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Recensione di La colpa al capitalismo di Francesco Targhetta

Marilina Giaquinta

 

 

Quello di “La colpa al capitalismo” (La nave di Teseo) di Francesco Targhetta è un moderno Cantico delle creature, opera che lui stesso cita nel poemetto “La morte seconda”. È un cantico della solitudine delle creature, doloroso, disperato, straziato, ma allo stesso tempo lucido, analitico, spiazzante, che non concede scampo o agiatura ma che riesce a essere anche pieno di grazia, tenerezza, cura nei confronti di quelle vite perse e sole che racconta. Targhetta inquadra, filma, riprende - scarrellando con una macchina da presa inesorabile - un paesaggio urbano, desertico di qualunque forma di comunità, dove regna un “silenzio crepuscolare”, fatto di “neon degli edifici pubblici”, di “autocarri dei trasporti eccezionali“, di “domeniche al Leroy Merlin”, di “aziende dove abbaiano i cani”: lande edilizie, sconfinamenti cementizi, alopecie abitative, insediamenti industriali inurbati, dove pure il cielo manca: “tutto il cielo… /dov’é? /dove si spande?”. E il titolo, dopo aver letto la sua raccolta, sembrerebbe non una risposta, non una verità ( Hanna Arendt scriveva che “concettualmente, possiamo chiamare verità ciò che non possiamo cambiare”) ma un invito all’attenzione, un avvertimento, un’allerta, un impegno di riflessione su “una condizione storica non ... più percepita come tale e dunque vissuta come condizione umana tout court” (Riccardo Donati). 

“L’ultimo uomo” che emerge dalla raccolta di Targhetta, non è “colui che non ha altri desideri che perpetuare la propria condizione di ricerca della felicità”, non “incarna lo stadio finale di un’individualità assuefatta alla soddisfazioni dei suoi bisogni primari e secondari, che nella politica cerca esclusivamente un vettore in grado di assicurargli spiccioli di felicità materiale” (Gianluca Bonaiuti), l’umanità di Targhetta non è soggetto desiderante di un sistema di produzione capitalistico che “proclama il diritto umano al comportamento avido senza limiti” ( Peter Sloterdijk ), e che si propone come modello di crescita con una potenza futura inesauribile perché riesce, da un lato, a coniugare espansione del mercato e razionalizzazione tecnica e, dall’altro, proprio per questa sua continua e (a esso stesso) necessaria fuga in avanti, a elaborare sistemi di controllo e contenimento della sua vocazione al collasso. Le vite dei personaggi di Targhetta, mai tragici e per questo votati al supplizio tantalico della ripetizione e della vana fatica, sono esistenze consumate da un sistema che, se da un lato riesce ad autoriprodursi metamericamente, proclamandosi vettore unico di un progresso tecnologico sine die, che pretende neutro e indefettibile, dall’altro si comporta come Saturno, che per mantenersi in vita, divora i propri figli. Tuttavia, nell’ineludibilità di un destino che è cosmicamente lontano dal “posso perché voglio” dell’onnipotenza volontaristica di un liberismo che scarica le proprie scorie sulle responsabilità individuali, i personaggi di Targhetta portano avanti la propria resistenza quotidiana: nelle loro comuni vite a margine, chiuse dentro una geografia urbana centrifuga, isole di un arcipelago che rischia di finire sommerso, nessuno è uguale, nessuno è copia dell’altro, nessuno è fungibile, ognuno ha una storia, un’identità che rimane impressa e che è quindi riconoscibile e memorabile, quasi a opporsi a un sistema che ci vuole tutti serialmente uguali e interscambiabili. “La dimensione monetaria non istituisce né senso né identità”, scrive il filosofo Byung-Chul Han. 

Sono personaggi beckettiani, calati nell’assurdo di una quotidianità aliena di senso di cui però hanno sentore, percezione, eco, ed è per questo che le loro vite producono, in chi legge, un effetto lacerante, angosciante, di abisso. Con versi pieni di ritmo, allitterazioni, parallelismi sonori, tensione e torsione di versi, Targhetta canta una chanson de geste, un’epica di viventi, con uno scavo introspettivo così preciso, microchirurgico, miniato da renderli vividi e familiari. Forse perché ci somigliano.

Livia che intanto resiste “ogni singolo giorno”, Iacopo che non ha conosciuto l’amore, Marina che si mette nell’umore di non scegliere la deriva, Roberto che mette l’orologio avanzi per cambiare le cose, Vito che “evita la vita da una vita” perché “gli mette ansia come tutto il resto”, Viola che “non la vuole nessuno” e “che non gode a sapere/ del furioso tracollo del mondo”, la vita di Debora che “a pensarci un momento/ (è) incoraggiamento”, Sarah che filma il figlio che scarta regali, “Se ne trae, guardandoli, la conferma/ che la vita è soprattutto/ incremento”, Costanza “Tutta la vita a cui rinuncia/ si rovescia su chi le vive accanto”, Paola “… se si è soli, / a un’altra giornata storta”, Lisa alla quale “La sera fuori inizia a pesare”, 

Tutti siamo soli/ fino a prova contraria”, scrive Targhetta e cita l’”Hikikomori” (“Si è chiamato fuori/chiudendosi dentro), la scelta di esclusione sociale e di isolamento che si sta diffondendo tra gli adolescenti e i giovani adulti di tutto il mondo. “C’é la vita cellulare che perdura (per quanto ancora?)” incalza. 

C’è una voce però che si sente forte nella poesia di Targhetta, ed è la voce chiara della poesia “Vita associata”: la ricerca dell’altro, degli altri, come unico modo di vivere. “Ma non puoi fare a meno di cercarli/ ovunque/ e di amare quel vuoto strano/ dove dovrebbero essere/ e non sono.”

D’altronde, la poesia, secondo Celan, “tende verso un altro, ha bisogno di quest’altro, ha bisogno di un interlocutore. Gli va incontro, lo annuncia. Per la poesia, tutto e tutti sono la figura dell’altro verso cui si sta dirigendo.” E la Carson aggiunge: “...la natura invisibile dell’ alterità … sollecita in noi un’attenzione che può portare alla luce qualche cambiamento”. E, allora, “il merito alla poesia”.

 

Marilina Giaquinta