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Sonetti del giorno di quarzo

Marco Ricciardi

A circa due anni dalla pubblicazione dei Poemetti della sera (Einaudi, 2020) esce Sonetti del giorno di quarzo, l'ultima raccolta di poesie di Aldo Nove, indubbiamente una delle figure più proteiformi, controverse e (anche) per questo assolutamente interessanti e necessarie della letteratura italiana contemporanea. In quella congerie di concrezioni e stratificazioni stilistiche, (conglomerate ormai in più di tre decenni di pubblicazioni, e di interventi) convivono, in una dialettica stridente e feconda, l’autore cannibale, pulp e cult di Woobinda con il cantore “mistico” di inni neo-mariani, l’autore di teatro e il biografo, l'inventore di slogan pubblicitari e l'infaticabile polemista social-politico. Epifenomeni apparentemente inconciliabili, non facilmente integrabili in un cifra interpretativa rassicurante e sintetica. In realtà, l'attraversamento diacronico-stilistico dello scrittore di Viggiù ci permette in qualche modo, su un piano macro, di individuare abbastanza agevolmente due distinte polarità (sorta di yin e yang dell'Uno-autore-Nove) che in qualche modo e con gradienti ed equilibri variabili presenti, hanno alimentato, sorretto e sostanziato (nelle sue esteriori, variegate e talvolta spiazzanti metamorfosi) una paradossale e sorprendente “integrità” autoriale. C'è un autore della “catabasi,” della discesa agli inferi, dapprima mimetica, che raggiunge il suo gradiente massimo nella narrativa cannibale degli anni '90: qui la fusione con “l’irrealtà” pervasiva, anaffettiva e dissacrata dell'iperconsumismo globalizzato, dove prodotti e corpi ridotti a merce da macelleria sono ormai sullo stesso piano, è (comicamente, ferocemente, omeopaticamente) quasi totale. Oppure più tardi, più propriamente, e con suggestioni dantesche (come ci suggerisce Gilda Policastro nel saggio La catabasi oscena da Pasolini ad Aldo Nove), ne La vita oscena, in una fase in cui il soggetto-narratore si è ormai diffratto in oggetto, guarda e racconta dall'esterno, autobiograficamente, la propria discesa agli inferi, nell'ambizione feroce di riconquistare uno spazio altro, dialettico, “catartico”, in un contesto storico che invece non sembra concedere un “altrove”. C'è, appunto, complementare e via via in modo prominente e prevalente nel Nove degli ultimi venti anni (quello più o meno per intenderci a partire dai primi anni 2000) un autore dell'“anabasi”, della risalita-fuoriuscita dalle spelonche della disgregazione psichica del non-sense in qualche modo alla ricerca di “un'unità perduta”. È un percorso che senza dubbio acquista sempre di più anche una connotazione mistico-esoterico-religiosa le cui motivazioni sono ben esplicitate in un'auto-intervista pubblicata l'11 Dicembre 2022 da Aldo Nove stesso (sulla sua bacheca personale del social network Facebook, spazio virtuale in cui ha ormai deciso compiutamente e coraggiosamente, tra un ban e l'altro, di fare “militanza” politico-letteraria): «Domanda: Esiste Dio? A: Se per Dio intendi la tensione senza tempo verso un'unità perduta, è l'unica cosa reale». 

Di fatto alla poesia Aldo Nove ha sempre affidato, fin dagli esordi di Tornando nel tuo sangue (quasi fosse un controcanto al glaciale cinismo splatter di un narratore-zombi totalmente e mimeticamente vampirizzato), il compito di ricostruire in qualche modo un'unità etico-estetica del suo essere al mondo, proprio in un contesto storico in cui questa unità, questa paranoia “mistica” e “positiva” dell'Uno, ma diremmo più propriamente del “senso”, viene maggiormente messa in discussione dalla schizofrenia babelica, dissacrante e contraddittoria della società del tutto merce (così come da un'infodemia-marketing pervasiva di un immaginario ormai babelico e globalizzato). La prima raccolta è maggiormente creditrice di riferimenti orfico-ermetici, e di autori a lui particolarmente cari come Milo De Angelis e Franco Buffoni (al quale infatti dedica la prima raccolta). Gli elementi dissonanti,  gli stridori linguistici, il basso, l'impoetico, il pornografico, il comico, entrano comunque progressivamente e con un gradiente via via maggiore nella sua poesia (in coincidenza cronologica con la sua prima narrativa pulp)  ma lo fanno sempre in una sorta di dialettica con un sublime continuamente negato e riaffermato, che porta a dei risultati e a un equilibrio davvero interessanti in Musica per Streghe (Milano, Polena, 1991  ) e in Fuoco su Babilonia (Milano, Crocetti, 2003). La cura formale, l'utilizzo di una metrica sorvegliata, in dialogo con una tradizione che diventa stella polare etico-estetica, è l'elemento con cui A. Nove cerca in qualche modo di metabolizzare, esorcizzare, riportare ad un'unità, tanto psichica, quanto metafisico-spirituale, la notomizzazione e mercificazione dissacrante dell'esperire contemporaneo. In questi Sonetti del giorno di quarzo   questa “forma di disciplina,di laboratorio interiore e di prassi esistenziale” (per usare le parole di Nove) che è la sua poesia raggiunge probabilmente uno dei risultati più compiuti. Che sia forse, ad oggi, l'impresa poetica più ambiziosa di Aldo Nove, viene da sospettarlo già riscontrando, ad una prima occhiata, la mole dell'opera (ben 350 composizioni), e l’insolita (ma non sorprendente) scelta (sulla scorta di quanto abbiamo detto sopra) di utilizzare rigorosamente  la forma sonetto. Un sonetto che riporta appunto alla tradizione («provo e riprovo, e sono Corazzini/ e Saba, sono Shakespeare e Petrarca»)(Sonetto 11) (come pure Sanguineti, citato qualche verso sopra) e che sembra un tentativo, quasi pratica meditativo-monastica, di ricomporre un mondo-mandala (come non pensare anche allo Zanzotto dell'Ipersonetto),  fatto, disfatto e rifatto ad ogni composizione, ad ogni pagina: «Vedere una struttura millenaria/testimone nei secoli per dire/ rimasti come i refoli dell'aria/meravigliosi prima di morire/ gravidi della luce e trattenuta/ in un sonetto [..] C'è stato in un sonetto il mondo intero,/il suo sfuggirci. Quasi nella mente/ mimasse un varco per condurci al vero.»(2. Il Sonetto).

I Sonetti del giorno di quarzo acquisiscono le sembianze epiche di una battaglia corpo a corpo, un esercizio letterario-marziale con il non-sense, con la distruzione di una visione condivisa e trascendente, fosse di tipo spirituale-religioso o politico ideologico.È chiaro che in Nove -pur affiorando qua là come vedremo, il tarlo di un problema metafisico di fondo, strutturale, a-temporale-  rimane centrale e fondativa la critica e l'invettiva contro il presente, nello scenario antropologicamente post-apocalittico, omologante, distruttrice di culture e di valori millenari della globalizzazione (in questo, ma anche per altri aspetti, sembra esserci un chiaro trade d'union con l'ultimo Pasolini corsaro, e con il Pagliarani de La ballata di Rudi e degli Epigrammi). Elemento, questo, che emerge con reiterata evidenza nei sonetti: «Quando c'erano i popoli, e culture/ diverse almanaccavano futuri/ e i giorni erano chiari mentre scuri/ i sentieri notturni, le paure/ vivificavano le attese, rese/ le anime e le storie a generarne/ di nuove...Ora è unico il paese/ d'infetta ed inconsapevole carne/ sonnambula[...]» (sonetto 108). La fine di una cultura e di un sistema di valori è in fondo la fine di una “narrazione” etica e condivisa della realtà, un mito fondativo con cui riconoscere e riconoscersi comunità. Senza vocabolario-valoriale comune è impossibile di fatto raccontarsi delle storie, «generarne di nuove». Ma un'idea di futuro condivisa non può prescindere da una “narrazione” ed infatti, continua più avanti il sonetto «[..] non è dato/ futuro, e nell'ignoto sprofondato/ è il mondo ultrascientificato». Questa riflessione riemerge chiaramente e ripetutamente all'interno della raccolta come ad esempio nel sonetto Davos. Il titolo si riferisce ovviamente alla sede in cui si svolge il World Economic Forum, dove i destini di intere economie vengono immaginati, previsti quando non apertamente “indotti” a paesi e governi da una ristretta oligarchia politico-economico-finanziaria. In Davos si evidenzia di nuovo come le “narrazioni” di un tempo abbiano ormai lasciato spazio al quotidiano  non-sense  del «grigiore mercantile»: «Quando gli spettri erano spettrali,/ confinati ai margini della notte,/ seguivano degli incubi le rotte/ oblique e non le multinazionali//  di cui adesso sono saldamente/ a capo spadroneggiando ogni istante/ di questa nostra vita allucinante,/ impero del delirio della mente./ Oh fantasmi di un tempo, oh narrazioni/ di mondi arcani oggi quotidiano/ grigiore mercantile [..]. (193. Davos). Intrecciata e parallela alla tematica “anti-globalista”, si fanno sempre più strada, in stretta corrispondenza cronologica tra composizione dei sonetti (rigorosamente datati) e avvenimenti, i temi legati alla pandemia e alle strategie attuate dai governi per affrontarla verso le quali i sonetti di Nove esprimono una critica profonda, che è innanzitutto filosofico-esistenziale e poi politica. La medicalizzazione forzata, il mito di una sicurezza a tutti i costi, del “rischio zero” rischiano di snaturare il senso stesso di ogni esistenza, che è strutturalmente rischio, «una ferita nell'inesistenza» un passaggio per evolvere verso altro (in questo senso si possono intendere i riferimenti al Corano e al testo sacro induista) :«O povera pandemia strumentale/ a un pianeta di polizia se siamo/ tutti malati del morbo mortale/dall'istante preciso in cui nasciamo/ e che chiamiamo vita. La ferita/ di cui prenderci cura è questo viaggio/ che ci affratella […] una gita/ che chi ha scompreso la Bhavagad Gītā/ o che ne so il Corano) la capisce/ come manuale per la via d'uscita […]  tradita la perigliosità che ci riunisce» (64 Vita- una ferita nell'inesistenza...). Ancora più esplicita e sarcastica è la poesia Oh intollerabilmente, per cui sarà «[..]il vaccino/ che ci salverà dall’intelligenza, /che ci proteggerà dal rio destino/sconfitto integralmente dalla scienza della psico-tecnologia sociale/» e grazie alla quale vivremo «[...]un'inesistenza decorosa, /disinfettata sterile operosa […] il loop perenne e quanto mai noiosa».(221 Oh Intollerabilmente). Quello descritto da Nove è un ecosistema culturale impoverito, privo di possibili dialettiche e confronti democratici. Ogni pensiero davvero alternativo, ogni opposizione reale al sistema sembra strutturalmente sabotata, di fatto impraticabile. Il pensiero critico diventa in questo contesto un minusvalore, uno stigma di cui vergognarsi, una vera e propria malattia: «[...]Non è più “normale” / l'antagonismo, è malattia. Pensare/ è malattia. Così l'autocensura/ mi governa sottile[...] (116. A Federico Sanguineti)

Il mondo dell'informazione, controllato in modalità sempre più mono-oligopolistico e in massima parte appiattito su posizioni di “sistema”, non riesce più a produrre il nuovo, le news, le “notizie” appunto, e si riduce a monologo autoreferenziale: «Se sfoglio i giornaletti del governo/ (“Repubblica”, “Corriere” e anche “Il fatto”)/ vedo solo il ripetersi in eterno/ di vaccini, statistiche e un coatto/prelievo qua e là di non notizie/ da “Amici” e come il serpeggiante senso/ di una mafia di zombie del consenso che tanto sta finendo. Le sevizie/ di questa non informazione hanno/ perso potere, autoreferenziali/ si parlano da sole. [..]» (Sonetto 136). Il sonetto 329 è dedicato a due intellettuali che Nove considera tra i pochi in Italia “non allineati” di opposizione, letteralmente «che non hanno abiurato» al loro ruolo di coscienza critica: il filosofo Diego Fusaro, noto per le posizioni antiglobaliste, rielaborate in una chiave marxista-sovranista e il filosofo Giorgio Agamben , celebre soprattutto per gli studi sullo “stato di eccezione”, e sulla crisi dello stato di diritto (indotta da  quello che, secondo il filosofo, è un perenne, capzioso e patologico ricorso al concetto di emergenza).  La figura dell'intellettuale “tipo”, al momento più diffusa in Italia ha però, per Nove, abiurato al ruolo di coscienza critica del potere e delle sue mistificazioni, e si è piuttosto ridotto al ruolo di «cortigiano» «ben foraggiato» è ormai degradato a lacchè del potere:«Non si è mai visto che il leccare il culo/ degli intellettuali fosse tanto/ convinto che di continuo m'incanto/ a guardarli trasformarsi in mulo/ ben foraggiato[...].

In alcuni dei Sonetti del giorno di quarzo c'è però anche spazio per una personale “abiura”, per una presa di distanza da un periodo in cui, (e con lui un'intera generazione)  è stato vittima e complice inconsapevole di un processo alienante e falsificatorio, della trasformazione del desiderio autentico in feticcio merceologico: «I miei affetti, i miei merceologici/ epifanici evasi dallo schermo/ televisivo erano del moderno/ provinciale feticci escatologici»(sonetto 114); oppure  (sonetto 317 L'Eden e la chiusura eterna dei ponti di Einstein-Rosen): «Davvero nient'affatto mi piaceva/ andare incontro a questo non futuro,/ oltrepassare d'ogni senso il muro/ e ritrovarmi, io solo, Adamo ed  Eva/ assieme, fuori dall'Eden di merci/ in cui per cinquant'anni ed oltre d'ogni/ frutto di quell'albero ignaro, a sogni/ che oggi mi sembrano frammenti lerci».

Questi che abbiamo affrontato sono probabilmente i nuclei tematici più presenti e potenti della raccolta, ma non mancano certo altri ingredienti e topoi caratteristici dell'autore: come il sonetto a tema erotico, l'amarcord familiare, i sonetti d'occasione (come quelli dedicati agli atleti Jacobs e Tamberi per la vittoria alle olimpiadi). Oppure le riflessioni più compiutamente religioso-filosofiche, che affrontano alcuni nodi della condizione umana al di là del contesto storico: «[...] Mamma dammi un verso/ soltanto che mi porti oltre la mente, / prima che tutto fosse mamma vieni,/ non nascermi, quanto di me trattieni/ dentro di te,/ mamma, dentro i tuoi seni,/ nel tuo respiro fa che m'avveleni d'eterno».(346 Mamma prendimi le mani)

Quello che più ci convince della raccolta è sicuramente la fitta rete polisemica che mette in relazione sonetti anche apparentemente distanti per tono e tematiche, la ricca e virtuosa mescolanza dei registri, sostenuta però quasi sempre da una sincerità di fondo e da una potenza metaforica che ne esorcizza in buona parte possibili cadute nel puro esercizio di stile.  In questi sonetti c'è, in qualche modo, il “mondo” di Aldo Nove, il suo tentativo di ricomporlo, esorcizzarlo, dotarlo di senso nel mandala “esoterico” ed evocativo (di una storia, di radici, di tradizioni) della forma sonetto. Una scelta di fatto ancora postmoderna? Può essere, ma in un contesto storico in cui “narrazioni” sistemi di valori, davvero palingenetici e progressisti (come in qualche modo erano stati ad esempio il cristianesimo delle origini, il Liberté Egalité Fraternité illuministici, o il pensiero marxista nell'800/'900 per intenderci) hanno ceduto il passo ad una pervasiva e anti-umanistica legge dei mercati, il ricorso alla tradizione sembra gioco-forza essere al momento, allo scrittore di Viggiù (in attesa di imprevedibili e auspicabili nuove liberatorie “epifanie” del pensiero umano), l'unica àncora etico-estetica di salvataggio. C'è, anche in questa raccolta, e più in generale nell'ultimo Nove (e questo è per noi probabilmente ancora più degno di encomio), il bisogno vitale di poter pensare, dire, ricercare e anche visceralmente gridare un “altrove”: di poter, in altri termini, riattivare una dialettica autentica senza la quale una vera idea di futuro non è concepibile. Una dialettica che possa esprimere anche un fecondo e autentico pensiero (o, perché no, meglio ancora, pensieri) di opposizione, e che possa tradursi nel diritto/dovere di ragionare “altrimenti”, in un contesto storico in cui alternative a quelle proposte-imposte dai centri di potere sembrano invece strutturalmente escluse o, sarebbe meglio il caso di dire, bannate. C'è, in definitiva, la volontà di svolgere in modo autentico (pur senza ingenui ottimismi, anzi, malgrado il pessimismo) il ruolo di intellettuale “militante”, di coscienza critica della società: e non è poco.

Aldo Nove, Sonetti del giorno di quarzo, Torino, Einaudi, 2022