Recensione di Camera sul vuoto di Bruno Galluccio
Marilina Giaquinta
Carlo Rovelli ha scritto:” Poesia e scienza sono entrambe creazioni dello spirito che creano nuovi modi di pensare al mondo, per farcelo meglio capire. La grande scienza e la grande poesia sono entrambe visionarie, e talvolta possono arrivare alle stesse intuizioni. La cultura odierna che tiene scienza e poesia così separate è sciocca, secondo me, perché si rende miope alla complessità e alla bellezza del mondo, rivelate da entrambe.”
Esistono tra scienza e poesia molte più affinità di quello che potrebbe sembrare a una considerazione affrettata, che sconta la tradizione di un pensiero che ha abitualmente opposto il primato della logica nella prima e la pervasione dell’emozione nella seconda.
E invero: entrambe, mutuando un’efficace espressione di Leibnitz, “cercano ciò che sanno e non sanno ciò che cercano”; entrambe tentano di svelare, ognuna con gli strumenti che le sono propri, “il mistero di interrogativi addirittura crescenti” per usare le parole dello stesso Galluccio; entrambe coltivano il dubbio; entrambe originano da un’intuizione ( il fisico premio Nobel Giorgio Parisi scrive: ”Alla base della costruzione scientifica… c’è una grande costellazione di ragionamenti intuitivi. Anche nelle scienze prima viene l’intuizione”); entrambe sono visionarie, entrambe esplorano il senso della vita, entrambe sperimentano, entrambe mettono in discussione la conoscenza acquisita. “Fare scienza - continua Rovelli – significa scontrarsi quotidianamente con i propri limiti, … “La natura del pensiero scientifico è critica, ribelle, insofferente di ogni concezione a priori, a ogni riverenza… : si nutre di una radicale mancanza di certezze”. Descrizione, quella di Rovelli, che sembra cucita sartorialmente sulla poesia. Tant’è vero che lo stesso Galluccio sente il bisogno di precisare: “Nel libro, la scienza non rimane al livello di associazioni metaforiche, ma è tema continuo e ricorrente.”
In “Camera sul vuoto”, ancora una bianca Einaudi, Galluccio si serve della scienza come mezzo per interrogarsi sulla condizione umana, piega il linguaggio scientifico per i fini della poesia, che nega “alla parola il suo posto/...il giusto posto alla parola”, gli conferisce ritmo, accordo, asimmetria e insofferenza di verso, cita la meccanica quantistica per spiegare la nuvola della probabilità che governa la materia, e l’uomo che di quella materia è fatto, frammenta l’infinito dentro lo spazio e il tempo della vita ed elegge come unità di misura “l’ascolto della scienza” che “richiede tutto l’impossibile” e non lo sguardo umano sulle cose, visione imperfetta, a cui “… la dimensione dell’universo (...) manca”.
Nell’Antropocene di Galluccio, l’Uomo non è l’Uomo di Protagora, “misura di tutte le cose, di quelle che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono”, ma vive ed è apparso sulla Terra che “è un pianeta come tanti” per via di “un evento casuale e improbabile”, del “prevalere di materia su antimateria”, per “lo strappo nel tessuto iniziale della simmetria”,per “l’inflazione cosmica estremamente accelerata” è il prodotto di un caso, (“i legami covalenti instaurati/ tra ossigeni e idrogeni il primo/ casuale formarsi dell’acqua” scrive) e a lui non resta che “questa continua ansia di scoprire” “gli accadimenti cosmici durante il formarsi degli atomi” per capire se stesso e il senso del suo divenire e della fine.
L’Uomo di Galluccio vive in “uno stato imprecisato/ come nella nuvola quantistica/ dove un evento può essere vero e non vero/ nel medesimo istante presente/ o nel medesimo futuro”; l’Uomo di Galluccio vive la solitudine dell’Universo, “di una solitudine in due nell’universo”si affida a una preghiera lasca, non riesce ad “assuefarsi al timore del giorni a venire”, “non può liberarsi dalle stelle” perché è di quella materia che è fatto; l’Uomo di Galluccio è come quelle “galassie espulse in direzioni opposte” che “non potranno mai sapere l’una dell’altra” e che“ ha difficoltà ad ammettere/ una impossibilità assoluta di comunicazione”.
Sarebbe stato forse uno sguardo poetico mancante, un quadro senza cornice, una narrazione umana vacante se quest’Uomo non fosse stato calato anche nella sua dimensione storica. E, infatti, a metà delle nove sezioni, che vertebrano la raccolta, la materia umana si fa temporale, si fa storia, si fa segno culturale, e lo spazio diventa luogo e il tempo diventa lineare, e trascorrendo dal generale al particolare, si frantuma in una dimensione personale e di intima memoria, fino allo svelamento della propria “camera sul vuoto”.
Lo scenario, tuttavia, sembra ripetersi: alla vertigine esploratrice che l’uomo avverte di fronte alla vastità, alla consistenza e ai confini ancora ignoti dell’Universo, consapevole di essere fatto della sua stessa materia (“i battiti che vengono dalle nostre anime quasar”), uomo galileiano che ha osato sfidare le gerarchie costituite, producendo un effetto Larsen sui costumi intellettuali dell’epoca, perché non solo il mondo fisico aveva bisogno di essere scrutato con i suoi “vetri” ma, soprattutto, il mondo delle idee, a quell’Uomo corrisponde un “uomo quotidiano” antiprometeico, il cui “volto già si scompone nelle sue tante ombre”, con “ il senso che … cade per via”, nel quale “si inceppa” la stessa capacità di descriverc(s)i “di fare la mappa”, che cerca di assuefarsi “al timore dei giorni a venire”, che vive “nell’assenza di presente” e che ha aperti “intoppi sul passato”, che prova una “nostalgia” che “si perde e lascia indietro i vuoti che ha creato”, uomo agnosico e inerziale per il quale “la speranza è galleria ad una uscita”, che dimentica “sempre troppe cose”, che “non si racconta che per fermate accidentali”, che sa che “tutto può cambiare al doppiare il promontorio dell’abitudine”, ma che mantiene “le strade sul corpo percorso”, che vive “un’irrevocabile carenza”, un uomo per il quale “la notte è una grande tentazione”, ed è “notte spenta di tutti gli abbracci”, uno, fratto e claustrofilo anche nella relazione, quando “l’alba fiorisce” “dopo gli abbracci della notte” i due corpi si svegliano in un “tocco impenetrabile”, e“ciascuno si scioglie in due /in quattro attendono risposte”, un uomo confitto e indivenibile che di sé lascia “traccia oscura” e che pur avendo “la voglia e il vetro di abitare lontano” non vede “altra via che possa lasciar presagire la fuga”.
Ma, avverte Alexandra Kohan “in un’epoca in cui… vi è la tendenza a rendere ogni cosa rassicurante e in cui si estirpa di netto ogni vacillamento, qualsiasi angoscia… dovremmo opporre la possibilità di preservare le nostre fragilità.” Perché,scriveva Adorno, “la verità è sempre e senza eccezione qualcosa di eccezionalmente fragile.”