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 Works di Vitaliano Trevisan

Roberto Milana

 

Nelle congiunture letterarie di crisi d’usura dei meccanismi della narrazione e delle credibilità figurali, spesso si afferma editorialmente il genere biografico, non poche volte di estreme declinazioni dolorose, ospedaliere, delittuose, di varia e giornalistica cronaca,  accolto con i peana della critica friendly e la soddisfazione para aristotelica di un pubblico bendisposto verso i nuovi, naturali e volentieri morbosi giacimenti  di unità esistenziali. In realtà dietro la confortevole comunanza e l’immedesimazione facile con le cospicue  tranches di vissuto, è in agguato il falso movimento della demagogia semantica, la riduzione del problema espressivo e le sue articolazioni a pure quantità di contenuto. Così l’impasse dell’uso e della strumentazione letteraria rimane non placata. Le ragioni dello scacco non stanno nel genere in sé, ma nell’ignavia linguistica e quindi morale del trattamento del materiale biografico. Lo dimostra all’incontrario Works di Vitaliano Trevisan, questo libro postumo di scritti ripresi in edizione ampliata, bello di sostanza stilistica  e di complessa verità,  come gli altri testi della produzione purtroppo interrotta dello scrittore veneto.

Il libro presenta una conformazione a quadri narrativi che corrispondono in una fedeltà mimetica alle esperienze lavorative raccolte nel suo ormai vecchio proustiano libretto di lavoro. Lavori curiosamente differenti a causa anche del caso tra annunci sul Giornale di Vicenza e destini traballanti di aziende e persone e delle pulsioni di una razionalità umorale e a volte bipolare con cui l’autore persegue anche contrapposte professionalità, ora d’ufficio con il suo diploma di geometra ora all’aria aperta, fisica di cantiere,  per solidarietà di classe e per la incerta ma pressante convinzione che questa gli permetta di dedicarsi meglio alla scrittura. Ma i compartimenti stagni sconfinano uno nell’altro attraverso rimandi cronologici e argomentativi, in un flusso linguistico di tremenda risonanza interiore e di cruda analisi sociale. Il linguaggio di Trevisan è moralmente preciso ma oltre la maniera di Primo Levi e delle sue Chiavi a stella, deve proteggere con l’appropriatezza non solo  la cognizione e l’integrità di sé, corpo e ratio, ma anche impedire le  derive del proprio inconscio, le minacce dello stesso sé a se stesso, rendendo autorevole ogni realtà vissuta, ogni persona incontrata. Per questo il linguaggio è fisicamente immediato con l’uso di un dialogo  senza rimessaggio intellettuale ma spazialmente congruo, l’autore protagonista sta dentro il contesto dei fatti e ha la pazienza di sopportarli, di portarli ad una estrema tensione, con risolute sospensioni di azioni, da dove poi essi stessi parleranno senza infingimenti. Così la nevrosi non dilaga perché trova concretezza nel conflitto sociale e della fatica col proprio corpo. Qui sta la politicità della scrittura di Trevisan, mai ideologica, nelle attente ed ammirate descrizioni dei gesti lavorativi Salire e scendere per le scale estensibili, arrampicarsi sulle armature, camminare in equilibrio su un muro largo quindici o venti centimetri, andare su e giù per una falda inclinata camminando sui coppi (senza romperli) eccetera, richiedeva più agilità e destrezza che forza (pag.407). Come nella meraviglia bambinesca rispetto ai meccanismi della strumenteria. …le gigantesche macchine per la lavorazione dei pannelli in truciolare, nobilitato o laminato che fosse, tutte ovviamente a controllo numerico, dove l’operatore si limitava a inserire dati e a controllare la lavorazione, mentre la macchina si prendeva il pannello, lo forava, lo ruotava, lo forava di nuovo, lo ruotava di nuovo, se serviva lo girava, sennò lo spediva altrove (pag.286).  Piccole mitologie industriali e il vivo sfruttamento della fatica e dell’intelligenza altrui posto con naturalezza nell’ineluttabile mercato della vita, come ogni elemento costitutivo dell’umanità. E’ lo spazio anche nella sua geometria del geometra, l’elemento su cui agisce la narrazione di Trevisan, un’orizzontalità della materia dei fatti, in un’esistenza  quasi quantistica, ribelle, ovvero in movimento presente e irresoluto che il tempo della rimembranza e della denuncia non piega mai in un confortevole continuum logico e sentimentale.  E una corrispondenza tra le pratiche del lavoro e quelle dell’ inconscio, una comunanza dei loro territori, dove l’autore ribalta tutti i luoghi comuni sindacali e politici, per arrivare a una sociologia privata di acutissima definizione. Ecco che il libro assume vesti amaramente briose e duramente morali, da commedia comenciniana, una triste arguzia lo pervade e rivela  come un saggio  dalla razionalità dolorosa e scanzonata  i modi della corruzione economica finanzi, aria, lo spregio ottuso del paesaggio, le regressioni quasi antropologiche di un preciso periodo  quello dell’irruente sviluppo economico del Nordest dagli anni settanta fino agli anni zero.

La  scrittura orizzontale  ha una ricca e dinamica sostanza di stile anche nella progressione specifica del linguaggio segnata da un uso apparentemente svagato di registri. Come note su presse e laminati o di sofisticate citazioni, incisi saggistici da libretto di istruzioni o a manuale di sociologia, una messa in presenza del dialogo diretto e indiretto scelto nel punto più espressionistico  del suo svolgimento, poi la maggiore marea del flusso linguistico con l’andamento sfinito della nevrosi, un impasto vivido di tecnicismi come umanizzati a spiegare la  fisiologia delle macchine e soprattutto con il ronzante rotatorio sentimento del sé inguaribilmente ferito anch’esso espresso con questa necessitata sintassi all’indicativo vicino al parlato ma mai mimetica. A tutto questo complesso linguistico corrisponde la rappresentazione di una complessa verità, morale e politica, scavata con furia privata in ogni ordine e grado dell’Istituzione.  Sesso  o  le aspettative deluse, alienazione in famiglia, economia e nuovo sfruttamento,  ipocrisia di cultura e religione e la società inevitabilmente, naturalmente, ingiusta. Una scrittura come è difficile trovarne nella nostra cultura letteraria, che a certi livelli di vera e indisponente intimità, spesso si ferma.