Inventariare il privato
Roberto Deidier
La poesia di argomento amoroso è, sotto certi aspetti, una forma di dedica, magari implicita, poiché spesso il dedicatario rimane sconosciuto: questo accade per ragioni di opportunità che inducono alla discrezione, o più spesso perché quel genere di poesia, per quanto il suo oggetto sia unico e ben evidenziato, è di fatto un linguaggio universalmente condiviso e dunque travalica naturalmente quell’essenzialità oltre l’individuo che altri generi intimisti fanno più fatica a far pervenire al lettore. Dico questo perché ciò che voglio condividere, in questa occasione di ricordo e di omaggio a un poeta, è un segmento della sua opera in cui la dominante sentimentale si mostra in una compattezza e coerenza davvero straordinarie, tali da farlo apparire come un piccolo canzoniere, quale poi è. Il nostro poeta declina in questi versi tutta la parabola del crescendo e della disillusione, secondo un modulo dell’esperienza in cui qualunque lettore non tarda infine a riconoscersi. Non c’è bisogno di scomodare Barthes per ammettere quel tasso di verità che ogni discorso amoroso comporta, pur nel delirio immaginativo, nelle amplificazioni, nelle iperboli descrittive come nei tormenti. «L’altro è il mio bene e il mio sapere», scriveva il semiologo, e la poesia, come «episodio di linguaggio» che ambisce a liberarsi della sua stessa natura episodica vuole piuttosto asserire, ribadire quella «sensazione di verità»[1] che scandisce ogni pensiero intorno all’oggetto amato.
Prima della lingua dei versi sono dunque l’immagine dell’altro, che si crea attraverso tutte le nostre inevitabili sovrapposizioni, e il pensiero dell’altro a veicolare quella forma di dedica in cui va a tradursi la poesia d’amore. A cominciare da un titolo che sembra racchiudere, custodire quasi gelosamente una vicenda personale per esibirla invece come un modello di condivisione pubblica. Mi riferisco a Inventario privato, quella breve sintesi di immaginazione quasi allucinata e di precoce disinganno, tra le Cronache e La ragazza Carla, con cui Pagliarani conquista il suo posto nella poesia degli anni Cinquanta. Il privato a cui quel titolo allude è una realtà narrata, esposta con un andamento fin troppo riconoscibile per non destare, al contrario, il sospetto di un’esemplarità, di una verità umana, prima che poetica, dalla quale chiunque è inevitabilmente toccato. Con la scelta di quell’attributo il poeta indica piuttosto una precisa restrizione del campo argomentativo e insieme denuncia l’incursione in un territorio intimo, dove ciò che è destinato a succedere è in fin dei conti un fait accompli, una serie di eventi, invenzioni e reazioni di cui si compone comunemente l’apparato dei nostri rituali sentimentali: gesti, comportamenti, inviti, rifiuti, presenze e assenze.
Cosa viene portato, allora, allo scoperto, in queste ventuno poesie, scandite in tre tappe, e in cosa può consistere il loro valore di dedica virtuale? Credo che il termine più interessante del titolo, in questa prospettiva, sia il primo, Inventario. «Se facessimo il conto delle cose / che non tornano», comincia Pagliarani questo che potrebbe considerarsi un poemetto, o un racconto in versi. Un’ipoteca di possibilità, di eventualità, grava fin dal principio su quanto segue, riportando per questa via quel termine alla sua matrice etimologica, che è la stessa di <inventare>. L’esperienza forse più concreta a cui l’umana natura si piega è qui rievocata con l’avvio di un periodo ipotetico, ciò che più avanti segnerà una tappa precisa dello sperimentarsi anche nell’altrui poesia, attraverso una rivista importante degli anni Settanta, intitolata proprio «Periodo ipotetico». Eppure, in poesia, ciò che è possibile o eventuale si carica nell’immediato di una marca di verità, ancor più se ci troviamo nei pressi, o all’interno, come qui, di un discorso amoroso, per quanto né lineare né felice.
Dunque inventariare vale anche inventare e inventare (da invenire) ha tra i suoi significati in latino anche quello di <ritrovare>. Negli elenchi della poesia, a cominciare dai più antichi per noi (le immagini sullo scudo di Achille, le navi degli Achei) ciò che si perpetra non è la messa a fuoco di un reale tassonimizzato che altrimenti rischierebbe di sfuggirci, ma è piuttosto qualcosa di fenomenico, che prende vita nel momento stesso in cui si tramuta in linguaggio e ogni volta che quel linguaggio viene espresso nella lettura. È qualcosa che accade, non una sterile, immobile lista. Inventariare diviene per il poeta, qui fattosi poeta d’amore, richiamare a sé la vivacità di un’esperienza altrimenti destinata al silenzio del passato; significa inventare, nel duplice significato di narrare, di finzionare, e così immaginare, allestendo una propria mitografia sentimentale, ma anche, per l’appunto, di ritrovare, ovvero riconoscere, che è infine la sola, autentica azione che la poesia ci consente.
L’istante del riconoscimento è proprio quello in cui la dedica, da virtuale, diventa effettiva, efficace. È l’istante in cui comprendiamo il nostro livello di coinvolgimento, quello in cui l’argomento mitico si rivela nella condivisione del logos: oggetto, feticcio, proprietà non più del singolo, ma di una collettività. In poesia il segno più tangibile di questa collettività è il riuso: e allora vorrei proporre, da Inventario privato, un testo in particolare che credo possa rendere ragione al mio tentativo di discorso. Si tratta di questa poesia:
Se domani ti arrivano dei fiori
sbagli se pensi a me (io sbaglio se
penso che il tuo pensiero a me si possa
volgere, come il volto tuo serrato
con mani troppo docili a carpire
quando sulle tue labbra m’era dato
baci dalla città) non so che fiori
siano: te li ha mandati per amore
d’amore uno incontrato in trattoria
dove le mie parole spesso s’urtano
con la gente di faccia.
Che figura
t’ho data, quali fiori può accordare
nella scelta all’immagine riflessa
di te?
Non devi amarmi se ti sbriciolo
su una tovaglia lisa: e non mi ami.[2]
Siamo alla fine del secondo atto, verrebbe da dire, che prefigura già la «tempesta» del terzo e alla rilettura, in quest’ottica, dell’intera serie. E alle «sere tempestose» di un altro amore, inventato e irrealizzato, quello di Dora Markus, allude quella citazione, «le mie parole spesso s’urtano» («La tua irrequietudine mi fa pensare / agli uccelli di passo che urtano ai fari», aveva scritto Montale). Il «viso chiuso» dell’amata, già nel testo che precede, si fa qui più esplicitamente «volto tuo serrato»; il pensiero dell’altro si traduce in un movimento tristemente univoco, che spezza per sempre la completezza dell’evento amoroso in relazione al suo scenario urbano, altro attore, muto ma rievocato, in tutte queste poesie. È un processo di sottile, quasi sublime dissimulazione a segnare la distanza tra soggetto e oggetto: su una «tovaglia lisa» ogni sentimento – pane vitale – si decompone, si sbriciola – atroce metonimia - e rivela ormai che il processo dissimulativo si è compiuto nella terribile ingiunzione – e nella conseguente consapevolezza – che aprono e chiudono gli ultimi due versi: «Non devi amarmi», «e non mi ami».
Anche la citazione è una forma di dedica. Implicita verso Montale, da parte di Pagliarani, esplicita invece in un recente libro di Mario Santagostini dove ritroviamo questi versi, con opportuna indicazione di provenienza. Ed è con questa dedica (di terzo grado, ormai) che si riafferma il riuso di Inventario, ormai decisamente pubblico. La poesia di Santagostini si intitola Improvvisi, gli appunti del 1970 ritornano attuali ed è tratta da Il libro della lettera arrivata, e mai partita:[3]
Qualcuno, una volta, ha scritto
non devi amarmi,
se ti sbriciolo su una tovaglia lisa: e non mi ami.
Volevo assomigliargli.
Ci ho messo anni, per farlo.
Ci sono riuscito.
O, almeno, credo.
E mi chiedo se non essere amato
è una forma di vita,
o già qualcosa di meno.
O se ricorda, come molto altro,
il sonno.
P.S. I versi stanno in Inventario privato. Di Elio Pagliarani. Ho passato mesi, a leggerli. A volte, l’impressione è che non ho ancora finito.
[1] Tutte le citazioni da R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, trad. di R. Guidieri, Torino, Einaudi, 19797, p. 209.
[2] E. Pagliarani, Tutte le poesie (1946-2005), a cura di A. Cortellessa, Milano, Garzanti, 2006, p. 111.
[3] M. Santagostini, Il libro della lettera arrivata, e mai partita, Milano, Garzanti, 2022, p. 71.