p. 15-32 > "Attenti a voi!" - Note sulla funzione Pagliarani nella poesia italiana del Duemila

«Attenti a voi!» - Note sulla funzione Pagliarani nella poesia italiana del Duemila

Marianna Marrucci

 

Abstract

Il contributo si pone l’obiettivo di sottoporre a verifica l’ipotesi di una funzione Pagliarani nella poesia italiana del primo ventennio del Duemila. Più e oltre che lascito del secolo scorso o tradizione tardo-novecentesca in prolungamento nel Duemila, la funzione Pagliarani viene assunta a macrocategoria ermeneutica da adottare per puntare lo sguardo su alcune componenti delle scritture poetiche contemporanee in risonanza con l’opera di Pagliarani. Dopo un’introduzione teorico-metodologica, vengono presi in esame quattro libri di poesia che rappresentano quattro casi esemplari.


The article aims to test the hypothesis that there is a Pagliarani function in the 21st century Italian poetry. After a theoretical and methodological introduction, the author of the article examines four case studies.

Keywords


Elio Pagliarani, epos e romanzizzazione, expanded poetry, soggetto imprevisto, poesia del Duemila.

Elio Pagliarani, epos and novel, expanded poetry, unexpected subject, 21st century Italian poetry.

 

 

  1. Eredità, filiazioni e funzioni

Insomma: questa, mi pare – anzi lo è - poesia basilare della poesia del Duemila: attenti a voi!

     È con un’improvvisa deviazione allocutoria all’indirizzo dei lettori (e forse anche dei poeti) del Duemila che si conclude la breve Nota in forma di lettera scritta da Elio Pagliarani per l’edizione in volume dell’opera di Sara Ventroni Nel Gasometro (Ventroni 2006: 6). Così, ballando alla sua maniera sulla sintassi, tra le spinte in avanti delle aperture argomentative e i tagli in verticale degli incisi, quindici anni fa Pagliarani collocava Nel Gasometro a fondamento della poesia del nuovo secolo. Tra le sue pagine sentiva muovere qualcosa di fondamentale per il futuro della poesia: «questa» - ammoniva - è «poesia basilare della poesia del Duemila», una poesia di cui rilevava soprattutto il respiro poematico - «poemetto anzi poema (non facciamo i finti tonti)» - e un rigore della sregolatezza a fungere da motore per tenere in alto tensione e ritmo: «mi sembri esagerata, di quelle esagerate che fanno invidia: come fai a sostenere tensione e ritmo per così tanti versi! Eppure li sostieni, quella e questo, almeno secondo me; e spero che ben presto saremo in tanti, diventeremo fan dell’astratto rigore della tua sregolatezza» (Ventroni 2006: 5) - scriveva Pagliarani a Ventroni, la quale, all’altro capo del volume, in calce alla propria Nota al testo, precisava che «questo Gasometro in parti varie appartiene a molte persone ma è dedicato interamente a Elio Pagliarani» (Ventroni 2006: 127).

     Questo dialogo a distanza, all’interno del libro, tra l’autrice, a un capo, e il prefatore nonché dedicatario, all’altro, potrebbe essere semplicemente collocato nella cornice del rapporto tra un maestro e un’allieva che si riconoscono reciprocamente come tali. Il gesto sarebbe corretto, ma non sufficiente, forse, a rendere piena giustizia interpretativa al Gasometro e a collocarlo opportunamente nel territorio, assai vario e frastagliato, della poesia presente. Pagliarani stesso, nel presentarla, proietta l’opera di Ventroni nel quadro delle più ampie evoluzioni della «poesia del Duemila». È lecito postulare, insomma, che Nel Gasometro possa essere utilmente accostato ad altri libri di poesia del primo ventennio del nuovo secolo e osservato, insieme a questi, attraverso una lente comune; una lente valida per mettere in chiaro tanto, forse, l’esistenza di una koinè quanto, anche, per ravvisare distinzioni e reti di relazioni intorno al confine tra i due secoli.

     Le pagine che seguono sono un primo tentativo di messa a fuoco di un’area della poesia italiana dell’ultimo ventennio da un punto di osservazione radicato nel Novecento e proiettato verso il Duemila.  L'obiettivo è quello di fotografare un genere di relazione che non comprenda solo i casi di filiazione diretta e riconosciuta da Pagliarani, ma anche – e più in generale - l’eredità indiretta e mediata di quello che è uno degli autori più originali e insieme rappresentativi del secondo Novecento italiano. In un recente bilancio sulla letteratura italiana del primo ventennio del Duemila, Emanuele Zinato ha rivendicato l’opportunità di «ipotizzare delle genealogie che connettano la letteratura duemillesca a quella del secolo precedente», per «tracciare delle “funzioni” e delle linee stilistiche e per illuminare alcune permanenze odierne (e non solo le dissolvenze) dei modelli italiani del Novecento» (Zinato 2020: 21). È proprio alla verifica di una di queste “funzioni”, nella prospettiva disegnata da Zinato, che ambiscono le pagine seguenti.

 

  1. La “funzione Pagliarani” come macro-categoria ermeneutica

     A una “funzione Pagliarani” nella poesia tra fine Novecento e inizio Duemila ha fatto cenno un quindicennio fa, per primo, Andrea Cortellessa, in un saggio incluso nell’antologia Parola plurale (Alfano et al. 2005) e poi confluito, rivisto, in un volume del 2006[1]:

Una “funzione Pagliarani” sarà riconoscibile – e fittamente popolata da giovani operatori, in effetti, sempre più a partire dai primi anni Novanta – nella tendenza a un declamato scenico, appunto, nel quale però il corpo dell’autore non si faccia esclusivamente istanza prossemica, icona visiva (come sulle scene “povere”, ma non per questo meno preparate, delle caves): bensì emittente concreta, strumento musicale quasi, di un’onda ritmica squassante e, appunto, “scandalosamente” corporea […] (Cortellessa 2006: 64)

     Dopo aver ricordato Pagliarani al centro di un fitto reticolo di scambi e discepolati romani tra la pagina poetica e la scena teatrale già a partire dagli anni Settanta,[2] Cortellessa postula l’esistenza di una “funzione Pagliarani” già riconoscibile nei primi anni Novanta e la cui cifra distintiva sarebbe la corrispondenza tra «un massimo gradiente di corporalità» e «la più risoluta epochè dell’Io»: il corpo è, «direttamente, linguaggio: istanza relazionale e, al limite, spettacolare» (Cortellessa 2006: 67). E sulla linea che fa del corpo dell’autore un’emittente concreta del ritmo Cortellessa colloca proprio l’esperienza di Sara Ventroni, quando, nel 2005, il Gasometro non era ancora stato pubblicato: «(si segnala – nell’ultimo panorama – una voce già matura, ancorché senza raccolte organiche all’attivo: Sara Ventroni, nata nel 1974)» (Alfano et al. 2005: 34-35).[3]

     In un altro contributo raccolto nel volume del 2006 (Cortellessa 2006: 44-60) Cortellessa attribuisce a Pagliarani un magistero ancora più ampio, collocandolo, in questo caso, a capostipite di un orientamento rilevante e variamente declinato nella poesia di fine secolo. Pagliarani docet è il titolo di un paragrafo all’interno del saggio. È un magistero che fa perno sulla parodia, intesa come ripetizione a distanza critica, in una dialettica di complicità e distanza, sulla scia, principalmente, delle tesi di Linda Hutcheon,[4] o nel senso bachtiniano di parola bivoca, attraversata cioè da due intenzioni di senso. È soprattutto il cut-up degli Esercizi platonici e degli Epigrammi ferraresi[5] che viene qui valorizzato come modello per la poesia futura. In una prospettiva centrata sulla componente parodica, l’eredità di questo Pagliarani viene collocata a coronamento di una linea che attraversa tutto il Novecento, a partire dai Poemi di Aldo Palazzeschi (1909), e il cui principio-cardine sarebbe il rovesciamento. Osservando i movimenti d’inizio secolo, Cortellessa mette in relazione il fenomeno della «teatralizzazione del genere lirico» descritto da Mengaldo con il dispositivo retorico della parodia e con la tensione a una poesia dialogica in senso bachtiniano. Effetti del magistero di Pagliarani si riscontrerebbero in un citazionismo dal doppio movimento, che tiene insieme la complicità e la distanza, rintracciabile in molte sperimentazioni di fine Novecento, da quelle di Alessandro Fo a quelle, molto diverse, di Rosaria Lo Russo, Biagio Cepollaro, Lello Voce, Andrea Inglese, Tommaso Ottonieri.

     L’insieme degli interventi pubblicati su “alfabeta2” all’indomani della sua scomparsa e poi riuniti in volume[6] mette in luce una rete ben più estesa di relazioni con l’opera e con la figura di Pagliarani, che da sola basterebbe ad assegnargli un posto di primo piano tra i maestri novecenteschi della letteratura del nuovo secolo[7], o meglio (ma l’una cosa non esclude l’altra) tra i precursori di alcuni tratti della poesia presente. Apprezzata dai poeti prima ancora che dalla critica, l’opera di Pagliarani risulta capace di aprire strade di ricerca decisive per la letteratura italiana del nuovo secolo. Poeti tra loro lontanissimi convergono su alcuni nodi di poetica e di stile. Per fare un esempio, se per Biagio Cepollaro la lezione più importante di Pagliarani, «un maestro», è che «la sperimentazione letteraria consiste non nel trattare in modo insolito la lingua ma nell’usare strategicamente l’insolito, lo scarto rispetto alla norma per smascherare l’ideologia del mondo che la lingua sempre veicola» (Cortellessa 2013: 32); Maurizio Cucchi, che conclude con un «ancora grazie, maestro», collega la sua prima lettura della Ragazza Carla all’impressione provocata dalla «capacità di cambiare di colpo registro», segno di un «valore capace di oltrepassare i generi» (Cortellessa 2013: 43). La lezione di Pagliarani, in riferimento anche ai Laboratori di poesia, viene riconosciuta da autori tra loro distanti, come,  per esempio, Claudio Damiani («in quel laboratorio ci incontrammo tutti: era una generazione intera di scrittori in un momento di passaggio importante» e Pagliarani, che «aborriva la lezione», si presentava come un “umanista” dotato di «un’incredibile capacità di ascolto», Cortellessa 2013: 46), Edoardo Albinati («è raro, ho scoperto in seguito, che il gusto di influenzare il prossimo si eserciti in una maniera tanto riservata», Cortellessa 2013: 11) e Rosaria Lo Russo («soprattutto noi donne che scriviamo poesia gli dobbiamo molto, ci ha dato forza e coraggio di osare essere quello che siamo», Cortellessa 2013: 81). Questa capacità di ascolto e di attribuzione della parola, che sta alla base di uno dei tratti distintivi dell’opera di Pagliarani, è ben raffigurato negli ultimi versi di Elio, tu che sei Carla di Maria Grazia Calandrone come eredità da rivitalizzare: «[…] Ma tu, Elio, che è da cinquant’anni/ che sei Carla, fai che uno raccolga/ questo cupo rumore di vespaio, il rombo infetto della cattedrale/ del mercato, questo impasto cruento dei corpi/ giovani e precariato/ e ne faccia durata, tempo/ comune e dell’io inesemplare, un assetto corale della voce, abbia pietà.» (Cortellessa 2013: 27).

     Nell’atto di introdurre il volume del 2013, lo stesso Cortellessa è tornato sull’incisività e sulla vitalità della lezione di Pagliarani:

Dal 1977 al 1988 i suoi Laboratori di Poesia – ricordati da molti – sono stati tra le non molte cose vive della città dove aveva scelto di vivere: di lì sono transitati tutti gli autori maggiori delle generazioni seguenti; ciascuno dei quali se n’è poi andato per una strada diversa, tutti mantenendo viva però quella lezione. Una lezione che s’è poi riverberata sui più giovani ancora, più o meno a distanza. E che per gli scrittori di oggi, in versi e in prosa, resta una delle poche spendibili. (Cortellessa 2013: 7)

     Più e oltre che lascito del secolo scorso o tradizione tardo-novecentesca in prolungamento nel Duemila, la vitalità attuale della lezione di Pagliarani può, dunque, essere letta nei termini di una vera e propria “funzione”, da assumere a lente privilegiata per mettere a fuoco alcune componenti delle scritture poetiche contemporanee in risonanza con l’opera di Pagliarani. L’obiettivo non è tanto quello di ricostruire una genealogia; si tratta, piuttosto, di verificare le potenzialità di una “funzione Pagliarani” intesa come macro-categoria ermeneutica che, per quanto ampia e lasca, si presti ad essere adottata per indagare continuità e rotture, longevità e cesure, in una postura strabica, che guardi contemporaneamente da una parte e dall’altra del confine tra i secoli. Per sondare tali potenzialità ermeneutiche, è utile  cominciare dall’isolamento di alcune marche distintive della macro-categoria, marche da intendere come indicatori dinamici, ciascuno legato a un nodo retorico-formale e teorico fondamentale e in stretta relazione reciproca.

     Un primo indicatore può, allora, corrispondere all’apertura oltre i confini tra i generi, in un orizzonte expandend[8] che nel Novecento non è una modalità esclusiva di Pagliarani; è però da Pagliarani praticata in modo radicale, se consideriamo la genesi transmediale dei suoi capolavori. Basti pensare che La ragazza Carla e buona parte della Ballata di Rudi nascono al di qua delle distinzioni di genere: «Nel 1948 mi è capitato di scrivere tre pagine come traccia di una storia che mi sarebbe piaciuto vedere realizzata: poteva essere la traccia di un romanzo, di un soggetto cinematografico, e perché no di un poemetto […] mi trovavo di fronte a tre storie diverse, o, se vogliamo, a tre storie diversamente possibili» (Pagliarani 2019: 461). Tale dimensione expanded si traduce in una forzatura dei limiti e in un attraversare i confini per disegnare nuove regole e nuovi confini a ogni sconfinamento. Per Pagliarani il movimento nasce prima di tutto dall’esigenza di reinventare i generi della poesia per travalicare il perimetro tracciato dal paradigma della lirica moderna, dato che, come è noto, «non ha senso negare l’identificazione lirica=poesia senza una reinvenzione dei generi letterari» (Pagliarani 2019: 469). Per chi scrive nel nuovo secolo l’orizzonte expanded è anzitutto lo spazio in cui “verificare” le possibilità stesse che ha la poesia di mettere in forma le esperienze del mondo, cioè di esistere.

     Una seconda marca di riconoscimento della funzione Pagliarani sta nella tensione, tanto profonda quanto irrisolta, verso l’epos, che nella modernità si dà solo sotto il segno della parodia, intesa come ripetizione a distanza critica, secondo la direzione indicata da Linda Hutcheon: «a form of repetition with ironic critical distance, marking difference rather than similarity», tale da produrre «the tension between the potentially conservative effect of repetition and the potentially revolutionary impact of difference» (Hutcheon 2000: XII). E se la parodia, per Hutcheon, «is one of the major forms of modern self-reflexivity», è anche «both a symptom and a critical tool of the modernist episteme» (Hutcheon 2000: 3). Si può attribuire proprio a Pagliarani la fondazione, nella cultura italiana, di un modo epico moderno o, appunto, modernista, che fa ampio ricorso ai dispositivi formali dello straniamento e della metalessi, che mette in primo piano le inversioni di ruolo e le ibridazioni spiazzanti tra elementi di segno opposto. In questa particolare rifunzionalizzazione dell’epos agisce in profondità anche l’influenza del modello del teatro epico di Bertolt Brecht, che Pagliarani conosce bene anche grazie alla sua attività di critico teatrale. Va tenuto conto anche del fatto che una simile tensione all’epos si correla a un orientamento all’incarnazione della poesia nella voce e nel gesto, non semplicemente nei termini di un approdo finale alla performance orale, quanto, piuttosto, nel senso di un metodo compositivo en plein air e intimamente relazionale, su cui si avverte una concezione del teatro come banco di prova per verificare la socialità dell’arte, ovvero la capacità di mettere in forma un orizzonte comune.[9] L’impianto dialogico e relazionale si contamina con un assetto corale, dove il ‘noi’ è precipitato di una soggettività che non si scioglie nella collettività ma si afferma senza annullare l’altro. È su questo punto che la tensione all’epos si interseca con l’influenza del romanzo.

     Siamo al terzo segnale di riconoscimento della funzione Pagliarani: la presenza di effetti di romanzizzazione, secondo quel fenomeno, prospettato da Michail Bachtin, di influenza del romanzo sugli altri generi nel momento in cui questo diventa il genere dominante (cfr. Bachtin 1997), un fenomeno che attraversa la poesia italiana del secondo Novecento e rispetto al quale opere come La ragazza Carla e La ballata di Rudi rappresentano, per certi versi, la punta dell’iceberg. Il fulcro di questo fenomeno è la componente dialogica, intesa a vasto spettro, come parola bivoca e biaccentata, cioè attraversata da due intenzioni di senso o nella quale si rifrangono punti di vista ideologico-sociali diversi sul mondo e si mostra in azione la pluridiscorsività sociale, intesa come espressione delle contraddizioni del reale. Non solo tendenza della poesia ad andare verso la prosa (secondo la nota tesi di Berardinelli), o verso il teatro e il recupero di tratti epici, cioè a farsi performativa e narrativa (Mengaldo), né semplicemente poesia dopo la lirica (nella tesi sostenuta sia da Niva Lorenzini sia da Enrico Testa),[10] ma una poesia attraversata da effetti di romanzizzazione a diversi gradi di intensità. La categoria di romanzizzazione – come ha riconosciuto di recente anche Raffaele Donnarumma - è la «chiave di lettura più utile» (Donnarumma in Tortora 2018: 85) per capire le metamorfosi della poesia italiana secondonovecentesca, perché tiene conto sia della tendenza narrativa sia dell’accostamento alla prosa per volontà di rottura del monologismo dominante nel paradigma della lirica moderna. Gli effetti di romanzizzazione si manifestano, dunque, non solo nella vera e propria invenzione di personaggi la cui parola è un affondo nella realtà sociale, ma soprattutto nell’accostamento stridente delle loro parole, in quel pullulare di allocuzioni, turni di parola, discorsi in indiretto libero e botta e risposta, su cui fa perno l’allestimento di piattaforme narrative intimamente polifoniche.

     A ciò si collega un quarto indicatore: l’adozione di prospettive stranianti che portano in primo piano soggetti inediti sulla scena della poesia, per esempio quello della dattilografa Carla, vittima di molestie a opera del datore di lavoro in un ufficio milanese del dopoguerra, o della signora Camilla nella Ballata di Rudi, che rivendica il valore del lavoro in un mondo dominato dal «sistema ingegnoso di fare soldi coi soldi». È, questa, una delle strade attraverso le quali si riattiva e si rifunzionalizza anche il modo lirico, passando per un’epica di fondazione di nuove soggettività. Una tensione verso la costruzione di soggettività inedite è avvertibile anche nella lirica straniata di Inventario privato e nell’idea (di cui Pagliarani ha raccontato in Promemoria a Liarosa) di riscrittura dal punto di vista di lei, invertendo i ruoli tra io (maschile) e tu (femminile) della tradizione lirica (Pagliarani 2011: 217).

     Nei paragrafi che seguono vengono presi in esame quattro libri di poesia del primo ventennio del Duemila nei quali è possibile rintracciare una funzione Pagliarani variamente rimodulata: non esauriscono la descrizione del fenomeno, ma ne sono casi esemplari.[11] 

 

  1. «Battere il ferro anche s’è freddo». Nel Gasometro di Sara Ventroni

     Nel Gasometro è un’opera multimodale, che prende corpo all’inizio del nuovo secolo a partire da un’ossessione dell’autrice per la materia gassosa nella modernità, al confine tra la vita e la morte, tra l’umano e la macchina.  Riconducibile all’orizzonte expanded (di cui è un caso esemplare), Nel Gasometro è, nei fatti, un progetto aperto che si sviluppa nel tempo diramandosi in diverse possibilità, finché approda in un volume pur continuando a esistere anche fuori dalle pagine. Il libro, a sua volta, incorpora ciò che lo precede e, intanto, prevede un inveramento di ciò che contiene al di fuori del proprio spazio. Al vero e proprio poemetto dal titolo Nel gasometro seguono altri testi: un racconto in prosa e immagini fotografiche (La buca del dollaro); versi espunti (o aggiunti ex post) del poemetto (Extra da Nel gasometro); una sezione in versi comprendente anche le immagini delle carte (in realtà pagine del catalogo di un cineclub) su cui è stata composta (Ur-Codice del Grande Vetro); i disegni dello storyboard per un video sul Gasometro (realizzato nel 2005 per accompagnare le performance sul palco); i bozzetti per una messa in scena con acrobazie; infine una prosa, che ingloba anche dei versi e si completa con alcune immagini fotografiche (Le premesse). Ventroni ha eseguito Nel Gasometro in numerose performance sia precedenti che successive alla pubblicazione del 2006. Questi movimenti centrifughi, tuttavia, servono anche alla verifica della tenuta dei versi sulla pagina, tanto che – ha spiegato Ventroni – «ogni lettura è anche un laboratorio continuo in cui mettere alla prova i testi», cosicché «può succedere, come mi è successo, che lo stimolo o la collaborazione con altre forme di espressione (musica o video) porti un’ulteriore domanda alla poesia e la poesia, a suo modo, risponde, anche toccando dei limiti che non sapeva di avere» (Ventroni 2006).

     Il gasometro è parte integrante del paesaggio urbano moderno. È una struttura concepita per contenere a pressione costante una miscela gassosa usata per l’illuminazione pubblica, per usi domestici e industriali, specie nelle acciaierie. A partire dagli ultimi decenni del Novecento i gasometri sono stati dismessi, ma le strutture sono rimaste nelle città come fantasmi della modernità.  Ventroni assume il gasometro, «rudere semieterno», a dispositivo figurale multiforme e stratificato, da cui si diramano due principali direzioni di senso: una dalla consistenza solida, pesante e piena, ma fossile, riconducibile a una razionalità che produce follie, ovvero, con le parole dell’autrice, «un Moderno che non c’è più, storia del gas, industria bellica, alchimia, petrolio»; e un’altra cava, leggera, aerea, aperta e attraversabile ma pronta a trasformarsi in gabbia claustrofobica, ovvero «prigione, circo, installazione, totem enigmatico» e ossessionante. Osserviamo una delle parti iniziali del poemetto:

Senza peso raschiano la ruggine:

                                                        i corpi riportano l’osso

al colore rosso. L’oro non ossida, il bianco non esiste,

l’umano è innaturale:

rarefatto adatto al ferro (l’oro è ancora troppo

                                                                                 raro):

e l’acqua e l’aria fanno un lavoro sporco:

sottoposto al tempo il Gasometro

non ha senso non ha verso non è spazio.

Non tiene la materia,

                                      la espelle verso l’alto.

     La disposizione dei versi mette in scena il gasometro dall’interno, in quanto spazio cavo e attraversabile. La materia viene attaccata da altra materia, che la erode, la fora e la espelle. Si intersecano e si scontrano la materialità e l’astrattezza, la gravità e il volo.

     Nel Gasometro è un poema («non facciamo i finti tonti» – avvertiva Pagliarani) di attraversamento archeologico del moderno, dei suoi miti e dei suoi orrori. La dimensione epica si realizza nel segno della ripresa a distanza critica e dell’inversione. Poggiando su un movimento che si produce a partire da ciò che resta della modernità, quella di Ventroni si configura come un’epica di fondazione all'inverso: anziché celebrare le origini mitiche, punta lo sguardo sui fossili e sui fantasmi dei grandi miti della modernità, ovvero l’industria pesante, la lavorazione dei metalli e il lavoro duro e usurante degli operai, il Gasometro e la tecnologia di conservazione del gas, che illumina e scalda, ma produce anche sterminio e sconvolge l’ambiente vitale:

La guerra dà il tempo, ha il tempo

                                                            della tecnica sullo spazio.

     Il Novecento è il secolo del benessere e dell’orrore, del trionfo della tecnologia e della follia. Il gasometro vuoto e inattivo svetta nel profilo urbano come metonimia plastica del gas. E la meta dello scavo archeologico di Ventroni è proprio il gas, figura quanto mai efficace del Novecento (e oltre): infatti è, insieme, strumento di guerra e di comfort, di sterminio dell’umanità e di produzione di materia artificiale («Usato in massa, il gas/ provoca l’estinzione di tutta la materia/ umana.»). La materia gassosa può distruggere la «materia umana». Allora lo scavo si rivolge ai fantasmi umani e tenta di allestire «un quadro fisso, una scena di posa» per «esibire un lavoratore, fermarlo nel tempo». Gli eroi di questo poema sono gli operai dell’industria moderna; ma non sono, anche questi, che fossili di eroi, rappresentanti di un’umanità sotto processo di rarefazione. Uno sguardo, per quanto rapido, ai titoli delle singole parti del poema rivela un movimento dallo spazio aereo privo di «attrazioni di massa» al suolo terrestre. È sufficiente prestare attenzione alle tre parti in cui è articolata l’opera: Gravità, Rarefazioni; Fuochisti, acrobati, astronauti e La fabbrica del mondo. E la prima parte è organizzata in tre quadri: I. Spazio, II. Terra, III. Sottoterra. Si aggiunga che il poemetto si conclude con Il tesoro è nascosto sotto il tempio («Il tempio illumina le strutture/ si accendono di nuove luci/ si riscaldano poi esplodono./ Scavate sotto il tempio del Gasometro.»). Il percorso procede a ritroso dal fossile, un fossile lanciato verso il cielo, alle origini del mito; inizia in volo per proseguire a terra, con il lavoro duro degli uomini lungo le sponde del Tevere («più di trenta/ uomini con tute di velluto grezzo e stivali verdi/ alti fino al ginocchio»); scende, infine, nel sottosuolo, dove – si legge in una Nota a Dal Codice del Grande Vetro - «come altri, anche questo codice dell’era moderna è stato trovato […] nelle fondamenta del Gasometro». Il codice, tuttavia, non offre una risposta alla domanda di senso. È, piuttosto, in risonanza con una ossessione per le istruzioni, per le regole e per l’esecuzione di compiti, che attraversa tutto il poema, a partire dal testo in esergo: «Altri ancora si attengono alle istruzioni, all’igiene./ Non toccano a caso ma eseguono, nemmeno parlano».  Le leggi che regolano il moderno, insomma, non sono che istruzioni da eseguire; in definitiva, obbediscono a un principio di sostituzione della tecnica al pensiero.

     Il modo in cui si realizza la tensione all’epos in Ventroni è condensato nell’ultimo verso della breve poesia che conclude la sezione Extra da Nel Gasometro (Il fuochista): «Battere il ferro anche s’è freddo». La frase idiomatica «battere il ferro finché è caldo» viene sottoposta a un procedimento di inversione (al caldo subentra il freddo, che comporta una diversa consistenza della materia) e di straniamento (alla temporale si sostituisce una concessiva ma il parallelismo fonico-ritmico fa sì che si conservi il fantasma della temporale) che attiva significati inediti: lavorare lo scheletro del gasometro anche se è freddo, anche se è un fossile, ovvero farlo parlare e dare, così, la parola ai morti, raccogliere testimonianze dai miti devitalizzati del moderno e farli parlare per mostrarne il rovescio di orrore.  Il gasometro, nella sua natura di «splendido mostro», per riprendere le parole di Pagliarani, incarna proprio questa radice ossimorica del moderno su cui batte i piedi ossessivamente la poesia di Sara Ventroni.

 

  1. La staffetta delle «anime azzurre». Ogni cinque bracciate di Vincenzo Frungillo

     Nel 2009 Vincenzo Frungillo dà alle stampe Ogni cinque bracciate, un poema in ottave in cui è possibile rintracciare tre marche di un’ipotetica “funzione Pagliarani”. A questo proposito è utile osservare l’opera a partire dalla sua appendice. Nel libro, infatti, il poema è seguito da una Appendice fotografica, una sezione documentaria che non si presenta come un commento o come una didascalia rispetto ai versi né, viceversa, come loro fonte storica, bensì - scrive l’autore in una nota di accompagnamento - come «una parte in più del libro; un’altra storia raccontata con altri mezzi» (Frungillo 2009: 120). L’Appendice contiene diciassette immagini, in due casi estratte da un reportage giornalistico e, per il resto, corrispondenti a riproduzioni di fotografie conservate nella Bstu, l’Archivio della Stasi, l’ex polizia segreta della DDR:

Finalmente negli archivi della Bstu ho trovato l’incartamento riguardante il doping nello sport nell’ex Germania dell’est e le foto delle nuotatrici tedesche delle Olimpiadi di Mosca del 1980. (Frungillo 2009: 119)

     Le foto ritraggono le quattro nuotatrici tedesche della staffetta vittoriosa ai Giochi olimpici del 1980 in diverse situazioni: in gara, sul podio e nelle cerimonie ufficiali al rientro in patria. Il montaggio di queste immagini, che sono state realizzate dalla prospettiva del controllo e della manipolazione dei soggetti fotografati, allestisce un’altra narrazione della loro storia:

Mentre duplicavo le immagini delle atlete, immortalate prima delle competizioni dall’occhio vigile e poco artistico della Stasi, mi rendevo conto che quei corpi restavano lì, eternamente giovani e vibranti, come una parola tesa nelle sue estreme possibilità prima di perdersi nell’ampollosità persuasoria della retorica o di cristallizzarsi nella certezza apodittica dell’ideologia. (Frungillo 2009: 120)

     Frungillo ha condotto personalmente la ricerca delle immagini, arrivando alla Bstu come «ultimo tentativo» - scrive - «per trovare le immagini delle campionesse di nuoto a cui stavo dedicando un libro» (Frungillo 2009: 119).

     Una simile ampiezza transmediale, che coinvolge diversi codici espressivi e si pone a fulcro dell’opera, può essere intesa come marca expanded, come segno di una poesia che sconfina per dialettizzarsi e così verificare la propria tenuta, cioè la propria capacità di dare forma al reale. Il contatto tra il poema e l'Appendice fotografica si situa proprio nei punti di intersezione tra la realtà e la finzione: la sezione fotografica è costruita con fonti storiche, documenti della costruzione e del controllo, da parte del potere politico, di un mito, lo stesso mito che il poema risemantizza plasmandolo dentro una piattaforma epica; che è il più evidente indice di una presenza della lezione di Pagliarani in quest’opera. Non è un caso che lo stesso Pagliarani abbia voluto firmare la Prefazione, nella quale non manca di inserire il poema di Frungillo dentro una linea della cultura e della poesia contemporanea in cui «il poema epico intende riaffermare le proprie lontanissime origini: cioè cantare eventi reali, certo nella versione consentita dai tempi, che troppo raramente concedono oggimai agli eventi di essere memorabili». E se «tutti i poemi epici raccontano degli eroi, di vicende della storia», è Pindaro che, «attenuandosi, Dio piacendo, le guerre riconobbe che gli atleti erano diventati ormai gli eroi, i più splendidi rappresentanti di una nuova epoca» (Frungillo 2009: 7). Certo, questa di Frungillo è l’epica «consentita dai tempi»: le eroine sono protagoniste di un mito costruito dal potere e sostenuto dalla chimica, in tempi nei quali lo sport e la guerra non sono affatto in antitesi (tacendo le armi in concomitanza con le competizioni sportive), bensì, al contrario, sono legati a doppio filo, perché il primo (in quanto – come scrive Frungillo -  «nucleo centrale» della propaganda) è funzionale alla seconda, che corrisponde alla guerra fredda. Il mito è quello delle nuotatrici della DDR, eroine capaci di abbattere record e conquistare medaglie e gloria, grazie a un’armatura scolpita nella carne dal doping, che trasfigura, virilizzandoli, i loro corpi femminili. È un mito fondato sull'abuso dei corpi (e con essi delle soggettività), che si esercita con particolare successo su quelli femminili. Le protagoniste del poema sono le quattro nuotatrici Ute, Lampe, Karla e Renate, a cui si aggiunge la figura del dottor Starkino, il medico che somministra loro ogni mattina una pillola azzurra prima dell’allenamento in piscina.[12]  E se, come ricorda l’autore nelle sue Note al testo, già nella Grecia antica l’attività degli atleti era affiancata dal lavoro dei medici, che avevano i loro laboratori all’interno del villaggio sportivo (Frungillo 2009: 113), durante la guerra fredda gli atleti tornano a essere «i più splendidi rappresentanti di una nuova epoca», ma in una prospettiva inedita. È su questa prospettiva che Ogni cinque bracciate apre uno squarcio. Per capirlo può essere utile appuntare lo sguardo proprio sulla forma. Nella forma metrica dell’ottava il poema richiama esplicitamente la tradizione del poema rinascimentale italiano in ottava rima. E il pensiero non può non correre al capolavoro di Tasso, intertesto fondamentale anche della Ballata di Rudi di Pagliarani. La gabbia formale si presenta rigorosa: cinque canti, ciascuno composto da cinque sequenze, ciascuna composta da cinque ottave. Il primo canto è preceduto da una specie di proemio a due facce, una in prosa e l’altra in versi, e la quinta sequenza del quinto canto coincide con l’Epilogo. La sistematicità ossessiva della forma sembra riflettere la tensione verso la perfezione del corpo-macchina dell’atleta e del gesto atletico ripetuto ritmicamente, «in cerchi regolari d’acqua e di cloro», come sono ripetute le distanze nuotate, una dopo l’altra, dalle quattro atlete nella staffetta, la cui storia si decide «in centesimi di secondo» e, d’altra parte, «si potenzia nella squadra la voglia di vittoria». La struttura formale su base cinque è una specie di calco del modello di allenamento praticato dalle atlete protagoniste del poema: un respiro ogni cinque bracciate, per affinare la tecnica natatoria e aumentare la velocità riducendo le pause fino al limite dell’umanamente possibile. Le atlete nelle competizioni sono come i versi di un’ottava; infatti lo schema formale della staffetta modella le loro identità: è «la rima/ che dispone a staffetta la loro vita». Ma il metro dei singoli versi non è regolare: all’endecasillabo si alternano misure più brevi e più lunghe, senza una norma precisa. Lo schema delle rime viene rispettato, ma molte rime sono imperfette. E i versi della parte proemiale non sono disposti in ottave. La forma della tradizione epica italiana è richiamata, insomma, a distanza critica. Nei discostamenti dalla misura canonica sembra manifestarsi una singolarità, sembra intervenire uno scarto dell’individuo rispetto all’identità collettiva. È anche attraverso questo scarto che si mostra la condizione di abusate delle protagoniste. Si notino i versi che concludono quello che può essere individuato come proemio e che, infatti, precede il primo canto:

Sano è solo l’uomo che aderisce al proprio stato,

che vive d’un sol fiato,

ma la loro condizione io canto

in parole, che sono filari di luce,

lo stupore di fanciulle di fronte alla secca

che la Storia produce.

     Una forma della tradizione viene piegata all’espressione della prospettiva degli eroi dell’era moderna: atleti alienati dalla loro identità e che, nella loro parabola proiettata verso la post-umanità, esprimono il risvolto autodistruttivo del mito della velocità. Se – come si legge nella citazione da Alan Finkielkraut posta in epigrafe al poema - «l’uomo moderno è colui che batte i record», il loro superamento è penitenziale, perché «i record stessi ci inquietano. Hanno cessato di essere inebrianti: ormai siamo troppo veloci, e lo sportivo da simbolo dell’umanità in movimento rischia di diventare la cavia della post-umanità. Così entreremo, senza averlo voluto, in un nuovo paradigma» (Frungillo 2009: 13). Il mito della velocità, della prestazione e della produttività attraverso la manipolazione della natura e dei corpi, è un grande mito fondativo della modernità. Frungillo individua le quattro nuotatrici di una staffetta che supera un record come figure-chiave, in quanto vittime sacrificali scelte per essere plasmate nella forma dell’eroe (sono corpi femminili che subiscono una metamorfosi, diventando «terra di conquista della Storia»), di questo processo di trasfigurazione dell’umano, che è un tratto della modernità, e – dentro la gabbia formale del respiro «ogni cinque bracciate» – lascia emergere la loro soggettività di «anime azzurre» (azzurro è il colore della pillola che viene loro somministrata ogni giorno nello spogliatoio), modificando dall’interno il loro mito: da vittime sacrificali trasfigurate in eroine (eterodirette) a soggetti imprevisti.

 

  1. «Nella terra dei fantasmi». Canto di una ragazza fascista dei miei tempi di Anna Lamberti-Bocconi

     Nel 2010 esce Canto di una ragazza fascista dei miei tempi, un poemetto in cinque parti di versi prevalentemente endecasillabi. L’autrice, Anna Lamberti-Bocconi, ha già pubblicato altri libri in versi e in prosa e scritto testi di canzoni per diversi artisti. È con questo poemetto che si inserisce in un’area della poesia del nuovo secolo riconducibile a una funzione Pagliarani. Sono soprattutto due gli indici di tale funzione: la dimensione epica in chiave parodica, che «suona a vuoto come un simulacro», e l’emersione di punti di vista stranianti e soggettività impreviste.

     L’impianto è apertamente scenico, con l’indicazione del personaggio che di volta in volta prende la parola: «ragazza fascista», «poetessa», «madre», «Francesco». L’apertura è affidata alla «ragazza fascista». Tutta la prima parte è occupata dal suo racconto in prima persona di un passato senza futuro: «se fossi viva sarei non so cosa/ bruciavo come grano sulla brace» (Lamberti-Bocconi 2010: 5). La conclusione, invece, è appannaggio della «poetessa», con le sue prerogative: «e tener alta la bandiera dei morti, parlare/ con loro come mito, anche nel futuro,» (Lamberti-Bocconi 2010: 31). La «poetessa» parla ai morti e plasma le loro storie in forma di miti: è un mito la storia della «ragazza fascista», emblema di un tipo umano e sociale e rappresentante di un’epoca; ed è un mito la storia di «Francesco», tifoso dell’Inter e guerriero da stadio, che prende la parola nella quarta parte. Questa di Lamberti-Bocconi è l’epica della ribellione giovanile, che ricorda con evidenza il Balestrini di Vogliamo tutto (1971) e, soprattutto, dei Furiosi (1994), romanzo-epopea in undici canti di un gruppo di tifosi milanisti. Ma nel tipo di rifunzionalizzazione del modo epico messo in atto nel Canto di una ragazza fascista dei miei tempi si avverte soprattutto la presenza di una funzione Pagliarani. Il personaggio della poetessa è un’incarnazione parodica del poeta epico, che si muove «nella terra dei fantasmi» a interrogare i potenziali eroi del proprio poema. Ma gli inferi corrispondono alla realtà urbana milanese («Ti voglio raccontare di Milano») e gli eroi sono impegnati in campi di battaglia vuoti di senso. È particolarmente significativo, in questa prospettiva, un gruppo di versi della quarta parte, in cui la ragazza fascista paragona le proprie lotte al «furore» dei tifosi:

Poco orizzonte vedo qui dall’alto

se la forza si annega nel furore;

io che pensavo ad un mondo migliore,

o meglio, a un ideale di fulgore,

riconosco il tamburo nelle tempie

di questa gioventù, ma non il timbro.

Strappare gli striscioni del nemico

e basta, è azione senza dimensione

La fede per la fede senza Storia

non è vero alimento del valore,

mi suona a vuoto come un simulacro,

non c’è l’eroe che dentro sa bruciare.

     L'effetto della rima che tiene insieme i sostantivi «furore»/«fulgore» e gli aggettivi «migliore»/«valore», combinato con quello della sintassi, che sposta in un passato indeterminato («io che pensavo a un mondo migliore») o nega («non è vero alimento del valore») le qualità positive, allinea di fatto la lotta dei tifosi a quella della ragazza fascista, che riconosce in una «azione senza dimensione» il proprio stesso destino di eroina degradata a «simulacro». L’immagine della «terra dei fantasmi» è dunque anche un’allegoria dell’epos nel mondo contemporaneo: il poeta-narratore si mostra alla ricerca di voci e di storie, attraversa l’inferno cittadino e dialettizza la propria parola con quella altrui, in una tessitura dall’ordito straniante. Ricorrendo al dispositivo retorico-cognitivo dello straniamento, Lamberti-Bocconi dà voce a soggettività altre e impreviste: una ragazza divorata da un ribellismo autodistruttivo («la condizione senza via d’uscita/ che aveva indirizzato la mia vita») che aderisce al fascismo per il tramite di una figura maschile dominante («mi donai in quella sera del liceo/ all’uomo cavaliere della luna/ al pallido fascista in accensione»), ma «la storia era bucata» e la rivolta «era finita male», con la droga, l’«eroina di piazzale Libia»; un ragazzo in conflitto con il padre operaio («tutta la vita in fabbrica a sputare») e appartenente a gruppi di tifosi ultras («per l’Inter siamo pronti anche a morire»); una madre che, figlia perfetta dell’ordine patriarcale, non capisce più il mondo circostante («Venni educata solo ad esser bella/ per arrivare a un matrimonio buono/ la casa in centro, i figli, la montagna,/ un uomo da ammirare e da aspettare.»).

     Sono tutte soggettività alienate, per le quali il canto della poetessa tenta di allestire uno scenario di (ri)fondazione epica. Al dispositivo dello straniamento si associa quello della metalessi, che implica la violazione dei confini tra i livelli diegetici della rappresentazione e del mondo rappresentato. Si noti come, in conclusione, il personaggio della poetessa si mostri nell’atto di volgersi indietro a osservare gli eroi e le eroine del proprio canto epico in una postura dialogica:

POETESSA:

E io poeta?

Son stata affascinata

dai vostri fuochi neri di rovina

dalle cinghiate sopra i labbri rotti,

vi ho immaginato e dato le parole

le passioni perdenti le ho sentite

a schiaffo, voi ragazzi di fragore

corrosi dalla voglia di riscatto

di ognuno contro tutti, e tutti contro;

quei genitori che non han capito

la guerra dentro come divampava;

le colpe che procedono dai padri

da millenni a ritorcersi sui figli,

e madri timorose, e padri biechi,

i macellai con la mannaia in mano.

 

  1. «Essere cenere». Perciò veniamo bene nelle fotografie di Francesco Targhetta

     Perciò veniamo bene nelle fotografie esce nel 2012 e di nuovo nel 2019, con l’etichetta editoriale di «romanzo in versi» esibita sulla copertina. È una lunga narrazione in versi divisa in trenta parti. Alle misere cronache di vita quotidiana di un gruppo di post-studenti, intellettuali precarissimi in una città del Nordest italiano, si intrecciano scorci della Grande Guerra, oggetto della tesi di Dottorato del protagonista nonché voce narrante del romanzo in versi. La narrazione è tutta alla prima persona, singolare o plurale, e interna alla storia. È un’epica corale dell’immobilità: racconta storie in serie, bloccate e senza evoluzione, in un Duemila che sembra in ritirata verso gli anni Ottanta del Novecento. Su un basso continuo di degrado e paralisi si apre, nel IV capitolo, uno squarcio sulla Storia e si istituisce un parallelismo tra la Grande Guerra e la sua piattaforma retorico-figurale, da un lato, e le esperienze lavorative squalificanti e umilianti a cui sono costretti i protagonisti, dall’altro:

Alla multinazionale dei telefoni

stanno snellendo il personale

mitragliando soprattutto i call center,

mentre gli austro-ungarici mirano

ai nostri velivoli che disturbano

la loro avanzata: quando precipita

Baracca, in mezzo ai boschi di roveri,

è quando il cliente (alla sesta parola

del centralinista) butta giù

il telefono – stok -

      lasciandolo col tuuu

della linea che si stacca.

     Nei versi immediatamente successivi, Targhetta prende i dati concreti di un’esperienza quotidiana deprivata e polverizzata e li avvolge nel velo retorico dell’eroismo epico: così uscire «contro un freddo continentale» è un gesto che fa sembrare «eroi», «su biciclette gravate da lucchetti/ immani (i soli che resistano/ agli smerci locali)», gravate cioè dal degrado dell’ambente in cui si muovono questi personaggi, le cui imprese vengono eternate dagli scatti delle fotocamere: «(le nostre imprese, un giorno,/ su foto scattate coi cellulari)». Il parallelismo tra la vita paralizzata dei personaggi e la guerra prosegue lungo tutta l’opera, come segnale, prima di tutto, di uno scollamento tra i codici e gli ambiti dell’esistenza che non si incontrano né si scontrano ma corrono paralleli parodizzandosi reciprocamente a distanza.  Se c’è la conquista di uno spazio, è «uno spezzone di sei ore» in un «tecnico aziendale», «ultima sezione/ di un indirizzo che sparirà». E la stanza dello studioso è assimilata alla dimensione ristretta e cavernicola della trincea, intesa come riparo e condanna:

La tua guerra, così, diventa un inferno,

trincea la tua livida stanza, da cui solo

si esce se storditi di grappa, eppure

sai bene: la condanna è per chi resta,

la pena della legge marziale,

come quel fante del novantanove

della sessantesima divisione

che a Nervesa si rifiutò di uscire:

Uno dei passaggi più significativi dell’opera è nel capito XIV, quando le parole di un soldato della Grande Guerra vengono immesse sulla pagina, problematizzate e demistificate nella loro sostanza alienata:

È MEGLIO VIVERE UN GIORNO DA LEONE CHE CENT’ANNI DA PECORA,

un soldato ci scrisse, di rosso

sulle pietre, come una ferita:

da bambino, però, visitando

l’ossario, ti chiedevi perplesso

      come fosse possibile:

            anche una pecora, pensavi,

            ha i suoi slanci, forse lontani

            dai più eroici clamori, ma in

trecentossantaquattro giorni

e novantanove anni in più,

qualcosa di meglio, rispetto

al leone, deve per forza

                   venirne fuori.

     La rivalutazione del modello antieroico della pecora problematizza la scritta in rosso sul muro e la rivela fasulla in bocca a un soldato-massa, i cui reali pensieri potrebbero al contrario corrispondere a quelli del protagonista bambino. Ma questo «pensiero che ora, chissà/ perché, brucia» accostato al racconto del tragitto verso gli uffici universitari dove consegnare la tesi produce uno scarto straniante, un salto logico: «E poi all’improvviso niente più traffico:/ esistono ancora vicoli acciottolati/ in quei mezzogiorni di gelo sfatto/ […] Attraversi gli ospizi della/ città, per consegnare la tesi,». Finché il protagonista non incontra un’altra scritta su un altro muro: «i messaggi dei fattoni sui muri -/ LA DROGA NON CI BASTA,/ dietro una colonna nascosta,/ dove si ignora se non basti perché ne serve ancora/ o forse chissà, perché serve altro.» Ciò che serve sembrerebbe essere, allora, prima di tutto una risposta alla domanda di senso sulla propria esistenza e sul mondo circostante; e il soffocamento operato persino sulla domanda accomuna il soldato della Grande Guerra (ripetitore di formule della propaganda di chi abusa di lui) al tossicodipendente e, pure, al giovane intellettuale precario di un secolo dopo:

ma neppure i burocrati, stavolta,

e le firme e la modulistica, riescono

a bloccare i trattati di pace: la guerra

finisce a gennaio, come i vecchi

di polmonite, e per un istante,

tornando sulla bici con le falci

del sole deglutite nei nervi, senti

che c’è qualcosa, sotto, che potrebbe

                     essere cenere,

e sembra chiedere, a martello,

proprio adesso, a cosa servi?

a cosa servi?”, proprio adesso,

                    sul più bello.

 

     Si noti, soprattutto, il rilievo prodotto, a livello visivo, dallo spostamento a destra del senario dal solenne ritmo dattilico «essere cenere», composto da due parole identiche sul piano prosodico nonché legate strette da un doppio legame fonico (assonanza e omoteleuto). La «cenere» deriva dall’orrenda insensatezza scoperta dai soldati nelle trincee della Grande Guerra; in questa prospettiva la traccia epica è, anche nel caso in questione, orientata a rovescio: il mito di fondazione riguarda un’identità collettiva incenerita. Del resto «Caporetto sinonimo di sfascio/ mica è una bella eredità». E alla particolare tensione epica a rovescio, in questo romanzo in versi, si associano – e concorrono a costruirla – gli effetti di un fenomeno di romanzizzazione che si manifesta nell’intreccio di voci e nel fitto dialogato, nella citazione di parole altrui e nella bivocità generata dall’adozione di un lessico di ambito bellico, eroico ed epicizzante, per raccontare il degrado e lo sfascio fisico ed esistenziale dei protagonisti, «non dalla parte degli ultimi/ ma ultimi davvero», perché il loro adattamento a una vita annegata nelle merci e nello squallore, in conclusione, «mica è un’impresa, è solo molto/ peggio di quanto avevano/ promesso».  

 

Bibliografia

Alfano G. et al. (a cura di) 2005. Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, Roma, Sossella.

Bachtin M. 1997 [1975]. Estetica e romanzo, traduzione in italiano di C. Strada Janovic, Torino, Einaudi.

Berardinelli A. 1994. La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Bollati Boringhieri.

Cortellessa A. 2006. La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, Roma, Fazi.

Cortellessa A. (a cura di) 2013. Ma dobbiamo continuare. 73 per Elio Pagliarani a un anno dalla morte, Roma, Aragno.

Cortellessa A. 2018. Expanded poetry: otto iconopoemi 2006-2018, California Italian Studies, 8 (https://escholarship.org/uc/item/9726v2fz).

Frungillo V. 2009. Ogni cinque bracciate, Firenze, Le Lettere.

Hutcheon L. 2000, A theory of parody. The teachings of Twentieth-Century Art Forms, University of Illinois Press.

Lamberti-Bocconi A. 2010. Canto di una ragazza fascista dei miei tempi, Massa, Transeuropa.

Lorenzini N. 1991. Il presente della poesia 1960-1990, Bologna, Il Mulino.

Mengaldo P.V. 1978. Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori.

Pagliarani E. 2011. Promemoria a Liarosa 1979-2009, Venezia, Marsilio.

Pagliarani E. 2017. Il fiato dello spettatore e altri scritti sul teatro (1966-1984), a cura di M. Marrucci, Roma, L’orma.

Pagliarani E. 2019. Tutte le poesie 1946-2011, a cura di A. Cortellessa, Milano, il Saggiatore.

Targhetta F. 2019. Perciò veniamo bene nelle fotografie, Milano, Mondadori.

Testa E. 2006 (a cura di). Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Torino, Einaudi.  

Tortora M. (a cura di) 2018. Il modernismo italiano, Roma, Carocci.

Ventroni S. 2006, Nel Gasometro, Firenze, Le Lettere.

Zinato E. 2020, L’estremo contemporaneo. Letteratura italiana 2000-2020, Roma, Treccani.

 

 


[1] In Parola plurale il saggio introduce la prima sezione e si intitola Io è un corpo (Alfano et al. 2005: 33-51).  Nel 2006 Cortellessa lo include, leggermente rivisto, nel volume La fisica del senso con il titolo Touch. Io è un corpo (Cortellessa 2006: 61-86).

[2] Cortellessa si riferisce soprattutto all’esperienza dei Laboratori di poesia tenuti da Elio Pagliarani negli anni Settanta e Ottanta e nei quali - scrive - «a formarsi furono poeti ai suoi perfetti antipodi: valga un nome per tutti – quello di Valerio Magrelli» (Cortellessa 2006: 681).

[3] La parentetica sparirà nella versione rivista del saggio per La fisica del senso, volume pubblicato in concomitanza con l’uscita in volume del Gasometro.

[4] «Per Hutcheon parodia è una forma di imitazione caratterizzata da uno spostamento ironico, sì, ma “non necessariamente a spese del testo parodiato” – da una “ripetizione a distanza critica”, insomma» (Cortellessa 2006: 48).

[5] Esercizi platonici è uscito nel 1984 (Acquario-Nuova Guanda), Epigrammi ferraresi nel 1987 (Manni). Ora si leggono in Pagliarani 2019.  

[6] Elio Pagliarani è scomparso l’8 marzo 2012; all’indomani “alfabeta2” ha accolto interventi e testimonianze di poeti e intellettuali. Questi testi sono stati poi raccolti in un volume dal titolo Ma dobbiamo continuare. 73 per Elio Pagliarani a un anno dalla morte (cfr. Cortellessa 2013).

[7] Le narrazioni in versi di Pagliarani sono un punto di riferimento non solo per i poeti, ma anche per i prosatori dell’estremo contemporaneo. Il caso più evidente è quello di Giorgio Falco, che in diverse occasioni ha manifestato esplicitamente il proprio debito nei confronti di questo grande autore; si veda, per esempio, il suo intervento in Cortellessa 2013.

[8] Nel 2020 la rivista “il verri” ha dedicato a Pagliarani un numero monografico scegliendo come titolo proprio Expanded Pagliarani (“il verri”, 73, giugno 2020). La formula Expanded poetry è stata proposta recentemente da Cortellessa; si vedano, a questo proposito, Cortellessa 2018 e la serie Expanded poetry del blog “Antinomie” (https://antinomie.it/index.php/2020/01/28/expanded-poetry/)

[9] “La socialità dell’arte intesa qui come capacità di provocazione immediata, quando esiste, la verificheremo nel teatro, o non la verificheremo” (Pagliarani 2017:9).

[10] Mi riferisco a Berardinelli 1994, Mengaldo 1978, Lorenzini 1991 e Testa 2006.

[11] In questo contributo l’attenzione si concentra su quattro casi che fungono da exempla. E tuttavia ritengo che, in una futura trattazione più articolata dell’argomento, lo sguardo dovrà essere esteso, almeno, a Faldone (http://www.faldone.it/) di Vincenzo Ostuni e a libri come La scolta di Gian Maria Annovi (2013), Ruggine di Marilena Renda (2012), Primine di Alessandra Carnaroli (2017) e Suite Etnapolis di Antonio Lanza (2019).

[12] Come spiega l’autore nelle Note al testo, queste figure rappresentano le quattro nuotatrici della staffetta trionfatrice ai Giochi olimpici del 1980: Rica Reinisch, Andrea Pollack, Ute Geweniger, Caren Metschuck; il vero nome del medico del Regime, cui allude la figura del dottor Starkino, è Manfred Ewald.