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Incontrarsi sui libri:

Giuliani, Pagliarani e le loro dediche

Federico Milone

 

1. Una «post-dedica» del 1977

Aprendo il volume Lezione di fisica e fecaloro[1] di proprietà di Alfredo Giuliani – l’edizione feltrinelliana dal particolarissimo formato alto e stretto – ci si imbatte in una lunga dedica di Elio Pagliarani:

Alfredo, vedo che le dediche ai miei libretti precedenti

scandiscono in certo qual modo

i tempi della nostra amicizia

dal formale, all’amichevole grato, al fraterno

                              ora si capisce i libri te li mandano in fretta gli editori

e questa mia post dedica recupera forse una pausa

                              nei nostri rapporti

                                                 allora

lasciamola parentetica e narrativa: con Rosso corpo lingua riprenderò la diretta

                                                

                                                 Elio

                                                 a casa tua l’1 aprile ’77

 

È una «post dedica» scritta in ritardo di quasi dieci anni sulla pubblicazione del libro e in un’occasione specifica, una visita a casa di Giuliani nel 1977 (anno dell’uscita di Rosso Corpo Lingua per la cooperativa scrittori). Durante l’incontro, Pagliarani sembra aver passato in rassegna i libri che aveva inviato al sodale novissimo, trovandosi fra le mani questo esemplare, ormai datato e privo di dedica. L’autore compone così, all’impronta, una vera e propria poesiola dall’andamento narrativo. Che si tratti di versi lo si capisce dalla disposizione a gradino, che richiama la struttura della Lezione di fisica (e più in generale la versificazione franta tipica di tanti altri suoi testi). Sulla pagina spiccano una cassatura, un’aggiunta e uno spostamento in rigo: è il segno materiale di una redazione cursoria, ma pure di una certa cura, di un’attenzione alla forma del testo. Sul contenuto invece da un lato si avverte un rimpianto per il tempo in cui i libri erano scambiati di persona, e non tramite gli editori, dall’altro Pagliarani spiega come, ripercorrendo le dediche sui suoi libri, si possa fare la storia della loro amicizia.

In questo contributo seguiremo il suggerimento e proveremo a ripercorrere, attraverso le dediche e altri documenti, inediti o editi, alcuni episodi della relazione fra i due, senza aver la pretesa di esaurire l’argomento. Ci soffermeremo in particolare su un periodo floridissimo, che si può circoscrivere fra il 1959, anno in cui il primo libro di Pagliarani trova posto negli scaffali della casa di Giuliani, e il 1964, quando i due danno insieme alle stampe l’atto unico Pelle d’asino. I due estremi sono significativi perché racchiudono un periodo in cui il loro fare poesia muta radicalmente: partendo dai modi solo marginalmente sperimentali di Cronache e altre poesie (1954) e del Cuore zoppo (1955), ci si dirige a grandi passi, attraverso l’antologia dei Novissimi e la fondazione del Gruppo 63, verso le forme più effervescenti dispiegate negli anni Sessanta,[2] ben rappresentate nell’avanguardistica pièce d’avanguardia scritta a quattro mani, Pelle d’asino, che esce proprio nel 1964.

 

2. Incontrarsi sui libri. Il tempo «formale»

Procediamo allora con ordine, e cominciamo col dire che davvero Giuliani e Pagliarani si incontrano sui libri. È quest’ultimo ad allacciare i contatti, inviando una copia di Inventario privato nel febbraio 1959 e, nel settembre dello stesso anno, Cronache e altre poesie, l’opera d’esordio pubblicata cinque anni prima. Il tono delle dediche sui volumi è molto formale e la formula adoperata è quasi identica, tanto che c’è il sospetto che si tratti di una sorta di versione standard, apposta meccanicamente sui risguardi:

 

Ad Alfredo Giuliani

con cordialissima stima

  Elio Pagliarani

Milano 3 febbraio ’59

 

Ad Alfredo Giuliani

con stima cordiale

Elio Pagliarani

Milano settembre ’59

 

A quest’altezza cronologica, per quanto si capisce dalla corrispondenza, i due non si erano ancora incontrati di persona. Il dialogo epistolare si inaugura proprio nel settembre 1959, con una lettera scritta da Giuliani subito dopo aver letto le Cronache. Pagliarani non ha conservato la missiva, ma ne resta una minuta nell’archivio di Giuliani, datata 12 settembre:[3] ringrazia per l’invio della plaquette e si scusa per non aver dato un riscontro della ricezione di Inventario. Soprattutto però si rammarica per un mancato incontro a Milano, «perduto per la strada e soffocato dalle circostanze», e spera che Balestrini gli abbia comunicato il suo dispiacere per l’occasione sprecata. Quest’ultimo indizio lascia intuire come l’innesco dei rapporti sia da ricercare all’interno della redazione del «verri»: Pagliarani, giova ricordarlo, aveva una certa consuetudine con Luciano Anceschi, che, come ricorda tradendo un certo orgoglio nei Promemoria a Liarosa, gli aveva portato di persona alla redazione dell’«Avanti!», il primo numero della rivista.[4] Passa da qui, probabilmente, la conoscenza dei giovani della redazione e in particolare di Balestrini, che ne era il factotum, e forse anche il desiderio di presentarsi a Giuliani, ai tempi responsabile della sezione di poesia.

Certo è che il parere di Giuliani sui due libri ricevuti non è del tutto positivo e le sue riserve non vengono nascoste al corrispondente. Per le Cronache si sa che c’è stata una lettura attenta, come comprovano alcuni segni di lettura, generalmente linee verticali poste accanto a versi che potevano risultare interessanti. Compare un’unica postilla, che però dice molto sulla percezione del lettore: accanto ad alcuni versi di Narcissus pseudonarcissus, scrive «eco barbarica di Hopkins». È un riferimento al poeta Gerard Manley Hopkins, che Giuliani aveva letto – come certificano alcuni segnalibri – in un’edizione in lingua originale della Oxford University Press già del 1948.[5] La nota è di rilievo perché Hopkins aveva praticato quello che lui stesso definiva uno sprung rythm, che alla metrica sillabica preferiva quella accentuativa: un carattere caro a Giuliani[6] e che forse riconosceva nel verso già tendente al narrativo di Pagliarani. Su Inventario invece il quadro è ancora più chiaro: la seconda raccolta, dai toni più intimistici, non è per nulla apprezzata. Probabilmente, la maggiore esposizione dell’io lirico e la svolta nel privato non incontravano il gusto di Giuliani; inoltre, mancano segni di lettura e la raccolta sarà trascurata al momento di scegliere, pochi mesi più tardi, le poesie da antologizzare nei Novissimi. Torniamo però alla minuta del 1959, in cui si può comunque leggere un giudizio complessivo su questo primo scorcio della storia poetica di Pagliarani:

Così, mi creda affettuosamente, io la leggo volentieri e stimo la sua serietà nel dare la parola – e mi aspetto da lei un terzo libro, e magari un quarto, completamente maturo.

Giuliani prosegue poi distinguendo due generi di poeti sulla base di un parametro molto particolare, ovvero la serietà, che secondo lui può assumere diverse forme:

Il lavoro dev’essere serio e anche, un poco, ispirato. Può capitare una serietà futile […] – oppure puoi trovarti davanti a un poeta che, fondandosi sulla serietà, dura fatica a condurla nel clima dell’ispirazione – ma quest’ultimo farà più strada, specie se nel suo programma è compresa la schiettezza contro tutti i compiacimenti. È detto troppo male, ma io penso che lei sia tra questi ultimi.

La scrittura si interrompe qui e non sappiamo se questi contenuti siano stati inclusi, e in caso affermativo in che forma, nella versione definitiva della lettera.

Comunque sia, Pagliarani replica il 29 settembre, dicendo di aver letto alla sua uscita Il cuore zoppo e di aver seguito il lavoro di Giuliani come critico del «verri».[7] Un aspetto interessante è una piccola nota sulla Ragazza Carla, di cui un frammento era uscito su «Nuova Corrente».[8] Scrive Pagliarani: «è parte di un poemetto narrativo di circa 800 versi […] che uscirà completo, spero, entro l’anno prossimo, in volume o in rivista. Il tema è Milano, più deliberatamente che altrove. C’è proprio il rischio della narrazione».

Nel complesso, si può dire che non c’è, almeno in questa prima fase, un’immediata affinità poetica e forse per questo motivo il nome di Pagliarani non compare negli elenchi preparatori di autori da coinvolgere nell’impresa dei Novissimi, nemmeno nella prima fase, quando ancora si pensava a un’antologia meno militante, che raccogliesse un novero molto più ampio di poeti.[9]

 

3. Il consolidarsi dell’amicizia. Il tempo «amichevole grato».

Le cose cambiano abbastanza repentinamente quando Giuliani ha modo di leggere la Ragazza Carla, uscita nel secondo «Menabò», nel 1960. Porta e Balestrini (quest’ultimo aveva letto in anteprima il testo completo) collaborano con il curatore Giuliani all’allestimento dei Novissimi e caldeggiano già dagli inizi di febbraio l’inclusione di Pagliarani nell’antologia, perché, scrive Porta, «sarebbe giovevole per Nanni ed io che ci fosse un terzo uomo con noi». Più di questo argomento però, a persuadere Giuliani sarà stata la forza del poemetto, che include nella silloge senza opporre nessuna resistenza e anzi preferendolo nettamente alle prove precedenti.[10] Fra i due si stabilisce quindi un contatto per la redazione delle note: fra il 20 ottobre e il 4 novembre del 1960 Pagliarani scrive due lettere, abbastanza dense di informazioni, che Giuliani riassume nell’apparato paratestuale che correda le poesie. Nel febbraio successivo riceve anche un testo critico da aggiungere in coda al libro, intitolato La sintassi e i generi, che il curatore apprezza particolarmente, tanto che scrive a Porta:

ho ricevuto il pezzo di Pagliarani che mi pare buono e, al solito, succoso. Si sente che gli piace mangiar bene e che è emiliano di Bellaria. Ho l’impressione che sia il vero, unico, rappresentante della beat padana.

C’è evidentemente un piccolo fraintendimento, nonostante la godibilità della formula. Di beat, in Pagliarani, c’è molto poco:[11] le poesie degli americani esibiscono apertamente, anche se a volte in forme polemiche, l’io poetante, mentre Pagliarani, soprattutto nelle Cronache, gioca la carta della polifonia, delegando la parola ai personaggi e comprimendo la soggettività nei limiti del corpo e della spazialità urbana (due campi semantici frequentatissimi dall’autore). In ogni caso, queste lettere sono gli ultimi documenti rilevanti della corrispondenza, che s’interrompe poco dopo, con una comunicazione in cui Pagliarani si rallegra del successo dell’impresa novissima e una cartolina di saluti del 27 agosto 1961. L’insieme delle lettere copre dunque un arco cronologico molto breve, di appena un triennio: probabilmente la vena epistolare si esaurisce anche perché, dopo il trasferimento a Roma di Pagliarani, avvenuto nel novembre del 1960, i due hanno cominciato a vedersi di persona. Dopo le iniziali diffidenze, sembra in ogni caso essere nata sotto il segno della Ragazza Carla una certa sintonia che lascia segni tangibili negli anni a venire.

Il primo, fonte d’ispirazione per la tarda dedica del 1977, è proprio l’appunto lasciato sul frontespizio dell’edizione mondadoriana del poemetto, uscita nel 1962 per Mondadori:[12]

Ad Alfredo

con fraterna amicizia e stima e la gratitudine della “Ragazza Carla” e mia

Elio

Roma 11 maggio ’62.

Di due anni più tardi è invece la dedica su Lezione di fisica,[13] all’apparenza abbastanza criptica:

Alfredo i figli del re, certo

si contentano del nostro amore

ma noi gli ridiamo sul muso

                     il tuo Elio

Roma luglio ’64

La spiegazione delle righe è comunque a portata di mano: Pagliarani risponde ad alcuni versi di una poesia di Giuliani, Altrimenti non si spiega: «Quanta fatica mi costa, ah i figli del re, si contentano / che tu li ami, che di spogli per far loro nidi perle e / galle». Il testo è parte di un gioco di omaggi intercorso fra i due e cominciato, come ha osservato Giovanna Lo Monaco, nel 1962 sul quarto numero del «verri»[14]. In questa sede il testo di Giuliani è avvicinato a un componimento di Pagliarani, Oggetti e argomenti per una disperazione, con cui costituisce un dialogo in versi. Le due poesie prendono poi direzioni diverse: prima entrano in un libretto intitolato Che cosa si può dire, in cui vengono abbinate a due litografie di Gastone Novelli e Achille Perilli; poi sono separate e confluiscono in Lezioni di fisica (1964) e Povera Juliet (1965).

 

3. I risultati degli anni Sessanta. Il tempo «fraterno».

Il 1964 però è soprattutto l’anno in cui Giuliani e Pagliarani mettono in cantiere l’impresa di Pelle d’asino, un testo teatrale – o meglio, un «grottesco per musica», come recita la copertina –, pubblicato da Vanni Scheiwiller nel formato quadrato della casa editrice all’Insegna del Pesce d’Oro, alla cui raffinatezza contribuiscono anche alcuni bellissimi disegni di Gastone Novelli. I due travestono l’omonima favola di Perrault, che affronta il tabù dell’incesto. Nell’atto unico si riprende solo la prima parte della trama: una regina sul letto di morte fa promettere al re di risposarsi solo con una donna più bella di lei. L’unica fanciulla che risponde al requisito è la figlia, la quale, su suggerimento di una fata madrina, per acconsentire chiede in cambio la preziosa pelle di un asino che ha la curiosa virtù di produrre, anziché sterco, oro. La principessa, contro le aspettative sue e della fata, ottiene la pelle, ma riesce a fuggire. La riscrittura segue lo stesso canovaccio, abbondando però nel turpiloquio e mescidando l’ambientazione favolistica al tempo presente: a corte compaiono un presidente, un ministro delle finanze e messaggeri che alla morte dell’asino proclamano il crack economico, fatto di scioperi dei trasporti, crolli di borsa, rivolte dei minatori. L’attualizzazione, come ha notato Gianluca Rizzo, tocca anche i simboli profondi dell’opera: «Le funzioni economiche dello stato vengono descritte metaforicamente come fossero l’apparato digerente di un organismo. […] in molti altri passi abbondano riferimenti alla cultura di massa e al consumismo che non appartengono assolutamente all’ambientazione della favola».[15]

Nel fondo d’autore è conservato anche un secondo atto, rimasto per molti anni sconosciuto. Il testo è trasmesso da due fascicoli: il primo è costituito da diciotto pagine in parte manoscritte e in parte dattiloscritte, con interventi autografi di entrambi gli autori. Il secondo invece è un dattiloscritto sostanzialmente in pulito, con poche correzioni marginali. Questo secondo atto perde, specie nel finale, ogni contatto con l’ipotesto di Perrault e, fra lezioni di anatomia femminile, psicanalisi freudiana e chiacchiera pseudomondana si arriva, anziché al lieto fine, a una conclusione tragica, con la morte della principessa. Manca, nota ancora Rizzo, la morale edificante e al suo posto ricompare la fata madrina, che dice «Il guaio dell’asino morto è che ci vuole l’interpretazione» (e aggiungeva, in due righe poi cancellate: «Ma non ci attaccheranno una pezza»).

Per quanto riguardo il nostro discorso, le carte – soprattutto quelle del primo fascicolo – raccontano nella loro materialità come hanno lavorato Pagliarani e Giuliani. La maggior parte del testo manoscritto è vergato nella grafia più limpida di Pagliarani, mentre le parti dattiloscritte hanno un aspetto simile ad altri testi del periodo battuti a macchina da Giuliani e portano in effetti correzioni autografe riconducibili alla sua mano. Di particolare rilievo è la carta numerata 6, che trasmette la Ballata delle lacrime, un duetto fra un principe e un segretario sulla bontà delle lacrime delle fanciulle, il vero «liquido d’amore». Vediamola più da vicino: la prima parte è di mano di Pagliarani, che redige i versi dapprima adottando un registro alto («Ci son gocce negli stagni / come perle dentro il mare»), poi sterzando drasticamente verso il grottesco («ci son fonti di cristallo / e sudor di donne rare». Nel margine destro Giuliani traccia rapidamente l’indicazione di scena «duetto», poi prosegue la stesura, scrivendo l’assolo del principe in uno stile più colloquiale, che sembra quasi far da contrappunto a quanto precede («Io le donne le faccio piangere / e poi gli bevo le lacrime»; «non con il whisky / non col calvados / io mi sbronzo di lacrime»). Infine nelle ultime righe le due mani sembrano mescolarsi, come mostra l’alternarsi di alcune note per la regia. Questa pagina, con il suo intreccio e accavallarsi di grafie, dimostra materialmente come gli autori abbiano lavorato insieme, alternandosi nella scrittura e verosimilmente senza essersi divisi preliminarmente il lavoro: una vera opera a quattro mani insomma, in cui a volte si fatica a riconoscere il timbro dell’uno o dell’altro.

 

4. Un episodio conclusivo. Tempo di bilanci

Pelle d’asino è davvero un’impresa a cui i due restano legati nel tempo. Ancora nel 1993 (dunque a distanza di quasi trent’anni) Giuliani ricorda la pièce, invitando l’amico, sulla prima pagina del volume Ebbrezza di placamenti, a non «smemorare l’ilarità»:

Al carissimo Elio, augurandoci letizie da Pelle d'asino, mica è il caso di smemorare l’ilarità (con stile si sa) Alfredo

In ogni caso, dopo la fine del Gruppo 63 e di «Quindici», le testimonianze d’archivio si fanno, almeno fino alla «post dedica» del 1977, più rade. Anche dopo questa data e la promessa di una rinnovata assiduità nei rapporti, le dediche restano comunque piuttosto scarne. È brevissima quella sugli Esercizi platonici:[16]

Ad Alfredo

con l’affetto la stima e l’amicizia di sempre

il suo Elio

Roma maggio ’85

E altrettanto stringata è quella degli Epigrammi ferraresi. In questo caso tuttavia non conta tanto la dedica, abbastanza neutra («Caro Alfredo con affetto e ammirazione (che aumentano col passare degli anni) e tanti auguri per l’anno nuovo a te e ai tuoi cari / Elio dic. ’87»), quanto una curiosa correzione che lo stesso Pagliarani fa sul risvolto di copertina. È infatti cassata una frase, che avvicinava i suoi testi a quelli dell’ultimo Sereni e alla linea politica di Fortini, mentre è aggiunta a mano la postilla: «? No! casomai è vero l’opposto».

Da ultimo ci sono le dediche apposte su due opere che hanno il sapore del bilancio, benché non siano le ultime degli autori: Versi e nonversi di Giuliani, in cui è radunata e sistematizzata nel 1986 la produzione poetica di oltre trent’anni, e La ballata di Rudi, esito di un decennale percorso ideativo. Quasi come in un gioco di simmetrie, il tono usato dai due è speculare. Giuliani esercita l’ironia e correda il frontespizio di un mottetto (si noti il gioco: il breve componimento poetico non è quanto segue i due punti, ma tutta la dedica, come ci segnala rima mottetto : fazzoletto): «Caro Elio, ti dedico il libro con un mottetto: non ti verranno a noia le mie opere complete, staremo in un fazzoletto / il tuo Alfredo / Maggio 1986». Al contrario, Pagliarani è abbastanza laconico e rinvia ai tempi romani:

Caro Alfredo

che devo dire? trent’anni di vita? ricordiamo che l’ho scritto tutto a Roma

Grazie

                                     Elio

Il rimando a Roma forse non è da intendersi solo come un ricordo. Proprio alla Ballata infatti si lega un’ultima scoperta d’archivio, che permette di vedere ancora una volta come il sodalizio fra i due abbia avuto un riflesso in sede di composizione. Fra i molti testi altrui conservati da Giuliani ci sono infatti due dattiloscritti con correzioni di mano di Pagliarani, intitolati rispettivamente Del tassista clandestino e Dalla “Ballata di Rudi”. (III) Del tassista clandestino.[17] Trasmettono un insieme corposo di versi, corrispondente alle sezioni XI-XVII della versione a stampa della Ballata, dedicati al tassista Armando. Rimando a un’altra occasione l’analisi dei due fascicoli, che esula da questo contributo e va inquadrata nella più ampia vicenda compositiva del poemetto.[18] Basti per ora notare come gli autografi siano ancora in lavorazione, con molte correzioni e differenze vistose rispetto alla stampa: una diversa partizione dei versi, la sostituzione puntuale di alcuni volgarismi o dialettalismi; un gusto più marcato per filastrocche e giochi di parole; l’inserimento, accanto ai versi, dei nomi dei personaggi che li pronunciano – un’allusione forse all’originale progetto di radiodramma, o più in generale alla natura di «poesia da recita» –.[19] Quello che conta è che, in un momento imprecisato, Giuliani ha avuto fra le mani una versione di lavoro della Ballata, forse per una pubblicazione, forse soltanto per dare un parere. È la prova di un altro incontro, avvenuto questa volta non direttamente su un libro, ma nella sua filigrana, nei versi ancora in fase di elaborazione.

 

* Si ringraziano Cetta Petrollo e la fondazione Elio Pagliarani per aver messo a disposizione l’elenco delle dediche apposte sui libri di Elio Pagliarani.

 

[1] E. PAGLIARANI, Lezione di fisica e fecaloro, Milano, Feltrinelli, 1968. Questo e gli altri volumi della biblioteca di Giuliani sono conservati presso il Centro Manoscritti di Pavia, insieme all’archivio dell’autore.

[2] Non si scambi tuttavia il cambiamento formale con una cesura troppo netta, perché già le prime opere presentano fattori di novità rispetto al panorama poetico coevo. Anche usando una certa cautela per non forzare la mano e leggere negli esordi i semi dei risultati futuri, le traiettorie di Giuliani e Pagliarani presentano una forte coerenza, basti pensare alla narratività e alla plurivocità, caratteri distintivi di Pagliarani, che informano già le Cronache. Su questo tema e più in generale sullo sviluppo in diacronia della poesia dei Novissimi la bibliografia è molto ampia. Rimando qui, per un bilancio, al recente F. CURI, La modernità letteraria e la poesia italiana d’avanguardia. Cultura, Poetiche, Tecniche, Milano, Mimesis, 2019 e relativa bibliografia; altri testi specifici sui due saranno citati più avanti nel testo, pur senza pretesa di esaustività.

[3] La lettera è conservata nel fondo Giuliani, con segnatura GIU-08-803.

[4] E. PAGLIARANI, Pro-memoria a Liarosa (1979-2009), Venezia, Marsilio, 2011, p. 248.

[5] G.M. HOPKINS, Poems, preface and notes by R. BRIDGES, enlarged and edited with notes and a biographical introduction by W.H. GARDNER, London, Oxford University Press, 1948.

[6] La metrica è un tema caldo per Giuliani sul finire degli anni Sessanta: di lì a poco uscirà sul «verri» la sua traduzione del saggio di Olson sul verso proiettivo (Il verso secondo l’orecchio, «il verri», V, 1961, n. 1, pp. 63-66)

[7] Nonostante questa affermazione, Giuliani gli invia nel 1961 una copia del Cuore zoppo, con una dedica molto scarna: «A Elio Pagliarani con affetto».

[8] La prima apparizione della Ragazza Carla è sui Documenti d’Arte d’Oggi, l’annuario del Movimento d’Arte Concreta (MAC) nel 1958 (Documenti d’arte d’oggi, raccolti a cura del MAC, GROUPE ESPACE sezione italiana, Milano 1958, p. 140). Altri versi del poemetto appariranno solo l’anno successivo, con titolo Fondamento del diritto delle genti su «il verri», III, 1959, n. 1, pp. 71-73; poi sotto l’etichetta Progetti per la ragazza Carla in «Nuova Corrente», 1959, n. 14, pp. 45-48.

[9] Cfr. Queste e non altre. Lettere e carte inedite, a cura di FEDERICO MILONE, Pisa, Pacini, 2016, pp. 12-18.

[10] Ivi, pp. 46-49.

[11] Di questo avviso è Luigi Ballerini, in Per una nuova edizione dei «Novissimi», «Autografo», 2013, n. 50, pp. 11-37: 37.

[12] Singolarmente, questa dedica è quasi identica a quella ricevuta da Franco Fortini, per cui cfr. l’intervento di Fabrizio Miliucci in questo stesso volume.

[13] Si tratta dell’edizione all’Insegna del Pesce d’Oro, in cui, rispetto a quella del 1968, manca Fecaloro.

[14] G. Lo Monaco, Tra figure, segni e parole: Achille Perilli, Gastone Novelli e il Gruppo 63, «Arabeschi», 2020, n. 15, pp. 114-125.

[15] G. RIZZO, Il guaio dell’asino morto è che ci vuole l’interpretazione. Giuliani, Pagliarani e le riscritture di Perrault, «Autografo», 50, 2013, pp. 141-163: 145. Sull’opera si veda anche Id., Poetry on stage. The Theatre of the italian neo-avant-garde, Toronto, University of Toronto Press, 2020, pp. 119-120; 257-259; per il rapporto con Gastone Novelli, cfr. da ultimo M. PREVITI, Il Gruppo N e i Novissimi: poesia esposta e teatro d’avanguardia a Padova, «rossocorpolingua», V, 2022, n. 3, pp. 9-26.

[16] Il libro sembra esser piaciuto a Giuliani, che ne fa un’attenta recensione su «la Repubblica», dove nota come si tratti di un di montaggio, in cui Pagliarani inserisce di suo soltanto «tre parolette in altrettante poesie: oro, re, ora (le prime due con calcolato arbitrio)» formando un libro «consigliabile ai lettori lievemente pensosi in cerca di poesie illese da simbolismi privati» (A. GIULIANI, Il dono di Platone, «la Repubblica», 30 luglio 1985).

[17] L’unità ha segnatura GIU-09-274. Giuliani conserva anche alcune carte manoscritte con il Dittico di Fecaloro, identiche alla stampa, nell’unità GIU-09-273.

[18] Sugli aspetti filologici inerenti alla Ballata cfr. almeno M. MARRUCCI, Un quaderno per due: nel laboratorio della «Ballata di Rudi», «rossocorpolingua», I, 2018, n. 1, pp. 2-9; EAD., Dal laboratorio della «Ballata di Rudi»: l’invenzione della signora Camilla, «rossocorpolingua», I, 2018, n. 3, pp. 5-12.

[19] Sulla dialogicità, rilevata da molti critici, si vedano almeno A. CORTELLESSA, La parola che balla, in E. PAGLIARANI, Tutte le poesie (1946-2005), Milano, Garzanti, 2006, pp. 41 segg.