Su Il borgo dell’accoglienza di Marco Caporali
(Il Labirinto 2024)
di Sacha Piersanti
Abstract
Following the methods and approach of a traditional review, the article aims to highlight the stylistic, linguistic, thematic and 'axiological' peculiarities of the poetic writing of Marco Caporali, one of the most solid voices on the contemporary Italian panorama, starting from his latest book, Il borgo dell’accoglienza.
Keywords: contemporary poetry, exodus, migrations, corpus, reception
Riassunto
Seguendo le modalità e l’impostazione di una tradizionale recensione, il contributo mira a rilevare le specificità stilistiche e linguistiche, tematiche ed ‘assiologiche’ della scrittura poetica di Marco Caporali, voce tra le più solide del panorama italiano contemporaneo, partendo dal suo ultimo libro, Il borgo dell’accoglienza.
Parole chiave: poesia contemporanea; esodo; migrazioni; corpus; accoglienza
Che Marco Caporali non sia semplicemente un autore di raccolte-di-poesie ma un artigiano della parola che, paziente (nel doppio ma in fondo unico senso di ‘chi attende’ e ‘chi patisce’), concepisce e intaglia opere, architetture di lingua e suono tutte da esplorare, abitare, sì compiute in sé, ma comunque consapevoli di far parte di un corpus più ampio, è noto da tempo, e anche il più distratto lettore della sua poesia non faticherebbe a rendersene conto. Gli basterebbe scorrere i titoli di quei singoli libri che di quest’opera-corpus sembrerebbero essere, per tenuta e per respiro, i principali: Il mondo all’aperto, Il silenzio venatorio, Alla fine del solco, Tra massi erratici, La vita inoperosa. Ognuno, lo si intuisce dal tono, dagli accostamenti tra gli elementi nominali e dalla loro postura, si inserisce con naturalezza all’interno di un percorso tematico e stilistico che, a volerlo interpretare, sembra muoversi dall’osservazione, dalla scoperta del macro- alla insistente esplorazione di un, per così dire, micro-, sempre più intimo e specifico – dalla vita attiva di un ‘mondo all’aperto’ (di un’apertura del, più che al, mondo, cioè) a quella ‘inoperosa’, contemplativa, secondo una linea di progressiva messa a fuoco dell’esistente (parola abusata, questa, certo, ma che di fronte all’opera di Caporali non si può non utilizzare, se è vero – e lo è – che per lui scrivere, e scrivere poesia, coincide con lo stare al mondo: il far stare, al mondo), quasi la penna servisse più a scrutare che a tracciare, simile a uno di quei sofisticati cannocchiali che permettono di restringere e allargare il campo visivo. A ogni nuovo puntamento, ogni nuova rotazione – a ogni nuovo libro, cioè, ogni nuova poesia – una nuova, o rinnovata, e perciò comunque sempre inedita, scoperta: dalla vastità del tutto a quella dell’uno.
Ché sempre di vastità, in effetti, si tratta, nella poesia di Caporali, come ci dimostra l’ultima tessera della sua opera-mosaico: Il borgo dell’accoglienza (Ed. Il Labirinto, 2024, 88 pp., 10 €), libro che già nel titolo riassume perfettamente quell’interdipendenza tra singole opere e quel rapporto tra micro- e macro- di cui s’è detto. Cosa c’è, infatti, specie rispetto a un ‘mondo’, di più micro di un ‘borgo’? cosa c’è, infatti, specie in continuità con un ‘all’aperto’, di più macro dell’ ‘accoglienza’? Punto d’arrivo e insieme di (ri)partenza, al tempo stesso pezzo di quel corpus e sua summa, quest’ultimo libro di Caporali s’impone sin da subito all’attenzione del lettore, costretto, gentilmente, sì, ma costretto davvero, a entrare carne e corpo e nel testo e nel contesto:
Quando s’aprono intese
tra le lingue non muta che il suono,
una quieta confidenza prende corpo
e parole inaccessibili concedono
la chiave che ad altri le schiude.
(p. 9)
«Intese», «lingue», «confidenza», «concedere», «chiave»: «altri» – non c’è parola, quasi, all’ingresso del ‘Borgo’ che non implichi condivisione, scambio, inter-relazione, non c’è parola che non spinga il lettore a farsi lui stesso voce, vita dentro all’opera. Cifra specifica, questa, di Caporali, che qui sembra raggiungere l’apice della propria espressività, ancora una volta in continuità con quella generale tensione tra micro- e macro-, individuale e universale, proprio e altrui che non può non ricordarci (adesso sarà proprio il caso di esplicitarlo) l’esperienza di giganti della parola quali, ad esempio, Ungaretti, che alla biografia di un’intera umanità diede il titolo di Vita di un uomo, o Cvetaeva, che parlava con l’immenso e le stoviglie con stessa confidenza, o Dickinson, di cui Caporali è anche abile traduttore.
E a Dickinson, specie alla Dickinson accorta lettrice di salmi, ci capita di pensare spesso, tra le strade del ‘Borgo’, ché, senza instaurare sterili parallelismi e anzi segnalando un’ulteriore specificità della poesia di Caporali, scorre in questo libro un continuo senso di micro-epicità, una miscela, cioè, d’epos e di quotidiano che trova la sua perfetta espressione in un andamento più melodico che ritmico e in un tono nella chiusura di molte di queste poesie che non sarebbe esagerato definire biblici. Sfila infatti in questo libro una teoria di versetti, quasi, più che versi, che, introdotti dalla congiunzione ‘e’, volentieri dopo un punto fermo o comunque in posizione forte, epigrammatici, riassumono e fotografano l’immagine-chiave di un intero testo o sezione: «e i cani si contendono le carni» (p. 42); «E allora per vedere è necessario allontanarsi» (p. 44); «e il nemico in compagno si muta» (p. 64); «e la pietà col sospetto ripaga» (p. 66); «e l’abbaglio dell’alba è un cammino intrapreso» (p. 71). Un’intonazione profetica, quindi, e da profeta illuminato sì, ma mai dall’alto, anzi, ché Caporali ascolta e riceve la voce (ogni voce) da sotto, dal basso, dal corpo la terra i passi la pietra:
Solo le pietre ricordano
che la valle era mare.
Una corte riunita
sul colle era chiamata a giudicare
secondo il principio che un occhio
non vale la vita. La sabbia
trascinata dal vento impediva
che si potesse generare e crescere
laddove sentenze
e condanne fiorivano.
Sui corpi morenti
si posavano sguardi rapiti
da una soglia che tutti
avrebbero un giorno varcato.
In quella non più arida radura
una stele si eleva
e ai passanti una targa ne traccia la storia.
(p. 48)
E se abbiamo detto più volte micro e macro, se abbiamo parlato di opera e di architettura, di epos, di artigianato e di cesello, non possiamo non notare ancora la precisione con cui Caporali sceglie e pondera, incastra e scastra le parole, ogni parola, certo, ma in particolare una: ‘avvolgere’. Pur essendo presente in tanti altri punti della sua produzione, questo termine si fa osservare qui più che altrove tematico e chiave: «...entra quel che si vuole ascoltare / del mondo silenzioso che l’avvolge» (p. 39); «e ti concedi attonita / all’assorta platea che ti avvolge» (p.49); «Avvolge le mura la carta di tutta la terra» (p. 57). E poi, soprattutto, definitivo: «Più ci si lascia avvolgere / più la propria identità risplende» (p. 45). Talmente ricorrente, proprio lui o in allusione, questo termine si porta dietro evidentemente molto di più della sua comunque apparente semplicità semantica: ‘avvolgere’, certo ‘circondare’, ‘ammantare’, volendo ‘avviluppare’, e certo ad-volgere, con l’‘ad’ che ci dice forte l’avvicinamento, forse anche la sovrapposizione, ma allora se l’etimo non inganna e ci fa da guida sempre dal (l’av)volgere toccherà tornare al(l’ad)volvere – al ruotare imperioso del destino, cioè, al giro di vita e al suo vortice che ci risucchia e ci lancia dove vuole. E toccherà tornare, allora e insomma, a quel proemio che più di tutti ci ritrae al di là di ogni tempo e singolarità:
Musa, mihi causas memora, quo numine laeso,
quidve dolens, regina deum tot volvere casus
insignem pietate virum, tot adire labores
impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?
Che ne Il borgo dell’accoglienza possa risuonare vivida l’eco di Virgilio, del suo Enea costretto profugo a lasciare la casa in fiamme, più che un’idea o una suggestione ci sembra un dato di fatto: in questo passo, in questo «volvere casus», c’è il nucleo fondamentale dell’opera di Caporali – opera dove ogni io, per natura o per cultura cambia poco, si ritrova sballottato, disperso, vagante.
Ogni io, certo, ché per quanto Caporali si riallacci qui alla cronaca e alla storia più contemporanee, empatico e mai doloristico testimone del proprio tempo storto (il borgo dell’accoglienza è senza troppi misteri anche la nota Riace), non può non ricordarsi e ricordarci, sentire e far sentire, che quella stessa condizione di clandestinità ci riguarda tutti, ma proprio tutti, se non c’è destino anzi destinazione che non ci sia nascosta, ignota (clam). Un tratto, questa clandestinità, più genetico che politico, un timbro su ogni nascita, un ‘visto non si scampi’ tracciato sul DNA: un foglio di vita, in carta carbone, da Adamo ed Eva in giù.
E cosa c’entri adesso Adamo e cosa c’entri Eva ora con Il borgo dell’accoglienza di Marco Caporali è presto detto, e non solo perché «pure un eden / se mai potesse esistere, si tramuterebbe in melma» (p. 44), ma perché s’impone centrale un’altra immagine, tra l’avvolgere e il micro e il macro:
Monete preziose riaffiorano in terre riemerse.
A riva la tempesta lascia l’ambra.
Se non ci fosse la dimenticanza
di noi non resterebbe traccia.
Mano nella mano si allontanano
su una spiaggia assolata e senza vento.
(p. 46, corsivo nostro)
Un’altra immagine, sì, che è proprio la fotografia definitiva e sempiterna, il gesso classico e il materiale ancora da scoprire che ci raffigura esatti e sempre. L’eco più giusta, anche, ad ascoltarla bene, di quel primo colpo di cacciata, quel primo piccolo grande esodo – che sia storia o sia leggenda, sia fede o fiaba non importa: «Mano nella mano, per solitaria via / a passi incerti e lenti se ne andarono dall’Eden» (J. Milton, Paradiso perduto, XII, vv. 648-649).
Sacha Piersanti
Roma, 17 agosto 2024