p. 64-66 > Catastrofi e metafore

Catastrofi e metafore

Francesco Muzzioli

 

 

RIASSUNTO

Recensione del libro di Antonio Perrone, Il palinsesto della catastrofe, pubblicato dalle Edizioni di storia e letteratura.

PAROLE CHIAVE: Antonio Perrone, Poesia barocca, Area napoletana, Vesuvio, Catastrofi, Metafore

 

ABSTRACT

Review of Antonio Perrone's book, Il palinsesto della catastrofe, published by Edizioni di storia e letteratura.

KEYWORD: Antonio Perrone, Baroque poetry, Neapolitan area, Vesuvius, Catastrophes, Metaphors

 

Siamo ormai edotti sul gemellaggio tra il barocco e la contemporaneità a partire dalla grande intuizione del Trauerspiel di Benjamin, passando per Anceschi (Barocco e Novecento) per arrivare al recente Conflitti del Barocco di Gaetano delli Santi. Sarà per l’estrosità e per l’eccesso, ma sarà anche soltanto la somiglianza del panorama perché come nella poesia del Seicento dobbiamo procurarci il microscopio per distinguere tra una miriade di autori (per solito, ingiustamente, trattati da “minori”), così ai nostri giorni si fatica a districarsi nella produzione poetica diffusa. Ma forse ci sono ancora altre analogie e ce le mostra Antonio Perrone con il suo studio Il palinsesto della catastrofe. La metafora tra lirica e scienza nel barocco meridionale, edito dalle Edizioni di storia e letteratura.

Oggi che le catastrofi hanno un posto di rilievo nei titoli della cronaca di ogni giorno in una sorta di ribellione della natura alle pretese di sfruttamento dell’uomo, è interessante andare vedere come questa percezione sia stata vissuta nel passato e come sia stata filtrata dalle forme della letteratura e segnatamente della poesia. Dunque Perrone ritaglia dal territorio barocco un’area geografica specifica, quella meridionale, e un tema preciso, gli eventi catastrofici e in particolare le eruzioni del Vesuvio, in modo da elaborare su tale corpus un’analisi molto ravvicinata dei testi e delle loro modalità. Le conseguenze di questo approccio critico mi sembrano rilevanti.

Prima di tutto mi preme notare che il “genere disastroso” messo in evidenza da Perrone si situa ben lontano dalla tradizione lirico-sentimentale, tanto che il suo linguaggio può essere efficacemente messo a confronto con la prosa rivolta al medesimo argomento, riscontrandovi significative intersezioni, così come è possibile indicare consistenti ibridazioni del poetico con il linguaggio scientifico.

La catastrofe è una sorta di evento assoluto che fa evaporare tutti gli altri temi. Perciò Perrone ha ragione a individuare nel corpus dei testi calamitosi una tendenza al realismo, cioè al “vero”, che derogherebbe quindi dalla “verosimiglianza” di marca aristotelica. Qui si è aperto per me un problema. Infatti ho sempre pensato alla poesia barocca come quella che esalta la sua prerogativa linguistica attivandosi su soggetti non solo inestetici (il brutto), ma anche di minimo valore; che so: “bella donna che annaffia i fiori” oppure la poesia sulla zanzara o sulla lucciola. Invece con eruzioni, inondazioni e compagnia siamo sul polo opposto del ventaglio del poetabile, su un argomento talmente enorme da essere addirittura inesprimibile (perché si tratta di dire in parole «ciò che l’animo non può»). Dopo tutto non ci sarebbe contraddizione: bene al Barocco vanno gli estremi e quindi l’insignificante e l’esorbitante posso coincidere, ciò che di solito si trascura e ciò che, al contrario, s’impone nel suo sterminio (in cui, se realismo c’è, è un reale lacaniano, direi).

Naturalmente un libro sulla poesia barocca non può che essere un libro sulla retorica e anche quello di Perrone non fa eccezione. La parte del leone spetta, come prevedibile, alla metafora, ma un ruolo importante spetta anche all’antitesi, attiva pure nella costruzione per contrasto delle strofe, ma soprattutto Perrone evidenzia l’apporto dell’enargheia o evidentia, cioè della modalità che tende a colpire il lettore mettendogli sotto gli occhi, per così dire, l’accadere catastrofico. Questa sorta di raffigurazione “impulsiva”, incalzante e accumulatrice di immagini dimostra l’influsso della poetica del sublime e la presenza influente di poetiche non aristoteliche quali quelle di Giulio Cortese e Campanella. Più rara nel libro è la menzione dell’allegoria e se ne comprende il motivo, dato che il catastrofismo trova la sua occasione in fatti reali: e tuttavia nel Barocco l’allegoria è sempre in agguato e difatti anche qui dove non dovrebbe esserci, eppur compare in singoli affioramenti particolari.

Ma, come già accennavo, decisiva è la metafora. Chiuse nella gabbia del sonetto (la forma più frequente), le metafore si accalcano e quasi si spingono l’una sull’altra; si potrebbe dire che esplodano, visto il tema “eruttivo” di molti testi. Si verificano scambi su tutti gli ambiti o regni della natura (acqua, aria, terra e fuoco) e della cultura, con riferimenti mitologici e religiosi. Lo studio dedica particolare attenzione alla natura e disposizione delle figure, sottolineando il formarsi di una sorta di repertorio stereotipo, fatto di “fiamme ardenti”, “sulfurei globi”, “fuoco bituminoso”, ecc., che vanno a formare un serbatoio quasi da scrittura combinatoria. Interessanti sono gli schemi fatti con assi cartesiani dove l’autore dispone i diversi campi semantici e dove, non a caso, proprio il Vesuvio è collocato in posizione di perno centrale. Altro punto interessante è l’evidenziazione, verso la fine del lavoro, della “metafora serpentina” (lo “stigio drago”, il “parto viperin”) che a prima vista non sarebbe appropriata, sennonché viene agevolata dall’immaginario dell’epoca, con in più suggestioni bibliche.

Se l’allegoria ha poca presa sulle poesie della catastrofe, non manca però la conclusione nella epitome morale e in fondo il “genere disastroso” rientra di diritto nella tematica funerea, così cara al Barocco. Il Seicento ha perduto la felice liberazione materialistica del Rinascimento e da qualsiasi parte ci si trovi c’è un rientro nell’ordine (cuis regio eius religio); questo però comporta l’abbassamento di qualsiasi trionfalismo e una sorta di sguardo sul vuoto, insomma il motivo luttuoso, la malinconia di cui parla Benjamin. Così, l’esorbitante svolgimento – tradotto in immagini altrettanto esorbitanti – termina sulla meditazione del peccato e della caducità della vita umana, nell’equivalente del benjaminiano Totenkopf.

Con competenza e metodo, muovendosi tra strutturalismo (è l’autore stesso a dichiararlo: «la nostra impostazione… è di tipo strutturalista») e critica tematica (Bachelard e successivi aggiornamenti), Perrone conduce una attenta analisi testuale su materiali poco noti. La sua indicazione conclusiva, per cui la poesia barocca ha interpretato i disastri naturali con il filtro della fictio, secondo un «complesso sistema di figuralizzazione», risulta assai attuale per come anche noi oggi, nell’incalzare di catastrofi sempre più gravi (e ci mancherebbe solo il risveglio del vecchio Vesevo!) sopportiamo la mediazione dell’immaginario collettivo.