, p. 117.
[21] Ivi, p. 118.
[22] Ibid.
[23] V. Tinacci, M. Marrucci, “Meglio peccare fortiter”, Pisa, Pacini, 2013, pp. 66-67.
[24] Collocazione: Fortini 3507.
[25] Archivio Fortini, Università di Siena, segnatura: F1 Fortini-Pagliarani.
[26] Archivio Fortini, Università di Siena, segnatura: F1 Pagliarani.
[27] E. Pagliarani, Lezione di fisica, cit., p. 47.
[28] Ringrazio Luca Lenzini per la notazione.
[29] F. Fastelli, Dall'avanguardia all'eresia. L'opera poetica di Elio Pagliarani, Firenze, Sef, 2011, pp. 26-34.
[30] E. Pagliarani, Difficoltà ideologiche del lavoro poetico. Sperimentalismo e impegno, «L'illuminista», n. 20-21, settembre-dicembre 2007, pp. 103-108, a p. 105. Nello stesso numero della rivista sono riportati i vari scambi della polemica alle pp. 47-51.
[31] D. Dalmas, Rifacimenti e appropriazioni da Agrippa d'Aubigné nella poesia di Franco Fortini, «L'ospite ingrato», 2/2005, pp. 119-141, a p. 125. Sulle posizioni di Fortini in merito alla neoavanguardia, vd. Due avanguardie [1968] e Avanguardia e mediazione [1968], in Verifica dei poteri, prefazione di A. Rollo, Milano, Il saggiatore, 2017, pp. 79-90 e 91-101. Sulla funzione degli intellettuali in Fortini, vd. F. Rappazzo, Eredità e conflitto, Macerata, Quodlibert, 2007, pp. 9-36.
[32] E. Pagliarani, Lezione di fisica, cit., p. 11.
[33] Ibid.
[34] Ivi, p. 47.
[35] Ivi, p. 12.
[36] Ivi, p. 13.
[37] Cfr. F. Fastelli, Dall'avanguardia all'eresia, cit., p. 27.
[38] Una nota redazionale prima del testo recita così: «Ovviamente, date le nostre posizioni che il lettore conosce bene, la sottile distinzione tra crepuscolarismo della sera e del mattino, non ci trova consenzienti».
[39] F. Fortini, Risposta a Elio Pagliarani, «Nuova Corrente», n. 25, gennaio-marzo 1962, p. 25.
[40] E. Pagliarani, Poesia ideologica e passione oggettiva (a proposito di Una volta per sempre di Fortini), «Nuova Corrente», n. 31, inverno 1963, pp. 37-40, a p. 40.
[41] È stato già notato come Poesia delle rose rappresenti il confine ultimo di un possibile dialogo di Fortini con la Neoavanguardia, cfr. F. Diaco, Dialettica e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini, cit., pp. 211-13.
[42] E. Pagliarani, Lezione di fisica, cit., p. 31.