p. 7-12 > Sul corpo della parola. Esperimenti in laboratorio.

Sul corpo della parola. Esperimenti in laboratorio.

Carla De Bellis


       Ho frequentato assiduamente il Laboratorio di Elio Pagliarani per due anni, dalla fine del ’76, nel ’77 e nel ’78. Ricordo bene la Tartaruga di Plinio De Martiis, mitica galleria d’arte, e la casa di Elio e Cetta nascosta con le sue segrete magie dietro il grande portone di Via Margutta; soprattutto ricordo l’intensità di quella esperienza. In realtà, a me non piace parlare di ‘ricordo’, perché ‘ricordare’ è come incorniciare una fotografia e tenerla lì, a distanza, relegandola, magari anche con rispetto e amore, a un suo passato non più recuperabile; piuttosto preferisco parlare di ‘memoria’, cioè di un tessuto intimo, inalienabile e vitale, quindi sempre attivo, di esperienze. Ed è proprio la vitalità costantemente attiva della memoria ad addirsi alla vicenda del Laboratorio di Elio Pagliarani.

       Devo confessare che il primo impatto è stato per me quasi traumatico: il luogo, gli incontri, la molteplicità delle voci, la figura energica rude e geniale di Elio, e quel respiro così vario e nuovo di un’inquieta idea di poesia, mi facevano star male. Mi pareva di non capire, all’inizio avevo una sensazione di estraneità. Eppure pochi anni prima mi ero laureata – e, come si suol dire, brillantemente – proprio in Letteratura italiana con una tesi su un poeta, un poeta ‘scapigliato’, Emilio Praga; cominciavo anche a lavorare nella mia Università, la “Sapienza”. Perché, allora, quel malessere? Quale novità mi stava mettendo alla prova? Di sconvolgente c’era appunto il ruotare della prospettiva su vari campi e soprattutto il modo – aperto, peraltro, e dinamico – di intendere e di ‘maneggiare’ il linguaggio poetico. Quell’intimità, ma battagliera e interrogativa, con la poesia, con il ‘corpo’ della poesia. Un continuo, acceso, corpo a corpo.

       Nel Margutta 70– libro prezioso che attesta proprio l’esercizio della memoria come esperienza vigile e attiva, per cui il tempo è un continuum impastato di novità –, Cetta Petrollo riporta alla luce, fra l’altro, alcuni documenti a stampa, testimoni del lavoro del Laboratorio. Sono due manifesti delle letture pubbliche di poesie fatte in giro per Roma alla fine dell’anno di Laboratorio, uno del ’78, l’altro dell’’81. Conservo quello del ’78, perché ero nell’elenco dei poeti recitanti. Anche quelle letture pubbliche sono state un esperimento e un’avventura.

       Nel libro di Cetta viene citato un altro documento raro e prezioso: il “Bollettino del Laboratorio di Poesia”, di cui uscirono solo due numeri, ora introvabili, nell’’81. Quel filo di angoscia, che aveva accompagnato la novità dell’esperienza, si era presto dissipato a favore, invece, dell’entusiasmo per la fitta dialettica conoscitiva in cui ormai ero entrata. Tanto che avevo scritto un saggio piuttosto lungo come resoconto e bilancio della prima fase del Laboratorio, e quel saggio apparve proprio nel primo numero del “Bollettino” (aprile 1981), con il titolo Esperimenti e metodi del Laboratorio di poesia ’76-‘77. ‘Esperimenti’ e ‘metodi’: tutto era molto plurale, ed esplorativo. Però la convergenza era verso un unico tema e fine e domanda. Quali il tema, il fine, la domanda? E come sono stati articolati? Occorre sospendere per ora la questione.

       Nel Laboratorio eravamo tutti molto giovani e ognuno all’inizio del suo percorso di poeta o di critico o di entrambe le cose insieme. Con il fervore di una continua scoperta, imparavamo a plasmare la parola poetica come fosse un duttile manufatto attraverso esperimenti ritmici e metrici, assemblaggi originali di parole già scritte, ritagli di giornale da suturare come oggetti visivo-verbali. E la lettura ad alta voce: la sonorità della voce poetante, che discende da arcaiche memorie, ora calata nella consapevolezza moderna dell’‘interpretazione’ come atto creativo e insieme critico, in una replica d’arte e in una duplice ‘riflessione’. L’artigianalità del ‘fare’ era inoltre sostenuta e orientata, in un’indagine assidua, da un robusto dibattito critico-teorico. Elio ad ogni incontro invitava un poeta o un narratore o un critico, un giornalista, un filosofo, uno psicanalista, perché saggiassimo i vari sguardi sulla poesia e la dimensione dei suoi vari volti.

       Ecco che, allora, abbiamo visto aprirsi, proprio come un frutto, la parola “melagranica” di Toti Scialoja, quel grumo di suggestioni foniche da cui si spiccano schegge sillabiche a costruire per associazioni sonore le catene verbali di un testo. I non-sense, i Limerick di Toti Scialoja, e la fattura plastica dell’oggetto poetico con il gioco combinatorio del materiale fonico, le sorprese semantiche, i paradossi: la parola istruita dall’esperienza pittorica e con essa intimamente ibridata. Da un “gioco”, energia creativa alimentata dalla pura gratuità, nasceva anche l’alfabeto fantastico della Grammatica di Gianni Rodàri, dove le parole sono magici suoni polisensi su cui rincorrere filze di significati, e come “sassi nello stagno” disegnano onde concentriche in superficie e muovono la sabbia del fondo. Fluida è la dimensione della fiaba, che trascolora dal reale all’immaginario, e ambiguo il suo presente iteratamente imperfetto (“C’era una volta…”). Un’esplorazione di prospettive, nella consapevolezza della vicenda problematica della cultura occidentale che stava provando a rivedere le basi del razionale e dell’oggettivo alla luce di altre forze: l’emozione, la contemplazione, la fantasia.

       Diversi strumenti vanno dunque offerti all’arte e alla conoscenza. Alla letteratura, se è “malattia”, se è “menzogna”: Letteratura come menzogna. Giorgio Manganelli, altro ospite del laboratorio, ha disegnato l’oggetto letterario come “taciturna trama di sonore parole”, riproducendo nel linguaggio critico la sua struttura paradossale. L’ossimoro articola l’intera vicenda letteraria, ed è la chiave stilistica di un discorso critico, che descrive lo scarto tra la parola e il reale e l’“irriducibile ambiguità” della scrittura. Illusionismo e miraggi, beffarde utopie, l’estremo paradosso della morte e del nulla: in una sfera alternativa al reale, il linguaggio, amplificato dalle figure retoriche, moltiplica con furia le sue figurate alterazioni. Nel testo, in sé oscuro e provocatorio, il lettore può, soltanto, ciecamente “precipitare”. Questo insegnava Manganelli.

       L’opera e l’inconscio. Sergio De Risio, psicanalista, propone la relazione tra poesia e psicanalisi, in quanto prassi gnoseologiche fondate sul dire. Non un linguaggio puramente strumentale e comunicativo, ma il luogo del significante al confine tra “il dire e l’indicibile”, dove entrambe le operazioni, poesia e psicanalisi, tendono a saldare i termini oppositivi di finito e di infinito. Torna la prospettiva psicanalitica con Ruggero Guarini, che richiama i saggi freudiani sul “fort e da”, la cantilena del bambino dalla madre assente, per ribadire la polivalenza e l’efficacia di una parola aurorale, quale è quella stessa della poesia, in grado di suscitare la presenza dell’oggetto assente attraverso il potere originario delle scansioni ripetitive del ritmo. Il discorso poetico, ancora una volta, appare sospeso “sul crinale del detto e del da dire”, la cui alternanza detta a vicenda piacere e angoscia. Finché una forma all’improvviso cattura ed esprime il non-detto.

       Arriva Ferruccio Rossi Landi e fa una nuova proposta metodologica: prova a trattare una sola parola. Quale? La parola “ideologia”, con le sue irradiazioni filosofiche. Rossi Landi intende “rompere in tanti pezzi il concetto” e costruire un “catalogo ragionato” sulle flessioni semantiche del vocabolo tra gli estremi del “falso pensiero” e della “visione del mondo”. Ritrova Marx, che con Engels ha portato la dimensione ideologica a livello di coscienza critica inquadrandola in una prospettiva sociologica e politica.

       Siamo invece di nuovo all’interno del linguaggio poetico con Mario Diacono, che torna sull’amato Ungaretti, calandosi all’interno del suo artigianato linguistico e osservando il gioco delle sue varianti. Il laboratorio di Ungaretti, denso di ricerche formali, fa della poesia un inesausto “discorso sulla poesia”. Nel lungo lavoro ungarettiano il verso appare infine come l’“enunciazione estrema al di là della quale c’è il silenzio assoluto”, e il testo intanto si consuma “come un sasso lavorato dal mare, ossificato, diventando quindi atemporale”.

       L’attitudine sperimentale del nostro Laboratorio ha messo in circolazione, fra l’altro, sul piano della ricognizione degli strumenti e della prassi dell’esercizio, alcune indicazioni dei Novissimi. Quando interviene Alfredo Giuliani, torna a quella proposta di scrittura come un “fare” sollecitato dallo “sperimentare”. La pratica della scrittura agisce in un gruppo che si scambia esperienze e procede per prove seguendo un’operazione aperta, mai definitiva. Pagliarani così muove il meccanismo del suo “doppio trittico” Rosso corpo lingua (1977) avviato dall’iniziale “proviamo”: “proviamo ancora col rosso”. Col “rosso”: fenomeno visivo e angoscia del significato; solo un colore materia di pittura, sfuggente alla forma, può però sciogliersi e aggrumarsi, duttile coagularsi nel giro di un disegno. Il ritmo creativo si apre a domande inesaudite.                                                                                         

     A questo punto occorre riprendere proprio i quesiti lasciati in sospeso. Tirare le fila di un così complesso lavoro laboratoriale e interrogare la sua stessa domanda: quale il tema, il fine, la domanda. Il quesito essenziale è quello che tra gli stessi poeti e critici si stenta a pronunciare: perché ha alle spalle secoli e secoli di trattazioni e suona ormai ingenuo, perfino incolto, addirittura impudico. Che cos’è la poesia? È questa la domanda, articolata in mille modi, e implicita, che anima la fabbrile inquietudine del Laboratorio. Impudica: perché la poesia è un corpo, e se è un corpo, è un corpo da denudare.

       Ma, prima di arrivare a toccarlo, quel corpo, occorre guardarsi intorno, per capire di quale fattura esso sia: ci si trova in una bottega artigianale, ci sono strumenti sottilmente materici, come, ad esempio, gamme di suoni da combinare o oggetti visivi, da ibridare (pagine, fogli, scrittura), e forme, forme da plasmare. Dunque la poesia è innanzitutto un’‘arte’ (“essa… è dopotutto un’arte”, ricordava Giuliani nell’introduzione a I Novissimi, 1961). Chiedendo lumi alla ricchezza semantica delle lingue antiche, ritroviamo in ars un ‘modo’, una ‘maniera’ attiva, o un’opera manuale che connette dei pezzi insieme; e non è un caso che ars abbia la stessa radice di artus (l’articolazione, la giuntura) e di arma, che designa soprattutto un ‘arnese’, uno ‘strumento’, un oggetto per agire, per operare. Ars, artus, arma: dunque l’arte’ è un modo, una maniera, ed è un’operazione manuale che ‘articola’ i suoi strumenti e il suo gesto fabbrile. E questo tragitto temporalmente articolato e profondamente consapevole, alla fine produce i suoi plastici oggetti fatti di parole: parole-suoni, parole-ritmi, parole-immagini (soprattutto), parole-spettacolo, parole-danza. L’arte è sia il gesto con i suoi strumenti sia l’oggetto portato alla luce.

       Se la poesia è ars (la prassi e le sue opere), allora è necessario che sia anche modus, la linea che delimita un corpo e la misura di un ritmo, il metron (la mano di Elio che scandisce il tempo). Tutto il repertorio tradizionale di metri, ritmi, figure, canoni e generi diventa essenziale non alla costruzione di oggetti che specchiano fermi sé stessi in un passato inattivo, ma al disegno di un bordo che delimiti sempre nuovi confini, anche temerari, anche aggressivi all’interno e al critico cospetto della realtà. Essenziale al disegno, al rilievo, alla plastica fattura, alla delimitazione di una ‘forma’. I plastici oggetti dell’‘arte’ sono dunque ‘forme’, la ‘forma’ investe la parola che perciò diventa forma di un ‘corpo’ assumendo la complessità di un organismo, duttile ma definito. Suoni, ritmi, retaggi tradizionali si selezionano e saldano a ricomporre un nuovo ‘corpo’.       Continuando a utilizzare concetti remoti, possiamo dire allora di aver imparato dalla lezione di Elio, tra le pareti del suo Laboratorio, che la poesia, in quanto parola fatta corpo, appare anche un medium, è in posizione mediana, elemento mediatore tra estremi: non solo tra il ‘dire’ e il ‘non dire’, il ‘detto’ e l’‘indicibile’, tra la materia e i mondi astratti, ma anche tra le sorti sfuggenti dell’‘io’ e l’aspetto magmatico della realtà.  E, arma in quanto strumento mediatore di un rapporto e di un contatto, può per questo esserlo anche in funzione bellica, quando incisivamente concorre a combattere stereotipi e pregiudizi, ottuse obbedienze.

       L’interrogativo sulla poesia è ancora aperto, e aperto resta, per gli artisti, con l’esercizio di pazienza e di consapevolezza, un impegno laboratoriale, colto e nuovo.

                             

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   Nella sezione Per Elio Pagliarani del n. 254 della rivista “L’immaginazione” (aprile-maggio 2010) sono stati pubblicati questi versi che avevo scritto per Elio, con il titolo    

     

     La mano batte il tempo    

     

La mano batte il tempo contro il tempo
falcia il grano dell’aria, la contrasta.
La voce è roca contro i suoni
avverte la tempesta
lacera la menzogna delle cose 
per menzogna più dolce e verità
più scabra.

Come corpo di donna la parola
chiede lotte amorose, corpo a corpo.
Corpo che fugge, velo da afferrare,
e quel corpo si libera e allontana
srotola l’ampia benda trasparente
che si stringe alle mani e oscura il nome.

Corsa e rincorsa, impeto e pazienza.
Lanciarsi in corsa e dopo stare in quiete
a raccogliere pietre e il sangue e il vetro
raggi plumbei e barlumi di ferite.
Ombroso della propria, è storia altrui:
stanando il tempo e il torcersi delle ore,
lo sfarinarsi dei friabili minuti
sul volto maculato del presente.

L’idea finge il discorso, si nasconde
negli esercizi della riluttanza.
L’antico indica il tornio,
i regoli e le squadre
il divenire instabile e le perse 
stimmate del vero sfatte in sangue.
Intelletto e memoria sono metri
di misure e rabbia, scatto di carne
speculato secondo conoscenza.

Calcare i segni già scritti col tratto
di penna più forte che sfonda il foglio
il suo bianco il suo nero,
esercizio del polso che la piaga
tenta del vuoto, l’abisso e il sepolcro
del Lazzaro duro a morire.

Parola su parola e la ribatte
l’assalta e sfregia corpo disamato
perché suono sia il senso o nessun senso.
Maglio che batte la roccia ferrosa
e vaglio del fuoco, fornace
a distillarne le gocce di sete
profetica invano e penitenziale.

Concetti e corpi, corpi di concetti
non probabile inganno di figure.
Tra piacere, bellezza, idea velata
quale mano indurita scaverà
la parola che sola percuotendo
poi risuoni? e dispera intanto
l’accesso alla misura.
Si fa il battito briglia della sorte
solitario possibile possesso
o esperienza incompiuta, litania.

Senso solo nel suono misurato
ma interminato, privo di confine,
vano dunque è ogni senso, anche l’alieno:
la fittile fattura, la menzogna?

Nulla è solo ricordo, Elio, se muove
vita ancora, solca arde e dilava:
un solo tempo senza strappi e colpe
accoglie impresso il suono della voce.


 

… (in un cono schiarito dentro l’ombra

scompare e appare il sorriso di Lia).