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La Distinzione (Gilda Policastro)

di Marco Ricciardi

 

Nel panorama editoriale italiano in versi degli ultimi mesi la pubblicazione de La Distinzione (Giulio Perrone editore, 2023), ultima silloge di Gilda Policastro, rappresenta sicuramente una delle uscite più interessanti ed in qualche modo emblematiche di una certa tendenza della poesia dell’ultimo decennio (come ci sottolinea Tommaso di Dio nella sua ricca e imponente antologia, Poesia dell’Italia contemporanea, appena uscita per Il Saggiatore) a «muoversi verso una persona plurale»  malgrado la pulviscolare e multimediale varietà di stili, tendenze e generazioni in sincronico confronto. «Sembra farsi avanti -continua il curatore dell’antologia- il desiderio che la poesia esprima una condizione comune, mediante la quale, essendo tutti più soli, ci si scopra più simili». L’ultimo lavoro della Policastro sembra in effetti essere -e così è stato recepito da buona parte della critica- come una delle ultime uscite editoriali più interessanti tra quelle che sono in qualche modo ascrivibili alla cosiddetta ‘area di ricerca’. Una sperimentazione che per la scrittrice/critica lucana si traduce soprattutto nel tentativo di sdoganare la poesia contemporanea italiana dal lirismo d’antan, dallo stagnante ‘poetese’ di sanguinetiana memoria (per esprimerci proprio in termini mutuati dalla Policastro saggista e critica militante) ma anche da quell’io ‘sovrano’ e ‘solipsistico’ dal quale, in fondo, ci si cerca di smarcare fin dai tempi del Gruppo 63: quell’ «io» che  «puzza», per dirla in modo ancora più icastico con un’espressione tratta proprio da un verso di una poesia de La Distinzione (Scrolling). Per farlo la poesia della Policastro ha inglobato e metabolizzato progressivamente tecniche e stilemi provenienti dalle esperienze più innovative della cosiddetta poesia di ricerca italiana e internazionale degli ultimi decenni (googlism, flarf, prosa in prosa, etc.), evitando da una parte una corrispondenza/adesione biunivoca con un singolo gruppo/movimento, e cercando, dall’altra, un dettato poetico tanto sperimentale quanto non estremisticamente eversivo o pietrificato in un’oggettività esangue, inorganica e de-umanizzata. Se da una parte la Policastro-critica ha in qualche modo sostenuto -e continua a farlo- quella scrittura di ricerca che dipana il suo filo d’Arianna a partire (per limitarsi all’ultimo secolo) soprattutto dall’esperienza del Gruppo 63 (tra gli altri Pagliarani, Sanguineti, ma soprattutto Balestrini) e che arriva fino agli sperimentalismi del nuovo millennio in particolare di area francese (Ponge, Gleize, Tarkos, ecc.) o anglosassone (Mohammad, flarf poetry, ecc. ) in parte filtrati dall’esperienza autoctona degli autori di prosa in prosa (riunitisi intorno allo spazio-galleria online gammm.org), dall’altra si percepisce il tentativo, come autrice, di mantenere un punto di vista altro, in lucida e feconda  dialettica con quella dimensione emotiva-soggettiva-biografica, che sembra rimanere, de facto, il suo irriducibile serbatoio creativo.  Nell’interessante saggio sulla poesia del nuovo millennio della Policastro, uscito un paio di anni fa per Mimesis (L’ultima poesia), era l’autrice stessa che (dopo aver perlustrato in dettaglio il panorama poetico italiano degli ultimi decenni e sottolineato la modernità e la centralità degli autori dell’area di ricerca) auspicava un recupero in chiave moderna, plurale, sperimentale, dell’esperienza ‘soggettiva’ del poeta. La chiusa finale del saggio vale un po’ come una dichiarazione di poetica secondo la quale, per la scrittrice-critica lucana, è auspicabile che «[i poeti] aggirando lo spregio post-neoavanguardista nei confronti dei territori emotivi, ne sappiano estrarre e valorizzare un senso (o ‘sentimento’) del tempo [...] mischiando forme, strumenti e linguaggi e adattandoli all’idea della creazione/ispirazione in regime di soggettività dialogica o multipla o plurale e non per forza come marca di eccezionalità e investitura misticheggiante o solipsistica». L’idea qui esplicitata dalla Policastro, ossia  di una poesia che cerchi un suo baricentro formale evitando tanto «l’imbroglio del poetico ingenuo»  quanto la «coazione all’impersonalità» ci sembra di fatto coerente con il percorso editoriale e l’evoluzione stilistica della Policastro in versi.

In  Non come vita (2013, Aragno) sono già presenti gli incandescenti nuclei emotivo-biografici dell’autrice (rapporto con la madre e con i membri familiari, l’ipocondria, il rapporto conflittuale con il corpo, ecc.). Eppure il lutto, il dolore soggettivo riluttano «ancora alla realtà storica e dunque a qualsiasi elaborazione» (Cortellessa): quella «soggettività dialogica» che verrà pian piano tentando tanto la Policastro critico-teorica quanto la poeta-romanziera, qui è ancora in fieri se non ancora in nuce. Ad avere la meglio è ancora un io autorecluso e immobilizzato in una sorta di putrefazione in vivo da piaghe da decubito, una dimensione nella quale la vitalità del corpo sembra inesorabilmente mortificata. Questo clima claustrofobico e funereo rimane in ogni caso funzionale alla potenza di alcune poesie della raccolta (Torti, Hora, purpurea, ecc.) ed in particolare di Precari (riproposta adesso proprio in apertura de La Distinzione) nella quale alcuni elementi della Policastro a venire appaiono già più evidenti (contaminazione dei linguaggi, uso del registro e di una sintassi  mutuati dal parlato, irruzione di un immaginario e lessico contemporaneo, ecc.).

Nelle due raccolte successive, Inattuali (Transeuropa, 2016) ed Esercizi di vita pratica (Prufrock SPA 2017) la Policastro si concentra proprio in una direzione antilirica, in opposizione a quel «marasma intimista» pericolosamente fuori dalla storia non perfettamente domato nella prima raccolta. Nel farlo utilizza molti degli strumenti di quella poesia di ricerca contemporanea più apprezzata e appoggiata come critica militante: recupera il montaggio e il cut up di balestriniana memoria e ne aggiorna l’evoluzione stilistica introducendo elementi tecnico stilistici della poesia flarf, del googlism, dell’eavesdropping, alternando verso alla prosa e rendendo sempre più labile il confine tra le due modalità (avvicinandosi di fatto per alcune scelte stilistiche alla ‘prosa in prosa’). L’irruzione fluviale della contemporaneità con i suoi feticci (la rete, i social, il virtuale, la liquid modernity baumaniana, ecc.) ma anche la strada con i suoi lacerti di voci, con quel rumore di fondo che si manifesta in forma di chiacchiere, frasi-slogan-jingle: la diffrazione del soggetto in un pullulante e rumoroso voicing fanno parte di quel tentativo di Policastro di uscire da una soggettività ingombrante e di creare una nuova estroflessa grammatica del trauma, una forma/scrittura più in risonanza con una sensibilità contemporanea e che adotti un’estetica più feconda e funzionale. 

La Distinzione, l’ultima silloge, ci sembra, al momento, l’episodio più interessante di questo percorso, proprio nella misura in cui esprime meglio quel tentativo di sintesi, auspicato dalla stessa Policastro critica, tra ‘freddo’ controllo-equilibrio formale della scrittura (maturato via via nelle raccolte precedenti), e quel nucleo ‘caldo’ di autenticità le cui fonti non possono che essere ricercate se non nei tellurici «territori emotivi» dell’autrice. Non è affatto casuale che la raccolta si apra proprio con la riproposizione di Precari una delle composizioni che -per il tema tragico e universale, l’originalità e la freschezza formale del verso- crea d’acchito una complicità empatica con il lettore: alle parti più esplicitamente cariche di un pathos apparentemente meno ‘decantato’ («Mamma gli altri miei amici hanno le mamme/ che sorridono, a volte, tutte vive [...] Mamma ti vengo a prendere, alzati,/ dai aria alla stanza e, soprattutto,/fatti trovare») fanno da controcanto versi che si contaminano della dimensione strutturalmente kitsch dell’immaginario contemporaneo e che rendono più credibile, attuale, prospettica l’esperienza soggettiva di chi scrive: «Mamma tu lo sai/ che a un idiota qualunque/ se va a leggere su un palco/ (li chiamano slam poetry)/ gli danno quanto meno cento euro/(lo chiamano gettone di presenza)». Oppure più avanti «Mamma tu nelle foto eri bella/mentre ora che ci guardano le telecamere/ti prendi magari, un’ombrellata/ me se ne muori/almeno sai chi è stato». Se la chiave d’accesso, il viatico per La Distinzione è una poesia ‘talismano’ uscita in rivista più di 10 anni fa (e poi  come detto nella prima silloge pubblicata dall’autrice), anche lo spazio in limine della malattia e dell’Ospedale -vero e proprio luogo ‘totemico’ dell’autrice- è un’altra presenza ricorrente nella produzione della Policastro tanto in prosa (in particolare ne Il Farmaco, Fandango libri, 2011) quanto in poesia: questo spazio (con un suo lessico e un suo repertorio fenomenologico già precedentemente esplorato della scrittrice lucana) riveste anche ne La Distinzione  un ruolo centrale, se non proprio di cifra portante e strutturale della raccolta.  Ancor prima della malattia conclamata è l’ossessione della malattia, è il filtro ipocondriaco sul reale uno degli elementi più ricorrenti nei versi di Policastro: «c’è da metterlo in conto, quando vivi che sarai morto/ un giorno di qualcosa che nemmeno sapevi,/ che hai googlato senza prognosi/ cosa ti previeni, non c’è scampo/ da certe malattie che non si annunciano,/oppure quando è tardi per la diagnosi». Oppure più avanti nella strofa finale: «Io e la morte siamo amiche da tempo, abbiamo fatto un patto:/ ricevo diagnosi fatali, condivido, inoltre/ ne parlo: non parlo d’altro/ Se d’amore si muore, io vivo d’amore/ per la morte» (Perché mi accorgo che morire, adesso non mi serve). L’ospedale è anche il luogo in grado di creare forzatamente una dimensione comunitaria, un ‘noi’ primitivo precario e interclassista:« Stacco tutto e me ne vado:/ è grosso, una stampella per parte/ L’altro non sa scrivere il nome/Somalo?Etiopia. E te pareva,/ quante possibilità c’avevo su un mijjone/Promiscuità, è questo a definirci [...] Siamo in quattro, guardiamo un po’ in aria/ un po’ ci sorridiamo mentre Salim non ha capito/ che deve togliersi la giacca/ Glielo mimo pensando al cianciare brutto/ di ogni Facebook sui cosiddetti #migranti/ (categoria che vorrebbe smarcarsi)» (Un nome che può essere Salim). Proprio in questi versi sono evidenti i tratti stilistico-linguistici più maturi dell’autrice: l’eavesdropping, la contaminazione con il gergo della rete, la mescolanza dei registri, una polifonia in cui i singoli soggetti parlanti si confondono tra loro, in un paesaggio sonoro e ‘narrativo’ discontinuo e fluttuante (modalità questa, peraltro ampiamente utilizzata anche ne La parte di Malvasia, l’ultimo romanzo pubblicato dall’autrice per La nave di Teseo, 2021).

Questo tentativo di decantazione del nucleo soggettivo, del ‘trauma’, raggiunge i suoi livelli massimi in alcune sezioni della silloge. Nella sezione Dispositivi la variegata tassonomia ipocondriaca viene in qualche modo esternalizzata in un cut up di stringhe di ricerca, in un mosaico di linguaggi settoriali e di registri (vicino appunto alle esperienze del googlism e della flarf poetry) in cui il soggetto più che parlare è ormai parlato, ‘posseduto’ dall’incontenibile flusso di dati che arriva dall’esterno. Emblematico che dopo la poesia Scrolling, in cui questo rigetto dell’io diventa esplicito («tu voi essi sopraggiungono chiamano/ in persone dalla seconda alla terza/guai la prima/ l’io puzza») Policastro decida di inserire due poesie atipiche, SwiftKey (realizzata grazie alla scrittura automatica personalizzata e che prende il nome dalla tastiera virtuale di Android e iOS) e GP(T)-3,  realizzata appunto con l’omonimo software di Intelligenza Artificiale: è un passaggio della raccolta che rappresenta quasi un simbolico cupio dissolvi di quel ‘pericoloso’ soggettivismo-confessional (del quale l’autrice sente in qualche modo di doversi emendare) nell’automatismo oggettivo e depersonalizzato dell’IA. Ma è nella poesia successiva che questa abiura dai ‘sentimentalismi’  diviene ironicamente esplicita:«Abiura di quelle poesie lutto/ così confessional/ dici che non esiste il trauma,/proprio tu che n’hai abrasi due, seccati/ come birilli, al bowling delle metastasi)»(Poesia ASMR).

Se la sezione delle Inattualissime segue l’esperienza formale della raccolta Inattuali (dando forma a breve composizioni/trascrizioni di voci e frasi  ‘raccolte’ tanto dalla strada che dalla rete o dai media), la sezione che la precede, Bravure, in cui l’utilizzo della prosa è prevalente, la poesia si muove sempre di più verso la riproduzione, allo stesso tempo caotica e mimetica, di una sorta di flusso di coscienza sonoro/linguistico collettivo:«[...]le pareti interne a schermare la riabilitazione del pianto su cui cfr. Deleuze abecedario non è come credi la provenienza del nome resta ignota qui è la casa ciò che è in luce ciò che è in ombra passaggio di nuvole da una porta ufficio cinema letto ufficio cinema letto uff tuttavia mai avrei osato ringraziarti non fosse stato per le piastrelle credevo d’essere l’unico ad averle [...]»(Vista con camera). 

La dimensione nosocomiale e della malattia rimane però centrale in almeno altre tre sezioni della silloge. Se in Intermezzo è ‘il male oscuro’ al centro dell’analisi poetica (tema sviscerato, non senza provocatoria ironia e sarcasmo nella Suite depressiva), è ancora l’ospedale con la sua ‘democratizzazione’ forzata che costringe -in qualche modo- a una fastidiosa e primordiale complicità ‘organica’, ad un disfacimento delle paratie protettive del soggetto e che apre lo spazio (seppur in una condizione strutturalmente al limite, in cattività, ma potremmo dire in vitro) a un’esperienza in qualche modo embrionalmente corale, collettiva. Ma se nel Thomas Mann de La montagna incantata (citato da Policastro ne le infermiere si avvicendavano, nella sezione Histoire d’H) i dialoghi tra i degenti del sanatorio si svolgevano su un livello diciamo ideologico-filosofico (e ogni personaggio rappresentava in qualche modo una weltanschauung, una visione del mondo e una possibile dialettica), nel locus letterario ospedaliero di questi primi decenni del XXI secolo descritto dalla Policastro -postmoderno, post ideologico, pre/post pandemico- la comunicazione non può che avvenire su un piano, diciamo così, elementare, biologico, scatologico o al massimo tecnico-scientifico:«A me capitava di vomitare. rivoltata come un calzino,/ non è stato possibile diagnosticare/ alcuna patologia. quindi colpa dello stress// È venuto in mente a qualcuno di farti gli esami/ per la celiachia?/ almeno un test per antigliadina e antiendomisio» (Casting, sezione Gite ospedaliere).

In questo senso lo spazio totemico e in limine dell’Ospedale, l'ossessione della morte e del disfacimento di un io corpo-oggetto-carne, l’ipocondria -elementi centrali nella poesia di Policastro- diventano (e questo ne fa uno dei percorsi più interessanti e omeopaticamente consonanti alla temperie di questi anni)  cifra ben più ampia di una condizione epocale, in cui la difesa della ‘nuda vita’ come diremmo in termini agambeniani, sembra essere il collante e l’ossessione principale di un tessuto sociale che ormai fatica a farsi comunità nelle dinamiche di una dialettica ideologica o  valoriale. Ecco che La distinzione, coerentemente alle intenzioni dichiarate della Policastro teorico-critica ne L’Ultima poesia, ci sembra un tentativo formale riuscito «di aggirare lo spregio post-neoavanguardista nei confronti dei territori emotivi»  per estrarne «un senso (o sentimento) del tempo [...] mischiando forme, strumenti e linguaggi». Resta da capire quanto l’incontro-scontro con l’altro che la sensibilità dell’autrice lucana percepisce ormai come quasi innaturale, forzato, fastidioso (di poesia incaricata «di trasmettere/ esclusivamente/ fastidio» d’altronde si parla esplicitamente in Uno tira l’altro) sia onestamente percorribile. Quanto quell’incontro che sembra possibile solo in condizioni limite, nell’empatia della malattia (La malattia è il passatempo dei sani), possa esprimersi in forme davvero autentiche di soggettività dialogica o plurale: quel ‘noi’, come reale dialettica/sintesi di individualità (questione di cui ciclicamente si discute soprattutto nell’ambito della poesia/letteratura di ricerca dal secolo scorso fino ad oggi). O quanto non ci si debba al momento giocoforza limitare (per mancanza ‘epocale’ di possibili connettivi filosofico-ideologici) al più basso cabotaggio di un’articolata ed esternalizzata polifonia dell’io, grazie alla quale -come diceva appunto Tommaso di Dio nell’antologia citata- nell’acquisire coscienza di essere «tutti più soli, ci si scopra più simili».