Il futuro delle riviste cartacee, che fare?
di Riccardo De Gennaro
direttore “il Reportage”
La prima domanda che ci si deve porre, nell’ambito di un dibattito sul futuro delle riviste, è se pubblicare una rivista cartacea, oggi, abbia ancora senso (e, se sì, quale ruolo può avere). Noi di Reportage ne siamo convinti, ma non possiamo nascondere che i dubbi crescono ogni giorno. Le riviste non sembrano avere più l’importanza e la funzione che avevano fino a tutti gli anni Settanta, quando peraltro proliferavano: la televisione prima, internet successivamente, infine i social network, hanno portato altrove le tribune del pensiero e del confronto, spesso – tuttavia – indebolendo il pensiero e rendendo poco interessante il confronto. È ancora valido quanto diceva Mac Luhan: il mezzo è il messaggio, non possiamo discutere di Kant su instagram, su twitter o a Rai Uno mattina. Chi pubblica oggi una rivista cartacea (sempre meno e potrei dire che Reportage, senza saperlo, molto probabilmente è stata l’ultima rivista non on line a vedere la luce, nel 2010) assomiglia è un eroe, che qualcuno giudica piuttosto un reduce, o un nostalgico.
I problemi sono di costo, tiratura, distribuzione, pubblicità e promozione. Come dire: “Siamo circondati”. La carta ha un costo sempre più elevato, così come la stampa e, se non si vogliono pagare i collaboratori una miseria, perché il lavoro va pagato, il costo delle collaborazioni (autori e fotografi) va considerato incomprimibile. La tiratura deve andare di pari passo con le vendite, ma le vendite sono in continua contrazione, a prescindere dalla qualità del prodotto, perché – come è noto – in Italia si legge sempre meno e si comprano sempre meno riviste, a meno che non si tratti dei rotocalchi popolari e “spettegolanti” da un euro. La distribuzione è fatta spesso da taglieggiatori, che per trasportare e consegnare le copie alle librerie hanno un margine di guadagno superiore a quello di chi la rivista la realizza. A loro volta, le librerie tendono ad espellere le riviste e, la minoranza che le tiene, tende a conservare un numero sempre più limitato di testate: nelle Feltrinelli che hanno le riviste si è scesi progressivamente da un centinaio (anni Settanta) a una ventina al massimo (oggi), tagliando quelle che non rendevano. Reportage ancora si è salvata, ma – come le compagne di avventura – è sempre più nascosta, malamente esposta negli angoli più lontani dall’ingresso o nei sottoscala. Prima che gli scatoloni vengano aperti, inoltre, passano giorni e Reportage deve ringraziare soltanto il fatto di essere trimestrale perché se fosse un mensile tra i ritardi del distributore e i ritardi delle librerie uscirebbe il mese dopo rispetto a quello di pertinenza. Nel frattempo, gli enti o le aziende che potrebbero essere potenziali inserzionisti e il cui intervento sarebbe indispensabile per l’equilibrio del bilancio (impossibile ripagare interamente i costi soltanto con le vendite in libreria e gli abbonamenti) da anni ci dicono che il prodotto è di grande qualità ma che non hanno soldi. Quanto alla promozione si può contare soltanto su Facebook e su Instagram, che tuttavia si saturano prestissimo. Impossibile immaginare di poter fare pubblicità sul Corriere della Sera, sui cartelloni stradali o, tantomeno, in Rai o Mediaset.
Il quadro, insomma, è desolante. Quando, nel 2009, io e Mauro Guglielminotti ideammo il Reportage (il primo numero è uscito nel gennaio 2010) non pochi ci avvisarono di due problemi: la carta non ha un futuro, stiamo attraversano una crisi economica importante e non sappiamo quando se ne uscirà, chi ve lo fa fare? Ma noi eravamo convinti che la carta non sarebbe mai morta e che la crisi sarebbe stata superata, dunque anticipare i tempi aveva una valenza strategica maggiore del rinvio della decisione. Ci eravamo accorti che sui quotidiani e sulle riviste gli articoli erano di dimensioni sempre più ridotte e le fotografie poco valorizzate, mentre il reportage, inteso come genere nobile di giornalismo, era diventato un ricordo. Ci siamo ispirati a Epoca, all’Illustrazione italiana, all’Europeo, il motore che ci ha mosso è stato l’entusiasmo, la passione. Se vengono meno i soldi è grave, ma se viene meno l’entusiasmo è la morte di una rivista. Se andiamo avanti, oggi, è proprio perché questo entusiasmo c’è ancora e c’è ancora bisogno di reportage, che – come spesso dico – sono un discorso critico sul presente, un’arma potentissima contro le fake news contro cui dobbiamo, come lettori, lottare tutti i giorni. Il reporter è costretto ad andare sul posto, dove racconta quello che vede e quello che sente in base a un patto col lettore, che gli ha detto: là dove vai io vedrò con i tuoi occhi e ascolterò con le tue orecchie, ma tu devi garantirmi che riporterai la verità. Il vero, non il fantasioso, non il verosimile, è il tessuto con il quale si confeziona un reportage. Come ci disse Mario Dondero in una intervista, il reporter e il fotoreporter devono cercare la verità, io non ho fatto altro. Fermo restando che un reportage non è una mera descrizione di un fatto o di un fenomeno, ma contiene una chiave interpretativa di questo fatto e di questo fenomeno.
Un’altra domanda, per concludere, che mi sono posto mentre riflettevo sui temi di questo seminario organizzato da Cetta Petrollo e Marco Giovenale è se sia possibile una sorta di alleanza tra le riviste cartacee per così dire “superstiti”, perlomeno le più vicine tra loro, in modo da fare fronte ai problemi materiali che abbiamo in comune, primi tra tutti quelli della ricerca di pubblicità e della distribuzione, creando una sorta di “catalogo” delle riviste da sottoporre ai potenziali inserzionisti, comprensivo di pacchetti pubblicitari tra più testate e individuando canali distributivi indipendenti, nonché un numero consistente di librerie ed edicole interessate alle riviste di un certo livello. Esistono testate, qui presenti, che hanno una lunga storia, non possiamo disperdere o vedere morire un tale, grandissimo, patrimonio culturale di idee e di firme.