Carlo e Fabio Ingrassia
autobiografia
Foto di Giovanni De Angelis
I primi esempi di lettura elementare delle forme li abbiamo appresi attraverso il gioco, con la costruzione di forme e l’osservazione diretta della natura ogni qual volta la fantasia creatrice esercitava liberamente. Nostro padre, falegname ci ha educato alla cura del dettaglio e alla ricerca del ben fatto e ci ha insegnato che tutto, nel lavoro, dipende dall’intensità qualitativa dello sguardo che ognuno di noi ha. Questa attenzione, che è stata sempre tra le nostre prerogative, con il passare del tempo si è via via organizzata attraverso lo studio, l’apprendimento e l’affinamento strutturale e culturale.
Pur non provenendo da una famiglia interessata all’arte, abbiamo frequentato persone pienamente coinvolte, abbiamo iniziato a fare selezione e a distinguere un lavoro realizzato bene, da un altro prodotto male.
Ci piace parlare di un’opera a “colpo d’occhio”: in una buona opera la forma è evidente e a comprendere che essa dipende dalla capacità che ognuno di noi ha di saper leggere la struttura della forma, di fare forma e di dare forma nei tanti modi possibili, di stabilire nessi ed alleanze compositive, a familiarizzare con alcune di esse, piuttosto che con altre.
Ci siamo autodisciplinati, il tentativo per noi è quello di superare l’altro, ed in questo contatto con l’altro si è sempre in due. Abbiamo iniziato a dialogare, il nostro lavoro è fatto di compromessi, a volte si risolvono bene, alle volte si risolvono male. Gli scontri per noi sono indispensabili per mantenere in vigore funzioni logiche. Bisogna prendere una decisione, trovare una strategia, anche la natura ha un piano…
Il nostro percorso di formazione, inteso come pratica del fare, è avvenuto a casa, nella stessa stanza dove abbiamo iniziato e dove lavoriamo noi due da soli, da sempre.
Dai racconti di nostra madre sappiamo che nei primi anni di scuola, secondo le maestre, il nostro lavoro, i nostri disegni, erano disorganizzati e non rispondevano alle richieste che ci venivano fatte. Col passare del tempo però siamo diventati un punto di riferimento per tutta la scuola, tanto che ci hanno affidato l’intera responsabilità della realizzazione grafica del giornale di scuola. Questa opportunità di dedicarci al disegno ininterrottamente, spesso anche durante le ore di lezione, lunghe assenze dalla ordinaria didattica si è rivelata però un’arma a doppio taglio: ci siamo progressivamente isolati, continuando a disegnare e parlare solo tra di noi e non con gli altri compagni. Non c’era spazio per nient’altro che il disegno e per nessun’altro al di fuori da noi due. Collaboravamo solo tra noi, adottavamo allora come oggi una sorta di criptofasia, cioè un linguaggio segreto, sotterraneo e con dei nostri codici linguistici.
Abbiamo sempre lavorato a casa, ritirandoci in salotto/studio, ci siamo dovuti adeguare a delle esigenze e circostanze famigliari, nostra madre da sempre ha avuto un attenzione all’ordine e alla pulizia di casa, per tanto, nessun strumento o tecnica poteva entrare in conflitto con quella educazione e stile di vita, come poteva essere un colore ad olio, la cui composizione chimica era percepibili ad una certa distanza, oppure come la scultura, le cui polveri avrebbero saturato tutto, quindi l’unico solo mezzo da adottare in quel regime, adesso divenuto famigliare, erano i pastelli a matita. Anche la scelta del formato era compromessa. I ricordi che abbiamo della nostra infanzia sono pochi e sono tutti sul nostro tavolo da lavoro. In quella stanza, tra quelle mura, c’era tutto ciò di cui avevamo bisogno. Il tempo lo lasciavamo fuori la porta.
Abbiamo scelto pastelli e matite per i nostri disegni, per la nostra ricerca, lavori piccoli per essere depositati e nascosti, ed a matita per non percepirne l’odore e la presenza. Tutto doveva rimanere in un ambito “privato, intimo e ritirato”. Abbiamo iniziato a conservare e catalogare anche la polvere ormai rara e che è diventa costrutto fondamentale per il nostro processo immagine - disegno.
La Montagna (The Mountain), 2016 pastel on paper and patinated wood, 110 x 110 x 5,5 cm (particular 6 x 8 cm)
“Lasciate perdere, non è cosa vostra, non avete il fisico per fare questo lavoro”: con queste parole, che ricordiamo ancora con chiarezza ed altrettanta amarezza e nostalgia, nostro padre utilizzava una metafora simile a quella di De Chirico adottandone inconsapevolmente la grammatica e sottintendendo che c’è qualcosa di “fisico” nel modo in cui un’artista si predispone all’opera, nell’atteggiamento con cui costruisce l’immagine mentale, “il non luogo a nostro avviso si muove sempre allo stesso modo”. Questo perché in fondo crediamo sia vero che alcuni fatti sono degli atti e anche quando non si concludono devono cominciare nell’assoluto dalla nascita.
Ci siamo autodisciplinati: il tentativo per noi è quello di superare l’altro, ed in questo contatto con l’altro si è sempre in due. Abbiamo iniziato a dialogare, il nostro lavoro è fatto di compromessi, a volte si risolvono bene, alle volte si risolvono male. Gli scontri per noi sono indispensabili per mantenere in vigore funzioni logiche. Bisogna prendere una decisione, trovare una strategia e i compromessi giusti per metterla in atto.
Carlo definisce il segno ed è il destrorso, Fabio raccorda ed è il mancino, Uno nasconde, l’altro dimostra. “Il nostro disegno ha desiderio di paternità, che non gli verrà mai riconosciuta”.
I limiti del perdono, 2014 pastello su cartone Schoeller, colore a matita polverizzato e talco, (dittico) 40.4 27.4 cm
Questa logicità della percezione viene vista da entrambi attraverso un fenomeno di collisione del vicino e del lontano, che noi chiamiamo “fenomeno d’accelerazione”. Noi ci poniamo la questione sulla presenza materiale dell’opera come relazione fattuale nel suo darsi come fatto concreto. Il nostro disegno ha desiderio del vero, cerchiamo un segno che sia autosufficiente. L’opera a nostro avviso è un “principio termodinamico”, è quell’azione di raggiungere una certa velocità via via sempre crescente e allo stesso tempo l’impossibilità di accelerarla, una sorta di tempo identico il nostro, la ripetizione è una forma di cambiamento.
Abbiamo sempre pensato ed amato ad una natura autonoma del disegno e a questa sensazione di corporeità, di organismo fisico a renderla più concreta.
Bisogna che l’opera diventi opera è un atto di responsabilità, ci si deve impegnare, cioè per dare un pegno, e ciò che avviene è una decostruzione e quando c’è una decostruzione qualcosa si sta muovendo, si sta dislocando, disgiungendo e ciò che avviene è un evento di cui si prende atto e che si mette in atto.
Rinunciare all'idea di un altro mondo, 1669 - 2016, piroclast (vulcanic boom) and l ... 22 cm_Installation View, Studi_Installation View, Studio Geddes Franchetti, Roma
Rinunciare all'idea di un altro mondo, 1669 - 2016, piroclast (vulcanic boom) and l ... 22 cm_Installation View, Studi_Installation View, Studio Geddes Franchetti, Roma