Giovanni Fontana e l’avanguardia
Francesco Muzzioli
La prossima volta che vi verranno a dire che l’avanguardia oggi è impossibile, ricordativi di rispondere: e allora Giovanni Fontana dove lo mettiamo?
Infatti Fontana ha saputo attraversare e inglobare tutte le avanguardie del Novecento, dalle prime ha appreso l’azione significativa dei “significanti”, dalle seconde l’ottica laboratoriale e critica; e inoltre ha preso la strada dell’uscita dalla “linearità della scrittura”, per i rami della poesia visiva e della poesia sonora, sfociando in una straordinaria capacità performativa, non proprio teatro, ma quasi, comportante la centralità della voce supportata da un apparato tecnologico raffinatissimo e aggiornato. Fontana è anche teorico (ultimamente soprattutto della poesia epigenetica) e storico delle tendenze: il suo studio La voce in movimento resta un testo basilare per chi si voglia accostare a questo versante artistico-letterario.

La persistenza dell’avanguardia è stata forse, tra le altre cose, proprio un effetto di quelle tecniche speciali, che pure hanno nuociuto all’approccio critico. Si dice, infatti, che occorre una doppia competenza per occuparsi di poesia visiva (ci deve essere un critico d’arte?) o di poesia sonora (ci deve essere un musicologo?), per cui alla fine questi autori non vengono considerati nei normali panorami della poesia, storici o antologici che siano, redatti dai letterati puri. Tuttavia questa disattenzione e trascuratezza accademica è stata compensata dalla partecipazione del poliartista a un circuito internazionale caratterizzato da una propensione sperimentale che lo ha esentato sia dalle derive postmoderne, sia soprattutto dalle regressioni poetiche verso il culto dell’io e della emotività. Tra l’altro, Fontana non ha mai abbandonato la scrittura lineare su carta: al suo primo libro, Radio/dramma, stampato nelle edizioni di Adriano Spatola nell’epico eremo del Mulino di Bazzano (anzi, a quanto pare, proprio impaginato manualmente da Adriano), ne sono seguiti molti altri, non solo di poesie, caratterizzate da strane interpunzioni, ingrandimenti di lettere, dislocazioni varie e via dicendo, ma anche di prose, alcune addirittura presentate come romanzi.
Proprio questi testi “lineari” e però internamente frammentari, quali Tarocco meccanico, Chorus, Questioni di scarti, dimostrano una cosa: che decisiva è sempre la sonorità, anche in forma di ritmo. Non per nulla Fontana vi riscopre alcuni procedimenti “classici” come la rima e la cadenza, insieme a tutta una serie di rimandi e di rimbalzi. Quei procedimenti, sottratti alla regolarità che gli imponeva la tradizione poetica, una volta esportati nella prosa perdono qualsiasi sapore di antiquariato e acquistano invece una ritrovata vitalità, una pulsione decisamente originale.

Per certi versi, il libro a stampa, per Fontana, ha la funzione di uno spartito, nel senso che il testo è comunque concepito in vista della lettura. Propriamente parlando, però, quando il performer si presenta in pubblico, il suo testo cartaceo lo correda di istruzioni per l’esecuzione. Questi fogli sono degli spartiti veri e propri e talvolta Fontana li ha pubblicati a parte in quanto assumono valore non solo per riguardo alla voce che guidano, ma anche come opera visuale. Quanto alla poesia visiva in senso stretto, le opere di Fontana si possono raggruppare secondo due operazioni principali: quella della fluttuazione dei grafemi, anche contraddistinti da varianti colorate, e quella del corpo frammentato, in entrambi i casi accompagnate spesso dalla presenza di righi musicali, talvolta appositamente ondeggianti.
Il corpo, per l’appunto. La performance è esattamente il momento della presenza del corpo-significante. Saremmo allora in totale antitesi rispetto al discorso di Derrida che opponeva all’illusione della parola in presenza la differenza della scrittura? Non proprio, perché poi lo stesso Derrida riconosceva positivamente il teatro di Artaud. Chiariamo: per Fontana l’uso artistico della voce è esattamente una specie di scrittura che potenzia i polisensi verbali attraverso l’importanza dei registri, dal mormorio all’urlo. Se, come ha sostenuto Jacques Rancière, le residue chances di politicità dell’arte si giocano nell’«intreccio di più regimi di espressione e del lavoro di diverse arti e di diversi media» che comprenda anche le nuove tecnologie, allora l’opera composita del nostro Fontana può rappresentare un esempio perfetto.

Nel recente periodo Fontana ha parlato molto spesso di poesia epigenetica, volendo indicare con il termine la valenza supplementare che il testo assume nella lettura e sostanzialmente l’aumento di verità che apporta l’uso della voce. Allo stesso modo, la scrittura in senso stretto stampata sul libro è una scrittura per la voce, perché viene elaborata con preciso riferimento alla sua dizione e quindi prevede, nel dinamismo che le viene impresso, la propria esecuzione. Con una dialettica tra liberazione creativa e costrizione costruttiva che è appunto il lascito delle migliori avanguardie.

Soprattutto in Questioni di scarti Fontana è pervenuto a un inusitato recupero dei significati e addirittura dell’impegno civile, trattando in quel testo della sovrabbondanza dei rifiuti e non solo, anche di tutto ciò che viene sprecato nella società del massimo consumo. Ecco un caso di intervento sul tema politico di critica al capitalismo tuttavia non affrontato in modo retorico diretto ma preso di sguincio, per così dire allegorizzato in uno dei suoi effetti disastrosi. E in esso, ancora una volta, il corpo come mero residuo delle tecnologie del virtuale. Una tematica generale (quindi ben lontana dall’individualismo della confessione privilegiata dalla poesia ego-centrica) che, per altro, viene trattata in modi stranianti, non solo per l’assetto sonoro (come dicevo: le rime e il ritmo segnato da barre disgiuntive), ma anche nella struttura dialogica di due voci che si rimpallano l’argomento.
Recentemente, in una antologia che gli è stata dedicata a cura di Patrizio Peterlini e Lello Voce, Fontana è stato definito Un classico dell’avanguardia. Un riconoscimento senz’altro meritato, però anche un tantino paradossale. E non tanto perché l’avanguardia dovrebbe essere l’opposto del classico – tanto ormai essa stessa ricade nel passato, sia pure prossimo –; piuttosto il paradosso risiede nel fatto che l’avanguardia è fatta di gruppi e movimenti, mentre Fontana è un singolo, per quanto si pluralizzi da maestro nelle attività e nelle voci. Per di più è molto difficile da imitare.
Probabilmente, però, dobbiamo corroborare la nozione di avanguardia con quella di sperimentalismo e allora i conti tornano tutti, dato che la perizia tecnologica del nostro autore lo fa entrare a pieno diritto nei migliori risultati del laboratorio artistico. E poi in fondo, anche se non saremo mai bravi come lui, qualche insegnamento ce lo può sempre dare: di fatto, ci invita al superamento dei generi, a lavorare nei territori di confine anche a costo di non rientrare nei repertori ufficiali, e di fatto ci esorta a cercare sempre le soluzioni di forte impatto, facendo sì che la presenza fisica del poeta coincida con una vibrante presa di posizione.