Letteratura e cultura della crisi: la coscienza ambientale in Italo Calvino
Beatrice Mastrangeli
ABSTRACT
Questo saggio intende proporre una rilettura di alcuni scritti di Italo Calvino in chiave “ecologica”, mettendo in evidenza la parabola intellettuale e artistica tracciata dall’autore sul tema dell’abitare e sul rapporto tra soggettività e mondo. Il rifiuto progressivo di criteri conoscitivi arbitrari, riduzionistici e schematici consente a Calvino di sviluppare una riflessione sull’ambiente secondo principi d’interdipendenza e complementarità. La natura, dunque, si trasforma in luogo di esercizio morale in cui i soggetti umani e non umani tentano di ristabilire il proprio universo di significati, di ristabilire un rapporto di verità col mondo circostante. La degradazione delle varie forme di linguaggio, le immagini mute offerte dal sapere scientifico e la perdita di un solido nucleo di certezza, si traducono in una condizione di estraneità ineludibile propria dell’uomo meccanizzato e reificato. Attraverso la creazione di personaggi ibridi, outsider, esiliati e alienati che popolano un universo votato all’entropia, Calvino dà forma letteraria alla propria cultura della crisi. Sul piano stilistico-retorico, l’impiego dell’ironia, dello straniamento anti-antropocentrico e della parodia diventa così strumento di contestazione radicale del linguaggio e degli schemi cognitivi a esso sottesi. La parola, strumento tradizionale di potere e umanizzazione dell’universo, è così riadattata alle esigenze della creatività fantastica e si carica di valore educativo e demistificante. La dimensione ecologica in Calvino, pertanto, si istituisce proprio sull’incontro tra ragione poetico-figurativa e ragione etico-politica che garantiscono l’uso strumentale della letteratura ai fini di quella che l’autore stesso definisce «educazione al pessimismo».
This essay intends to propose a reinterpretation of some Italo Calvino’s works from an “ecological” point of view, highlighting the intellectual and artistic path of the author about the topic of living and the relationship between subjectivity and world. The progressive refusal of cognitive parameters, that are objective, reductionist and schematic, enables Calvino to develop a reflection on the environment based on principles of complementarity and interdependence. Nature becomes a place of moral exercise where human and non-human subjects try to restore their own semiotic universe, to restore a relationship with the surrounding environment. The corruption of the different forms of languages, the silent pictures given by the scientific knowledge and the loss of a solid core of certainty, result in a condition of strangeness typical of the modern mankind, reified and mechanized. Calvino creates characters that have often a hybrid nature, outsiders, exiled and alienated whom populate a universe ruled by entropy; they shape the author’s culture of crisis. On the rhetorical plan, the use of the irony, the anti-anthropocentric estrangement and the parody becomes a strategy of radical protest against the language and the traditional cognitive schemata.
The word, as a usual instrument of power and humanization of cosmos, is readapted by the fantastic creativity and it assumes an ethical and a demystifying value. The ecological dimension in Calvino, therefore, arises from the meeting between the poetic and figurative reason and the ethical and political one, that ensure the use of literature for the Calvino’s «education to pessimism».
KEYWORD
Ecocritica, Italo Calvino, ecologia.
Ecocritics, Italo Calvino, ecology.
INTRODUZIONE
«Questo è il mio habitat, – pensa Palomar, – che non è questione d’accettare o d’escludere, perché solo qua in mezzo posso esistere». Ma se la sorte della vita sulla terra fosse già segnata? Se la corse verso la morte diventasse più forte d’ogni possibilità di recupero?
L’ondata scorre, cavallone solitario, fino a che non s’abbatte sulla riva; dove sembrava esserci soltanto arena, ghiaia, alghe e minutissimi gusci di conchiglie, il ritrarsi dell’acqua ora rivela un lembo di spiaggia costellato di barattoli, noccioli, preservativi, pesci morti, bottiglie di plastica, zoccoli rotti, siringhe, rami neri di morchia. (La spada nel sole)1
Alla luce del crescente dibattito degli ultimi anni sui temi della sostenibilità ambientale e della crisi ecologica, le riflessioni calviniane appaiono straordinariamente attuali e premonitrici. L’uomo «relitto tra i relitti» restituisce un’immagine di desolazione e degrado estetico, per cui ogni cosa sopravvive come scarto, come forma dismessa. Una visione negativa, incarnata dalla città di Leonia nelle Città invisibili, che impedisce ai soggetti calviniani di integrarsi con l’ambiente e con un cosmo «sempre più refrattario all’immagine e alla parola».2
L’ambiente, dal latino ambiens, -entis letteralmente ciò che circonda, pertanto, si trasforma in una zona di conflitto, esterna all’uomo e ostile, in cui la natura non è più depositaria di un valore ideale, ma si offre come forza antitetica o corpo morto, oggettivato e spossessato di un proprio valore intrinseco. E, tuttavia, Calvino edifica la propria attività artistica e intellettuale in funzione di una coscienza “ecologica” che consenta di restituire una visione organica della realtà, come dimensione relazionale complessa e spazio denso di significato. Da tale postulato nasce lo sforzo costante, nell’autore, di elaborare una rappresentazione della natura sistemica del mondo secondo i principi d’interdipendenza e complementarità, che metta sotto scacco ogni tentativo di stabilire in modo definitivo e oggettivo il confine tra soggettività e oggettività, tra natura e cultura, tra identità e alterità. Come già affermava nel 1967 sul «Corriere della Sera»:
Le notizie di nuovi lanci spaziali sono episodi d’una lotta di supremazia terrestre e come tali interessano solo la storia dei modi sbagliati con cui ancora i governi e gli stati maggiori pretendono di decidere le sorti del mondo passando sopra la testa dei popoli. Quel che m’interessa invece è tutto ciò che è appropriazione vera dello spazio e degli oggetti celesti, cioè conoscenza: uscita dal nostro quadro limitato e certamente ingannevole, definizione d’un rapporto tra noi e l’universo extraumano. La luna, fin dall’antichità, ha significato per gli uomini questo desiderio, e la devozione lunare dei poeti così si spiega. Ma la luna dei poeti ha qualcosa a che vedere con le immagini lattiginose e bucherellate che i razzi trasmettono? Forse non ancora; ma il fatto che siamo obbligati a ripensare la luna in un modo nuovo ci porterà a ripensare in un modo nuovo tante cose. (Il rapporto con la luna)3
Da ciò si deduce il rapporto necessario che, per lo scrittore, intercorre tra dato naturale e culturale, elementi tra loro complementari e permeabili, e che ne determina l’implicita condanna del classico schema oppositivo natura-cultura a favore di una lettura “archeologica” e “museale” del mondo. Significativa è la riflessione del signor Palomar che, davanti alle prelibatezze assiepate in una charcuterie parigina, rievoca gli stretti rapporti tra lo sviluppo della nostra società e l’ambiente circostante fino a scorgere in filigrana in ogni nome di un formaggio «un pascolo d’un diverso verde sotto un diverso cielo»4.
La letteratura si offre come terreno ideale di analisi e riscoperta dell’universo relazionale in cui le diverse forme di soggettività, umana e non-umana, agiscono ed elaborano la propria rappresentazione del mondo. Un ruolo, quello giocato dall’opera letteraria, ribadito a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, dalle Environmental Humanities, le scienze umane ambientali. Accanto alle risposte offerte dagli studi tecnico-scientifici, infatti, si consolida sempre più la consapevolezza dell’esistenza di una dimensione profondamente culturale della crisi ambientale.5
VERSO UNA COSCIENZA AMBIENTALE
Calvino, nel corso della sua intera attività artistica e intellettuale, articola la propria riflessione sull’ambiente includendo più piani parallelamente: da quello lirico, a quello etico-politico, a quello storico-culturale e stilistico-formale. Ne deriva una intensa ricerca e una costante inquietudine stilistica volta alla ricerca d’una rappresentazione letteraria della realtà che sia «vivente come un organismo».
Particolare rilevanza è assunta, nel serbatoio di immagini liriche e autobiografiche da cui attinge l’autore, da quelle giovanili della Riviera ligure. Esse trovano felice espressione in un’opera come Il Barone rampante (1957), in cui la macchia mediterranea di Ombrosa si trasforma per il protagonista, che decide di vivere sugli alberi, in luogo privilegiato di esercizio morale e civile, da cui egli trae il suo sogno utopico di una Repubblica in difesa dei «Diritti degli Uomini, delle Donne, dei Bambini, degli Animali Domestici e Selvatici, compresi Uccelli Pesci e Insetti, e delle Piante sia d’Alto Fusto sia Ortaggi ed Erbe». E, tuttavia, già nel finale del Barone il rigoglio della natura ligure è segnato irrimediabilmente dall’attività umana: gli spazi naturali dell’infanzia si contraggono progressivamente, fino a scomparire del tutto sotto le colate di cemento nella Speculazione edilizia (1957), in cui la crisi ambientale si mostra come il corrispettivo di una degradazione morale nella società contemporanea all’autore.
L’inquinamento stesso, in Calvino, si trasforma in elemento caratterizzante ed evocativo, a simboleggiare uno scenario generale d’impoverimento e di rovina che sradica i soggetti dal proprio ambiente “naturale”. I prodotti dell’attività umana provocano la distruzione di ecosistemi e depauperano le risorse naturali obbligando popoli e specie animali a migrazioni forzate in cerca di ambienti più ospitali e negando loro una pienezza di vita. Tanto che, nella Nuvola di smog (1958), l’inquinamento arriva ad assumere le proporzioni di una profezia apocalittica, trasformandosi nello spettro della minaccia atomica. Un parallelismo, quello tra inquinamento e catastrofe ambientale e sociale, che la sensibilità di Calvino coglie già a fronte dei primi dibattiti sui limiti dello sviluppo umano. Un’apprensione che, oggi, trova fondamento nella stessa scienza, che ha ormai suffragato la teoria secondo la quale l’impatto dell’attività umana, a partire dalla Rivoluzione industriale, è tale da incidere maggiormente di qualsiasi altra forza naturale. Da tale assunto, nel Duemila, i due chimici dell’atmosfera Paul Crutzen e Eugene Stoermer hanno coniato il termine, per definire l’era geologica in corso, di Antropocene, mettendo in evidenza come i cambiamenti ambientali e la perdita di biodiversità abbiano cause principalmente antropogeniche.
La preoccupazione verso i limiti dello sviluppo tecnologico e demografico e lo scetticismo verso le capacità umane di amministrare responsabilmente le risorse naturali è esplicitata da Calvino già nella seconda metà degli anni Cinquanta:
[…] che si possa andare avanti nell’esplorazione extraterrestre con astronavi sempre più perfezionate, ormai è dato per scontato. Ma oggi siamo costretti a chiederci cosa ci vale una così raffinata intelligenza teorica e pratica, quando nessuno sa nemmeno da che parte cominciare nel fronteggiare i tanti problemi concatenati che incombono a breve scadenza: crescita demografica, crisi alimentare, disuguaglianza delle ricchezze e delle capacità produttive tra le varie parti del mondo. Già cinque anni dopo la conquista della luna, la crisi del petrolio imponeva al mondo la coscienza di quanto sono fragili e squilibrate le basi del suo sviluppo economico e tecnologico. (Il tramonto della luna)6
Negli anni Settanta l’attenzione dell’autore – nel racconto La pompa di benzina (1974) scritta in occasione dello “shock petrolifero” del 1973 e, poi, nel Richiamo dell’acqua (1976) a seguito della siccità che colpì il Nord Europa – torna a rivolgersi verso i moniti della natura, finendosi col chiedere se «l’abbondanza in cui ho diguazzato fino a oggi sia precaria e illusoria»7.
È significativo che la superficie terrestre diventi un luogo abitato da extraterrestri e dagli scarti espulsi dalle viscere della terra nel racconto L’altra Euridice (1980). La crosta del Pianeta si mostra come rovescio invivibile e cacofonico di un mondo sotterraneo ancora depositario di armonia e bellezza. E così Euridice, rincorrendo Orfeo, finisce col perdersi nella «corazza del rumore», che soffoca ogni canto, ogni immagine lirico-poetica di bellezza.
Si tratta della stessa bellezza negata a Marcovaldo dal mondo della fabbrica e della realtà urbana, che porta il protagonista a rincorrere un idillio campestre e pastorale che, sistematicamente, si traduce in frustrazione. Nel racconto Un viaggio con le mucche il sogno bucolico, che idealizza il rapporto tra uomo e natura, è definitivamente infranto e reso oggetto di ironia da parte dell’autore. La favoleggiata villeggiatura di Michelino «all'ombra d’un abete, zufolando con una foglia d'erba in bocca, guardando giù le mucche muoversi lente per il prato, e ascoltando nell'ombra della valle un fruscio d'acque» si rivela un duro apprendistato, fatto di lavoro sottopagato e ore frenetiche tra mungitori e bidoni. Una critica che include anche il mito della natura incontaminata e primigenia tipico del pensiero settecentesco, caratterizzato dal «senso e bisogno d’un mondo pre-umano e autonomo, materiato d’altre bellezze e altre ragioni che le nostre»8. Quello dell’uomo per la natura vergine e incontaminata, ovvero una natura senza uomo, è un amore che paradossalmente nasconde un’ideologia di potere, sottesa al concetto di wilderness e di conquista delle “terre selvagge”.
Esiste davvero una «natura originaria», «non toccata dall'uomo»? Non è, questa, una formula che ricalca la separazione predarwiniana tra umanità e ambiente? E soprattutto: non si tratta, piuttosto, di un'idea legata a una precisa tradizione, che è quella del dominio umano sulla natura e, quindi, dell'espansione colonialistica? È questo il parere di molti pensatori, che hanno giudicato l'«idea tradizionale di wilderness» […] come un concetto profondamente ideologico. È l'ideologia sottesa alla conquista di una nuova realtà geografica che, benché già antropizzata, viene subito considerata una terra nullius.9
Nella raccolta Marcovaldo (1963) il rapporto sintonico con l’ambiente naturale risulta, quindi, irrimediabilmente irrealizzabile. Nella città industriale la natura si rivela «dispettosa, contraffatta, compromessa con la vita artificiale», essa sopravvive solo in un confino doloroso, in cui lotta per contendersi gli spazi vitali rimasti. Tanto che «tutti in queste novelle sembrano «immigrati» in un mondo estraneo dal quale non si può fuggire»10.
Solo il mondo dell’infanzia sembra ancora capace di sintonia con il mondo naturale. In Un pomeriggio, Adamo (1947) il giovane Libereso incarna questa felice consonanza, che fa sì che egli si muova in un giardino edenico in cui gli animali e le piante si mostrano innocue e docili nelle sue mani. Tuttavia, nel racconto Pesci grossi, pesci piccoli (1950) riemerge tutta l’incapacità di comprensione tra uomo e natura. Il giovane Zeffirino, amante di caccia subacquea, mostra un rapporto con la natura ambiguo, fatto di estasiata contemplazione e al contempo violenza: per il ragazzo la caccia è, come per il padre di Calvino nella Strada di San Giovanni (1962), un modo per conoscere il mondo naturale, confrontarsi con esso secondo le sue stesse regole e i suoi stessi principi. Si tratta di un’ambivalenza che si riaffaccia anche nei racconti di Marcovaldo. Slancio amoroso e visione strumentale della natura si alternano, ad esempio, in Funghi in città, per cui «quella scoperta che gli aveva riempito il cuore d’amore universale, ora gli metteva la smania del possesso, lo circondava di timore geloso e diffidente»11. Un’antitesi presente anche nella novella Il coniglio velenoso in cui «l’occhio amoroso dell’allevatore […] riesce a far coesistere la bontà verso l’animale e la previsione dell’arrosto nello stesso moto dell’animo»12.
Ma, la natura rivela anche una sofferenza “umana”, per cui la signorina De Magistris scrutando i corpi dei pesci scorge il suo stesso dolore:
La donna restò col pesce. E scoperse che non v’era mai stato pesce più infelice. Ora lei passava le dita sulla bocca ad anello, sulle branchie, sulla coda; ecco vedeva aprirsi, nel bel corpo d’argento, mille fori minutissimi. Pulci acquatiche, minuscoli parassiti dei pesci, s’erano da tempo impadronite del lupaccio e rodevano le loro vie nella sua carne.13
Ironicamente, mentre accarezza amorevolmente le ventose di un polpo, la donna viene afferrata da un tentacolo alla gola e salvata dal padre di Zeffirino che, dopo aver ucciso cruentemente l’animale, lo regala alla donna per friggerlo. Calvino mette in luce un’incomprensione e una solitudine che colpisce tanto uomini che mondo animale e vegetale. Ma, la natura, nell’autore, è anche forza morale che oppone la propria resistenza silenziosa all’esercizio sfrenato della volontà umana. Per cui, in Marcovaldo, un coniglio reso cavia in un laboratorio manifesta il proposito di suicidarsi, opponendo, così, uno stoico rifiuto agli uomini che tentano di catturarlo:
Comprese: era una dichiarazione di guerra; ormai ogni rapporto con gli uomini era rotto. E in dispregio a loro, a questa che in qualche modo sentiva come una sorda ingratitudine, decise di farla finita con la vita. […] E finì tra le mani guantate d’un pompiere, issato in cima a una scala portatile. Impedito fin in quell’estremo gesto di dignità animale, il coniglio venne caricato sull’ambulanza che partì in gran carriera verso l’ospedale. 14
Nel Giardino dei gatti ostinati sono, invece, dei felini domestici, che sopravvivono in un ultimo spazio verde sottratto alla realtà urbana, a rendersi protagonisti di una sorta di guerriglia urbana:
A primavera, al posto del giardino un'impresa di costruzioni aveva impiantato un gran cantiere. Le scavatrici erano scese a gran profondità per far posto alle fondamenta, il cemento colava nelle armature di ferro, un'altissima gru porgeva sbarre agli operai che costruivano le incastellature. Ma come si faceva a lavorare? I gatti passeggiavano su tutte le impalcature, facevano cadere mattoni e secchi di calcina, s’azzuffavano in mezzo ai mucchi di sabbia. Quando s’andava per innalzare un’armatura si trovava un gatto appollaiato in cima che sbuffava inferocito. Mici più sornioni s’ arrampicavano sulle spalle dei muratori con l'aria di voler fare le fusa e non c'era verso di scacciarli. E gli uccelli continuavano a fare il nido in tutti i tralicci, il casotto della gru sembrava una voliera… E non si poteva prendere un secchio d'acqua senza trovarlo pieno di ranocchi che gracidavano e saltavano…15
Un’estraneità tra uomo e mondo, che, nella dimensione autobiografica, trova corrispondenza nel doloroso legame tra l’autore e suo padre, ripercorso nella Strada:
Cos’era la natura? Erbe piante, luoghi verdi, animali. Ci vivevo in mezzo e volevo essere altrove. Di fronte alla natura restavo indifferente, riservato, a tratti ostile. E non sapevo che stavo anch'io cercando un rapporto, forse più fortunato di quello di mio padre, un rapporto che sarebbe stata la letteratura a darmi, restituendo significato a tutto ed un tratto ogni cosa sarebbe divenuta vera e tangibile e possedibile e perfetta, ogni cosa di quel mondo ormai perduto. (La strada di San Giovanni)16
L’impossibilità di ogni armonia con l’ambiente, si traduce visivamente nel paesaggio nero e pulviscolare della realtà urbana, privo di ogni bellezza e armonia; l’immagine della città industriale si fa carico, nell’opera calviniana, di una istanza che è al tempo stesso sia estetica che etica e culturale.
Per i protagonisti dell’universo calviniano l’immagine sopravvive solo come supporto fisico rassicurante, a cui aggrapparsi per non naufragare nel «pessimismo della ragione» o nell’incomprensione della realtà. Per cui, al protagonista della Nuvola, l’unico modo rimasto per fuggire dal proprio disadattamento e dallo smog sarà «riempirsi gli occhi» delle immagini bianche e candide di un villaggio di lavandaie.
Scavare nell’immagine diventa per il signor Palomar l’ultimo tentativo di adattamento e di comprensione di un mondo sempre più irriducibile all’uomo, ma il suo ultimo tentativo di liberarsi dal doloroso ingombro della soggettività lo porterà alla morte, facendo fallire i suoi propositi.
La dilatazione dell’orizzonte umano, prodotto dallo sviluppo tecnologico, apre lo sguardo verso una dimensione cosmica che amplifica il senso di spaesamento, alienazione ed estraneità. Si consuma, così, anche la irrimediabile frattura tra l’uomo mitico e l’uomo moderno. Se, infatti, il mito antico rappresenta quel limite imposto all’uomo tra volontà e necessità, al fine di preservare l’armonia cosmica, il mito moderno dello sviluppo si dispiega senza più alcun rispetto per l’ordine sancito dagli dèi. Il simbolo mitico, pertanto, non veicola più quella «conoscenza precisa della realtà fisica, e la conoscenza del suo impero su di noi, necessario e ineluttabile»17, ma si offre come immagine svuotata di significato, il cui senso è ormai inaccessibile. In Serpenti e teschi il signor Palomar, durante una visita in Messico delle rovine di Tula, osservando gli antichi bassorilievi toltechi riflette a tal proposito:
Una pietra, una figura, un segno, una parola che ci arrivano isolati dal loro contesto sono solo quella pietra, quella figura, quel segno o parola: possiamo tentare di definirli, di descriverli in quanto tali, e basta; se oltre la faccia che presentano a noi essi anche hanno una faccia nascosta, a noi non è dato di saperlo. (Serpenti e teschi)18
Alle immagini della natura, tipiche del linguaggio mitologico, si sostituiscono le immagini fornite dalle nuove tecnologie, lette e tradotte nel linguaggio scientifico.
Ma è già a partire dalla trasformazione industriale e urbana della società, dominata dalle leggi del progresso tecnico ed economico, che si è andata consolidando una irriducibile frattura tra uomo “naturale” e uomo “artificiale”, reificato e meccanizzato. Quest’incomprensione tra società rurale e urbana emerge precocemente nel racconto I giovani del Po (1958), attraverso il rapporto tra il giovane Nanin e Nino, l’amico emigrato a Torino:
Avevano deciso che la vera vita è quando ci si tiene vicini al mare, al bosco, agli animali selvatici e ai cani da caccia; solo così si ha il senso di quello che è giusto e di quello che è sbagliato; se non tutto diventa storto e falso e non si capiscono più le proporzioni. Poi avevano visto passare gli anni, succedere tante cose, la guerra cominciare e finire, e Nino ci pensava sopra e ogni giorno aveva un’idea nuova e discuteva con l’amico finché non era riuscito bene a spiegarsela e a spiegargliela. Nanin era restato delle vecchie idee: andava una volta per polpi e era contento; ma Nino era cambiato e non ci si si ritrovava più. Aveva capito che tutto al mondo dipende dai posti dove si è più avanti a lavorare, dalle città con le grandi fabbriche; il giusto e lo sbagliato si potevano capire solo mettendo le radici là; il senso delle proporzioni lui era sicuro di non sapere neanche cosa fosse, finché restava rintanato in un paesotto come il suo.19
Tuttavia, natura e cultura, nell’ottica calviniana, restano entità strettamente interrelate e costituiscono un unico habitat umano da cui dipende la vita della specie e che ne determina l’esperienza del mondo. Una prerogativa, tuttavia, non solamente umana: anche il mondo naturale è depositario di una propria “cultura”, di una capacità interpretativa e di un linguaggio che a noi risulta incomprensibile. Animali, umani e non-umani, e vegetali, sono immersi in un ambiente semiotico: per cui essi non solo sono in grado di comunicare tra loro, ma producono e interpretano segni che veicolano le informazioni necessarie alla loro sopravvivenza e a quella dell’ecosistema in cui si trovano. Lo sviluppo della biosemiotica, a partire dagli anni Novanta del Novecento, rivolge lo sguardo in questa direzione, arrivando ad affermare la convergenza tra natura e cultura e riconoscendo una sorta di “linguaggio biologico” in cui segni, significati e codici sono determinati dalla biologia.
SPAZI CONTESI E FORME DELL’ESILIO
La perdita dell’oikos, della “casa”, lungi dall’essere solo una perdita materiale, si concretizza nell’incapacità di stabilire rapporti di significato con la realtà circostante. Questa perdita della dimensione sistemica della realtà fa sì che l’universo calviniano sia popolato da outcast ed esiliati, espressione di una alterità che ne determina la condizione di isolamento e solitudine. La loro condizione di “diversi” fa di loro esseri alieni o mostruosi, combattuti e avversati.
Nella Formica argentina l’invasione di questa specie aliena rappresenta una minaccia verso la quale viene messa in atto una vera e propria lotta per il suo sterminio. Tuttavia, la straniera Linepitema Humilis, comunemente detta formica argentina, è una delle molte specie deportate dai propri territori originari, come conseguenza dei traffici e commerci coloniali. Questa specie alloctona, infatti, che calamitò realmente la Riviera ligure all’inizio del Novecento, fu introdotta attraverso le merci importate in Italia dall’America centrale e meridionale. Nella Formica Calvino mette in scena il paradossale conflitto tra una famiglia di immigrati e le schiere d’insetti alieni nella difesa dei propri spazi vitali, sebbene esse siano accomunate da una stessa condizione di sradicamento. Le diverse forme di conquista e dominio, a cui sono da ascriversi le pratiche coloniali e il moderno sistema economico capitalista, si strutturano su modelli gerarchici in cui sono gli “ultimi” a soccombere invariabilmente.
Drammatico simbolo di prigionia ed esilio è il mostruoso e diverso Copito de Nieve, il gorilla albino esposto nello zoo di Barcellona che l’autore descrive nell’articolo Visita a un gorilla albino. Una cattività che è rappresentativa di un certo esercizio del potere politico ed economico che legittima pratiche di sfruttamento e abuso ai danni di soggetti sia umani che animali. Una comunanza che l’autore sottolinea in chiusura:
La sera, al bar dell’albergo, faccio conoscenza con uno scrittore uruguaiano che da tempo leggo e ammiro […] Per cercare di rompere il ghiaccio, racconto la visita allo scimmione albino che ho compiuto quel mattino, pensando che possa interessare O., scrittore della sofferenza esistenziale, della sconfitta individuale in una società desolata e meschina, del sapore agro del destino. Mi sembra che il male di vivere espresso nei suoi romanzi possa trovare quasi un equivalente simbolico nell’immagine del gorilla prigioniero. “Non c’è niente di strano in una scimmia in gabbia”, dice O. “Conosco un uomo che sta rinchiuso da anni in una gabbia molto più piccola”. (Visita a un gorilla albino, «Repubblica», 16 maggio 1980)20
Gli zoo, nascendo come istituzioni coloniali, testimoniano concretamente le diverse forme silenziose di violenza su esseri oggettivati e mercificati, strappati dallo spazio semiotico a cui appartengono per essere resi subalterni dalle pratiche di sfruttamento imperialista.21 Vanno ricordati, a tal proposito, gli stessi zoo umani o esposizioni etnologiche, ancora esistenti nella prima metà del Novecento, in cui, accanto agli animali, venivano esposti al pubblico individui di popolazioni straniere, catturati e ridotti in cattività. È particolarmente nota, tra le altre, la vicenda del giovane congolese Ota Benga, che nel 1906 fu esposto nello zoo del Bronx in una gabbia insieme ad un orango e suicidatosi nel 1916.22 L’immagine del gorilla Copito, che rigira tra le mani uno pneumatico, restituisce la fissità e il silenzio di una condizione di perdita e sofferenza che non può aggrapparsi al linguaggio e alla parola, di oppressione determinata dalla incomunicabilità e incomprensione della propria condizione.
I rapporti di forza istituiti dal capitalismo imperialista, si connettono strettamente alle geopolitiche, ovvero a tutte quelle pratiche socio-economiche e politiche orientate a stabilire rapporti di forza tra soggetti politici per il controllo delle risorse e dei territori su scala internazionale. Il concetto portante della politica internazionale novecentesca, per cui gli organismi politici sono assimilati a organismi biologici che necessitano di spazi vitali, finisce col legittimare come necessarie politiche espansionistiche o di sfruttamento. La condizione di subalternità e deterritorializzazione condanna, in alcuni casi, interi popoli a vittime sottomesse alle politiche di quegli stati le cui economie e la cui forza militare sono dominanti. Le dinamiche del potere mostrano di rispondere a meccanismi analoghi sia su scala microscopica che macroscopica, per cui, nella novella esclusa dai Racconti Lettera ad Amelia sui dischi volanti (1950), il protagonista osserva:
Non tarderemo a arrivare su Marte, dice. Noi arrivare a loro, così è meglio, mi sembra. Per le esplorazioni, dice, saranno utilizzati i tibetani. […] Per Marte ci vogliono organismi abituati a un clima freddo e arido. Chi meglio di quelli del Tibet, dunque? È naturale. Per il pianeta Venere, invece, – aggiunge – ci vorrebbero pigmei dell’Africa equatoriale, perché c’è un clima umido e caldissimo. Così tutto si spiega. Però quell’espressione, «utilizzare i tibetani», mi ha lasciato perplesso. Forse chi scrive così pretende che i tibetani siano inutili. Se ne stanno da migliaia d’anni in cima al Tibet, come uccelli appollaiati sulle travi d’un tetto, tutt’intorno a quel loro Dalai Lama. Ed ecco che arriva uno a dire: – Finalmente abbiamo trovato come utilizzarvi; andrete a Marte –. E uno per uno vengono scagliati nello spazio, da cui nessuno forse tornerà mai vivo. Uguale sorte spetta ai pigmei che, riformati per via della statura, erano esonerati dalle guerre. Così il progresso si ricorda per la prima volta di costoro. Chissà se a Marte, a Venere, c’è qualcuno che ci aspetta. E spera da noi chissà che cosa. È lì che attende, e arriva un tibetano. O un pigmeo. Non l’estremo culmine della nostra civiltà, l’uomo più progredito di tutti noi, ma il più dimenticato, il più misero di tutti gli esseri umani, la testimonianza stessa della nostra miseria e cattiveria. Amelia, non vedo l’ora che il nostro mondo sia diverso, sia come dev’essere, senza più i suoi freddi Tibet nel cuore di tutte le città, senza più pigmei ammalati di febbre sotto il sole delle nostre campagne. […] Anche lui (la notizia messicana non è stata smentita), anche lui, l’omuncolo marziano caduto sulla Terra, era un pigmeo di qualche Tibet di quel suo pianeta, dominato ancora da uomini bellissimi e egoisti che mandarono lui, il più brutto, a esplorare l’universo. Intorno alla sua salma, tutti noi tibetani e pigmei d’ogni paese, giuriamo che mai conquisteremo imperi per nessuno, su questo o altro pianeta, prima di essere ben sicuri che la Terra è la Terra dell’uomo.23
Se in Conrad troviamo rappresentata una volontà di conquista e di dominio che portano i protagonisti a scavare in una oscurità impenetrabile che è tanto nella natura che nell’inconscio umano, Calvino spinge la propria riflessione fino a includere la valutabilità morale dei soggetti, umani e non, immolati in nome dello sviluppo tecnologico, industriale ed economico.
Nell’articolo titolato Le capre ci guardano e apparso sull’«Unità» il 17 novembre 1946 risulta evidente come, in una società che si istituisce su modelli gerarchici e di forza, giustizia ambientale e sociale si rivelano i poli di uno stesso discorso sul riconoscimento etico delle varie forme di soggettività e il riconoscimento, dunque, dello stesso status giuridico di soggetto.
Vi siete mai chiesti che cos’avranno pensato le capre, a Bikini? e i gatti nelle case bombardate? e i cani in zona di guerra? e i pesci allo scoppio dei siluri? Come avranno giudicato noi uomini in quei momenti, nella loro logica che pure esiste, tanto più elementare, tanto più – stavo per dire – umana?
Sì, noi dobbiamo una spiegazione agli animali, se non una riparazione. Loro possono capire quando li uccidiamo per mangiarli, quando li mettiamo a tirare un carro, forse anche quando li torturiamo per divertirci nelle corride, o quando li vivisezioniamo per esperimento. Sono cose che succedono più o meno anche tra loro. Ma la guerra? Sì, noi dobbiamo una spiegazione agli animali, dobbiamo chieder loro scusa se ogni tanto mettiamo a soqquadro questo mondo che è anche il loro, se li tiriamo in ballo in affari che non li riguardano.24
E, l’analisi impietosa dell’autore finisce con una ricognizione dei confini tra libertà e necessità, che specularmente rimanda all’analisi, nella società moderna, del legame che intercorre tra valore strumentale e valore intrinseco degli esseri naturali. Le etiche ambientali, che hanno acquisito rilievo a partire dagli anni Settanta del Novecento, sostengono strenuamente, infatti, che molte pratiche ideologiche, in particolar modo legate all’imperialismo capitalista e ai modelli produttivi consumistici, promuovano una visione meramente funzionale degli esseri viventi e della natura e, dunque, una loro mancata legittimazione in qualità di soggetti morali.25
Emblematico è il racconto Il coniglio velenoso, in cui l’animale, impossibilitato anche all’atto disperato di suicidarsi, finisce ironicamente insieme a Marcovaldo sulla stessa ambulanza, entrambi cavie inermi a beneficio dello sviluppo farmaceutico, evidenziando come esista un’interdipendenza tra degradazione e oppressione del mondo naturale e di quello umano.
Impedito in quell’estremo gesto di dignità animale, il coniglio venne caricato sull’ambulanza che partì a gran carriera verso l’ospedale. A bordo c’erano Marcovaldo, sua moglie e i suoi figlioli, ricoverati in osservazione e per una serie di prove di vaccini. (Il coniglio velenoso)26
Calvino rimarca, dunque, la prossimità tra mondo naturale e umano quando essi sono sottoposti alle stesse pratiche di svilimento e subordinazione: tutte le pratiche di potere che si strutturano sul riconoscimento di differenze, invariabilmente, finiscono col negare i principi d’interdipendenza e di parità tra soggetti.
Il diverso, in Calvino, assume connotati mostruosi o minacciosi, per cui l’alterità è abusata e avvilita, strumentalmente trasfigurata in potenza malvagia o ostile. Nella Gallina di reparto (1954) il volatile, tenuto in uno stabilimento industriale, è prima reificato e assoggettato alle logiche produttive della fabbrica, quindi sfruttato per fornire uova, e poi eliminato dopo essere stato accusato di trasportare messaggi eversivi tra due operai della fabbrica. Così, l’uccello ucciso, diventa la vittima innocente di un sistema repressivo che assimila, assurdamente, alla propria mentalità anche ciò che è alieno al sistema. Mentre, nelle Cosmicomiche (1965), l’ultimo dinosauro superstite è costretto a nascondersi e vivere in solitudine in un mondo, quello dei «Nuovi» che ha demonizzato la sua specie:
[…] mi sentivo sempre un Dinosauro in mezzo ai nemici, e ogni sera, quando attaccavano a raccontare storie di Dinosauri, tramandate di generazione in generazione, io mi facevo indietro, nell’ombra, a nervi tesi.
Erano storie terrificanti. […] Presto mi fu chiaro che quelle storie erano già note a tutti (nonostante costituissero un repertorio assai copioso) ma a sentirle lo spavento si rinnovava ogni volta. I Dinosauri vi apparivano come tanti mostri, descritti con particolari che mai avrebbero permesso di riconoscerne uno, e intenti ad arrecare danni ai Nuovi, come se i Nuovi fossero stati fin dal principio i più importanti abitatori della Terra, e noi non avessimo avuto altro da fare che correre loro dietro a loro dalla mattina alla sera. (I Dinosauri)27
Attualmente la scienza afferma che è in corso la sesta estinzione di massa nella storia della Terra, provocata da cause antropogeniche, responsabile dell’esilio definitivo dal nostro pianeta di popoli indigeni e specie animali e vegetali. Le vicende del Dinosauro, fossile vivente incalzato dai «Nuovi», richiama alla mente le tribù incontattate, gruppi umani che ancora oggi vivono isolati dalla globalizzazione e vittime di genocidio a causa del contatto forzato con la società, della diffusione di malattie sconosciute e della sottrazione dei loro spazi di vita.28
SCRAPS, ORTS, AND FRAGMENTS29
Amara, nell’autore, è pure la riflessione sulle ideologie politiche che promettono una compiuta giustizia sociale. Dolorose si rivelano, nella Giornata di uno scrutatore (1963), le considerazioni sul mito storicista di uno sviluppo storico progressivo, che vede nella lotta di classe e nella pratica rivoluzionaria uno strumento di emancipazione sociale e civile. Poco dopo, nell’Antitesi operaia (1964) la ricognizione dell’ideologia socialista consente all’autore di riconsiderare negativamente, in via definitiva, l’effettiva possibilità per l’uomo moderno d’inserirsi nel processo storico e determinarne un orientamento lineare e positivo.
Ciò che è messo in discussione è l’idea d’una storia che attraverso tutte le sue contraddizioni riesca a tracciare un disegno chiaro di progresso (non solo quello lineare di tipo illuminista o positivista, ma pur quello più accidentato e spinoso che lo storicismo dialettico ha preteso di saper sempre rintracciare), nel quale l’antitesi operaia s’inserisca come catalizzatrice delle potenzialità positive. Qui è la somma delle negatività storiche che trionfa: il progresso della razionalità costruttiva del sistema (industriale capitalistico o industriale tout-court, la distinzione diventa secondaria) si configura in un «brave new world» dove ogni azione umana è inglobata predeterminata eterodiretta dagli interessi della produzione e del consumo o dalla cultura di massa o dai «persuasori occulti»: una prospettiva infernale, superata in buiezza solo dalla prospettiva che lo stesso trionfo del sistema avvenga sotto la specie della sua potenzialità irrazionale e distruttiva, cioè lo porti al suicidio atomico. (L’antitesi operaia)30
Questa corrispondenza tra capitalismo e immagine distopica della catastrofe nucleare consente a Calvino di postulare un parallelismo tra degradazione sociale e biologica e trionfo del sistema industriale capitalistico.
Un’analogia che, in qualche modo, anticipa il più recente dibattito su Capitalocene e Wasteocene. Entrambe le nomenclature intendono, infatti, porre l’accento sul potenziale distruttivo connaturato agli schemi ideologici e alle pratiche connesse al sistema di produzione e accumulazione della ricchezza moderni e sull’impatto che essi hanno sul tessuto socio-biologico. Marco Armiero, nell’Era degli scarti: Cronache dal Wasteocene, la discarica globale (2021) propone, infatti, una lettura della crisi ambientale come prodotto di un’epoca caratterizzata dalla continua produzione di scarti. Tuttavia, secondo Armiero il Wasteocene non è solo l’era degli scarti materiali, ma anche delle wasting relationship o relazioni di scarto, ovvero «di processi che scartano anche gli esseri viventi, umani e non umani, i luoghi, i saperi e persino i ricordi».31
Oltre alla città di Leonia, nelle Città invisibili, l’immondizia occupa il racconto La poubelle agréée (1977), in cui lo scrittore elabora una riflessione complessa sul pattume domestico che include rapporti sociali, economici, domestici, ideologici, e, non ultimi, i legami che intercorrono tra scrittura stessa e rifiuto. Nell’ottica dell’autore la letteratura è assimilata a una forma di deiezione che, tuttavia, può riacquisire valore all’interno di una “economia circolare”:
La riforma che si annuncia come più necessaria e urgente, sarà quella del separare i rifiuti secondo le loro qualità e i diversi destini, incenerimento o riciclaggio, perché almeno una parte di quanto abbiamo strappato dai tesori del mondo non sia perduto per sempre, ma ritrovi le vie del recupero e riutilizzo, l’eterno ritorno dell’effimero. Tra i materiali che possono esaurirsi e la cui salvezza mi riguarda in modo diretto c’è la carta, tenera figlia delle foreste, spazio vitale dell’uomo scrivente e leggente. Capisco ora che avrei dovuto cominciare il mio discorso distinguendo e comparando i due generi di spazzatura domestica, prodotti della cucina e della scrittura, il secchio dei rifiuti e il cesto della carta straccia. E distinguere e comparare il diverso destino di ciò che cucina e scrittura non buttano via, l’opera, quella della cucina mangiata, assimilata alla nostra persona, quella della scrittura che una volta compiuta non fa più parte di me e che ancora non si può sapere se diventerà alimento d’una lettura altrui, d’un metabolismo mentale, quali trasformazioni subirà passando attraverso altri pensieri, quanta parte trasmetterà delle sue calorie, e se le rimetterà in circolo, e come. Scrivere è dispossessarsi non meno che il buttar via, è allontanare da me un mucchio di fogli appallottolati e una pila di fogli scritti fino in fondo, gli uni e gli altri non più miei, deposti, espulsi.32
Il valore dello scarto, del resto, è ribadito anche nel saggio dedicato a L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, in cui Calvino, a proposito del Kitsch, asserisce:
[…] secondo Kundera la merda è la negatività assoluta, metafisica. Obietterò che per i panteisti e per gli stilistici (io appartengo a una di queste due categorie, non preciserò quale) la defecazione è una delle più grandi prove di generosità dell’universo (della natura o provvidenza o necessità o cos’altro si voglia). Che la merda sia da considerare tra i valori e non tra i disvalori, è per me una questione di principio. (L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera)33
Il tema del rifiuto organico, come prodotto di metabolizzazione, che richiede l’atto sacrificale dello smembramento, pur necessario alla vita e finalizzato alla conservazione dell’armonia universale, è già presente nelle parole di Nanin, nel racconto giovanile I Giovani del Po (1951):
Alle volte penso che sto dalla parte sbagliata, che dovrei tenere per i pesci, i corvi, le formiche. E quando gli uomini hanno il fatto loro, rallegrarmi. Forse il genere umano sta per distruggersi; io al momento buono passerò dall’altra parte: con le formiche e con chiunque altro verrà. Ma non c’è modo d’uscirne. Chi ama i pesci e gli animali selvatici fa come me, gli dà la caccia, finché uno distrugge l’alto, come capita. Non c’è altro rapporto che questo farsi a pezzi. Tu lo stesso, coi tuoi avanguardisti e le tue piccole italiane. Ci sbraneremo tutti finché ne resterà intera una fibra. Ma forse ogni cosa si disfa e ricresce. Ti lascio alle tue legnate e ai tuoi amori; a me che me ne importa? Che mi mangino i pesci quando muoio.34
Lo spossessamento e perdita della soggettività per il giovane, richiamando lo smembramento originario della divinità nel tempo mitico, consentono così una reintegrazione nel disegno cosmico, tale da garantire un ritorno all’ordine originario e riscattare la vittima. Ma, lo stesso sviluppo tecnico umano, fin dai primordi e dalla scheggiatura dei ciottoli, presuppone l’esercizio della volontà a plasmare e modificare l’ordo naturalis, tale da renderlo disponibile ai propri scopi e ai propri bisogni.
L’unico modo per ottenere dal mondo quello che vogliamo è che esso non sia un cristallo compatto, inafferrabile, imprendibile, non scalfibile. Perché la volontà ottenga, occorre che il cristallo si franga, che l’inflessibile si fletta, che il dio si squarti e si smembri, si renda disponibile come mondo. Solo allora possiamo godere del mondo e di tutto ciò che ci offre, perché possiamo controllare e modificare le singole parti ottenute dallo smembramento originario: che l’uomo, nella coscienza mitica, dapprima ascrive ad un’iniziativa stessa del dio, poi a se stesso.35
In Palomar (1983), la dimensione sacrale dello smembramento fa sì che «tra i marmi della macelleria egli sosta come in un tempio», ma, in quest’opera, è soprattutto l’occhio, alla ricerca ossessiva di una conoscenza oggettiva basata sul dato fisico, a trasformarsi in strumento autoptico fino a rivolgersi verso sé stesso e, nel tentativo di eliminare l’ingombro dell’io, causare la propria morte.
E la disponibilità a cannibalizzarsi è ciò che restaura la passione e lo slancio amoroso in una coppia di coniugi in viaggio in Messico in Sapere Sapore (1982). Il senso del gusto, attraverso gli intensi sapori della cucina messicana, consente quell’adesione totale all’esperienza fisica. Ma, è l’immaginaria cannibalizzazione del partner e disponibilità a essere a propria volta cannibalizzati, il mezzo attraverso il quale si realizza quel sogno di una perdita del self e, quindi, una completa aderenza alla realtà oggettiva e all’alterità. Così come, nelle Cosmicomiche è un atto generoso d’amore della signora Ph(i)Nk˳, che si dissolve in una «specie d’energia luce calore», a determinare l’espansione dello spazio, «rendendo possibili miliardi di miliardi di soli, e di pianeti, e di campi di grano, e di signore Ph(i)Nk˳ sparse per i continenti dei pianeti che impastano con le braccia unte e generose infarinate, e lei da quel momento perduta, e noi a rimpiangerla»36.
Ma, la stessa scrittura implica un sacrificio di sé per cui l'opera è «un momento di costruzione attraverso una perdita: c'è l'opera, non ci sono più io».37
L’immagine ideale del mondo si realizza a patto di un’immolazione, di un atto violento, che allontana definitivamente il sogno di una “utopia senza vittime”:
Ogni progetto o immagine che permetta di tendere a un altro modo d’essere fuori dell’ingiustizia che ci circonda porta il marchio dell’ingiustizia senza la quale non sarebbe stato concepito. (La forma del tempo. Giappone: Il rovescio del sublime) 38
È la realtà stessa, per Calvino, che porta, i segni della menomazione e della deformità; è questa lacerazione e scompenso che restituisce al Gramo nel Visconte dimezzato una profondità di senso altrimenti impossibile:
Ero intero e tutte le cose erano per me naturali e confuse, stupide come l’aria; credevo di veder tutto e non era che la scorza. Se mai tu diventerai metà di te stesso, e te l’auguro, ragazzo, capirai cose al di là della comune intelligenza dei cervelli interi. Avrai perso metà di te e del mondo, ma la metà rimasta sarà mille volte più profonda e preziosa. E tu pure vorrai che tutto sia dimezzato e straziato a tua immagine, perché bellezza e sapienza e giustizia ci sono in ciò che è fatto a brani.39
La menomazione, pertanto, si traduce in istanza sia lirica che etica, e alimenta quella tensione utopica, in Calvino, verso una possibile integrazione tra soggetti e mondo; tuttavia, essa è frutto di un processo doloroso che passa prima per la perdita e per la sconfitta, un apprendistato che obbliga la soggettività a confrontarsi con l’incomprensione e l’alterità. Per questo gli outcast e il displacement, nell’autore, rappresentato i veri soggetti morali, la cui incompletezza è la condizione che ne determina i vari atteggiamenti, di resa o tenace resistenza.
In questa prospettiva, La giornata di uno scrutatore, basata su un’esperienza autobiografica e frutto di una lunga gestazione, può essere riletta come una sorta di breve Bildungsroman. Se Hans Castorp, nella Montagna incantata (1924) di Thomas Mann, scopre i limiti del corpo e la morte in un sanatorio, Amerigo Ormea fa esperienza di un mondo lontano da ciò che per lui è assimilabile alla vita nell’ospedale del Cottolengo. Calvino rilegge una stagione storica e politica attraverso la sensibilità dell’intellettuale Ormea, storicista convinto, che, tuttavia, a contatto con la menomazione e la deformità è obbligato a una riconsiderazione della definizione di umano, arrivando a chiedersi se «progresso, libertà, giustizia erano soltanto idee dei sani […] cioè idee di privilegiati, cioè idee non universali»40. Nel «mondo-Cottolengo» il protagonista va incontro alla scoperta della «miseria della natura» e scopre, attraverso la vista di un ragazzo-pianta-pesce, la vanità di ogni senso; che coincide, in ultima analisi, con la morte, dissoluzione definitiva di ogni forma soggettiva. La stessa scoperta getta nello sgomento Castorp quando durante una radiografia:
[…] gettò uno sguardo nella propria tomba. Vide in anticipo, grazie alla potenza della luce, la futura opera della decomposizione, la carne, che lo rivestiva, dissolta, distrutta, sciolta in una nebbia evanescente, e dentro a questa lo scheletro della sua destra finemente tornito […]41
Sul piano letterario, questo dubbio sistematico sui confini dell’umano, fa sì che la menomazione, lo scarto, l’anfibio e il grottesco siano riabilitati, nell’opera dell’autore, a rappresentare quella zona grigia in cui l’alterità e il perturbante sopravvivono e ci informano della loro esistenza. Sebbene il genere umano sia una zona da definire «circoscrivendone i confini», l’autore finisce col metterne in maniera sistematica in discussione ogni presunta oggettività e persistenza. Un atto di ribellione che porta i personaggi calviniani a collocarsi al confine tra umano ed extraumano, soggetti borderline, a cui la condizione di reietti riserva, tuttavia, il privilegio di una libertà morale. Così il nano del Cottolengo, ignorato dall’onorevole perché non votante. guarda i «valori terreni, della politica, della pratica, del potere» con indifferenza e distacco. Lo sguardo del menomato restituisce quello stesso sguardo della balena bianca di Melville: esso rappresenta il mondo naturale nella sua imperscrutabilità e irriducibilità ai sistemi di valori che definiamo “umani”.
In questa chiave va letto il necessario e irrinunciabile antropocentrismo nell’opera dello scrittore, in cui attraverso l’umanizzazione del cosmo si realizza quel dialogo, non senza ironia e slancio fantastico, tra cosmico e quotidiano, tra umano ed extra-umano. Esemplificativa è la straordinaria rilettura della storia universale, nelle Cosmicomiche, attraverso l’«ammicco umano» di Qwfwq, testimone non sempre credibile di una “cosmogonia” in cui l’uomo è solo uno dei tanti accidenti. Per cui, la costante oscillazione tra estraneità e partecipazione diventa, per l’intellettuale, fondamento dottrinale di ogni atto critico e, di conseguenza, di ogni azione politica. Come egli stesso chiarisce nel saggio dedicato a Robbe-Grillet:
Non che il discorso di Robbe-Grillet non mi avesse convinto: ma è successo che poi scrivendo mi è venuto da seguire la via opposta, con dei racconti che sono una specie di delirio dell’antropomorfismo, dell’impossibilità di pensare il mondo se non attraverso figure umane, o più particolarmente smorfie umane, borbottii umani. Certo, anche questo è un modo di mettere alla prova l’immagine più ovvia e pigra e vanagloriosa dell’uomo: moltiplicare i suoi occhi e il suo naso tutt’intorno in modo che non sappia più dove riconoscersi.
[…] Quello che m’interessa è il mosaico in cui l’uomo si trova incastrato, il gioco dei rapporti, la figura da scoprire tra gli arabeschi del tappeto. Tanto so già che dall’umano non scappo di sicuro, anche se non mi sforzo di trasudare umanità da tutti i pori: le storie che scrivo si costruiscono all’interno d’un cervello umano, attraverso una combinazione di segni elaborati dalle culture umane che mi hanno preceduto. (Due interviste su scienza e letteratura )42
LETTERATURA E PAESAGGIO
Calvino invita a scavare nel «fondo di una estraneità» che dimora nella dimensione quotidiana del vivere: una sfida che si concretizza in quel «percepire le differenze» nella superficie apparentemente uniforme della realtà. Da qui, l’insistenza sull’organo della vista e sulla percezione visiva che si traducono non in immagine, bensì in paesaggio: il Landschaft che, al contrario dell’immagine, è insieme di segni naturali e umani, è lo spazio denso di significato e qualitativamente connotato. Da tale assioma, lo scrittore tenta ripetutamente di ricreare una cartografia del reale, una “scienza del paesaggio” che, pur non potendo rivendicare uno statuto oggettivo, acquista per l’autore un proprio valore conoscitivo. Nel racconto inedito Dialogo con una tartaruga (1977) è la vista di questo rettile su un prato che porta il signor Palomar a un’attenta riflessione su ogni pretesa di universalità del pensiero, poiché «un discorso che si presuma universale dev’essere insieme il discorso dei metalli e dei sali e delle rocce, del berillo, del feldspato, dello zolfo, di gas rari, della materia non vivente che costituisce la quasi totalità dell’universo».43 Ciò fa sì che la soggettività in Calvino venga rappresentata come un’area di negoziazione di significati, permeabile e transitoria, per cui «non c’è differenza tra io e guscio, dunque tra io e mondo».
Da qui il valore fondamentale dell’ambiente e del paesaggio, che ne rappresenta l’espressione visivamente connotata, e che, pertanto, si fa strumento attraverso cui il mondo acquista evidenza, si fa segno e, quindi, si rende disponibile a essere pensato e ripensato.
Pertanto, i paesaggi narrati da Calvino si prestano a essere riletti come eterotopie, ovvero quei luoghi fisici, concettualizzati da Michel Foucault, di contestazione o sovvertimento del reale.44 La funzione degli spazi eterotopici, al contrario dell’utopia e della distopia, è proprio di creare una breccia nel reale; trasgredendo o esasperando alcuni aspetti della realtà essi consentono di situare fisicamente il discorso tra immagine ideale e realtà, restituendo una rappresentazione della complessità funzionale del mondo e indicando nuove strategie di collaborazione e coabitazione. Nel paesaggio si scoprono enclavi e spazi superstiti in cui nascono nuove forme di resistenza e di adattamento, luoghi popolati da forme di soggettività anfibie e ibridate. Ancora una volta la deformità e la difformità si trasformano in strumento critico, atto a mettere in discussione la norma, e le pratiche culturali e politiche a essa assimilate. Come precedentemente osservato, il laboratorio, il giardino dei gatti ostinati, il Cottolengo si rivelano spazi carichi di conflitto e contestazione che creano una crepa nel paesaggio, una discontinuità. Sono spazi in cui matura una coscienza della crisi, la quale conserva, per Calvino, una propria carica utopica. Un’idea che torna nel celebre finale delle Città in cui l’inferno risulta funzionale proprio a isolare e coltivare luoghi – fisici e interiori – che sembrano prometterci scenari diversi.
La rappresentazione di un paesaggio vocato alla distopia attira lo sguardo sugli elementi degradati della realtà, concorrendo, come nell’allegoria moderna, a riabilitare le immagini dismesse attraverso la forma dell’enigma. Tali immagini, rappresentando l’ambiente come declino, lanciano all’interprete una sfida in quanto portano in sé un’insufficienza interna; ciò permette un ripensamento del senso che attribuiamo al negativo, riscattando il valore morale della rappresentazione estetica del brutto, dell’inutile e dello scarto.
La politica ha il compito di integrare i dati di realtà con modelli ideali, al fine di costruire una società che tenda e sia orientata verso il miglior mondo possibile.
La politica ha bisogno d’un modello ideale a cui tendere (se no, è solo gestione d’un potere) ma nello stesso tempo la politica è empiria, verifica sui fatti, tentativo, correzione ininterrotta dell’errore (se no, è solo teoria astratta). Un buon dirigente politico può far leva sull’estremismo (estremismo della situazione, degli stati d’animo, delle idee) ma non essere estremista lui stesso. Ossia: deve tendere a una sua immagine ideale di società, che può essere magari ancora molto lontana da una possibile realizzazione, e approssimarsi ad essa magari valendosi di estremismi che sa immaturi e destinati a essere smentiti dalla pratica, ma non identificandosi con essi, pronto a spostarsi, contro di essi, dalla parte della realtà, della necessità, del tempo. (L’estremismo)45
Nel caos e nelle condizioni insostenibili della città moderna, l’autore propone una “sostenibilità” che, nutrendosi di una carica ideale, scavi un varco nel reale e riedifichi spazi abitabili. Ordine e caos, catastrofe e rigenerazione, sono, dunque, i due poli opposti con cui dialoga il mondo; una visione corroborata dalle conoscenze acquisite dalla fisica quantistica, note a Calvino, che descrivono un universo in equilibrio transitorio tra organizzazione della materia a costituire forme complesse e dissipazione. L’entropia è il principio di disordine verso cui tende l’universo che l’autore esorcizza attraverso il rito della scrittura, concepita come luogo in cui «l’universo si cristallizza in una forma, in cui acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in un’immobilità mortale, ma vivente come un organismo»46. Pertanto, Domenico Scarpa propone la coppia Lucrezio/Ovidio come più rappresentativa dell’antinomia che caratterizza tutto il lavoro dell’autore, poiché «la figura di Lucrezio è sinonimo della scomponibilità del mondo in elementi primi e inalterabili, quella di Ovidio della loro incessante trasmutabilità».47
L’utopia di Calvino si traduce proprio nel tentativo di costruire una rappresentazione del mondo in cui le immagini dettate dalla fantasia si organizzano a creare un complesso gioco di specchi in cui si possa disvelare l’analogia che intercorre tra microcosmo e macrocosmo, ordine e caos, completezza e menomazione che costituiscono il fitto tessuto del reale.
L’esercizio combinatorio, più volte proposto da Calvino, trae fondamento da questa necessità organizzativa dei dati raccolti, funzionale alla creazione di un sistema narrativo dotato di coerenza e vincoli interni. Per l’autore, infatti, la letteratura è un modo con cui il mondo e l’uomo acquistano conoscenza di sé e comunicano informazioni sulla loro stessa esistenza. La cibernetica o teoria dell’informazione, a cui è dedicato il saggio Cibernetica e fantasmi, rimarca, per l’appunto, il ruolo fondamentale della comunicazione, intesa come interrelazione, come strumento dinamico nel pattern relazionale.
Importante, in tale prospettiva, il lavoro del sociologo, antropologo e psicologo Gregory Bateson, che, nella seconda metà del Novecento, ha messo in evidenza le potenzialità della teoria cibernetica al fine di edificare quella che egli definisce «ecologia della mente». Secondo un approccio sistemico, Bateson definisce con la parola mente qualsiasi sistema che è in grado di elaborare le informazioni e completarle attraverso un procedimento basato su tentativi ed errori. Affinché tale sistema si mantenga in vita, l’equilibrio omeostatico è garantito dalla comunicazione, ovvero dalle connessioni nel sistema e dalle dinamiche relazionali, che ne garantiscono l’autoregolazione. La mente, dunque, è un concetto attribuibile anche ai gruppi sociali e alla natura, entrambi da considerarsi come un grande sistema relazionale. Secondo tale interpretazione, la mente è, di fatto, un sistema cibernetico. Attraverso questa teoria, la cibernetica, così come la letteratura, rappresenta uno strumento attraverso il quale non solo ripensare la realtà in termini di vincoli interni e schemi relazionali, ma anche prevedere scenari futuri e riorientare le nostre scelte.48
In quest’ottica la complessa impalcatura combinatoria che sarà utilizzata nelle Città invisibili acquista una nuova valenza etica ed ecologica: affidato al gioco immaginativo, che genera città possibili e impossibili per poi mostrarne il rovescio, c’è il senso ultimo di una ricerca che, partendo dalle potenzialità dell’oggi, cerca scenari e soluzioni per coltivare un futuro alternativo.
[…] il nucleo generativo del libro non consiste nelle descrizioni delle città, bensì nei dialoghi tra Marco Polo e Kublai: i quali, per parte loro, non fanno altro che proporre conclusioni, congetture, chiavi di lettura divergenti e complementari, sovrapponendo alle serie delle immagini un reticolo di verità parziali e alternative, che rinviano incessantemente a interpretazioni e interrogazioni ulteriori.49
Non secondario, tuttavia, in Calvino, il valore della fantasia, che trova statuto morale nel rifiuto categorico qualsiasi tensione nostalgica verso il passato e, al contempo, nella «non accettazione della situazione data, dello scatto attivo e cosciente, della volontà di contrasto, della ostinazione senza illusioni»50.
La narrazione fantastica, inoltre, si presta al recupero dell’ironia, della parodia e della deformazione. Esempio lampante è lo straniamento anti-antropocentrico nelle Cosmicomiche in cui le teorie astronomiche offerte dal mondo scientifico sono recuperate e rese oggetto di distorsione e contraffazione fino a farne delle comiche intergalattiche il cui protagonista è l’inclassificabile Qwfwq. Ciò consente allo scrittore di rimanere fedele al valore della leggerezza, ribadito nelle Lezioni americane (1988), che unico permette di stimolare l’adesione giocosa alla pagina scritta senza rinunciare alla riflessione, poiché «lo stare al gioco presuppone sempre un atto critico».
La resistenza radicale, dunque, si sposta sul terreno del linguaggio, tradizionale strumento di potere, e ne mina le fondamenta. In Calvino la creatività deformante investe la parola, il linguaggio e gli stessi generi letterari, recupera il significante e lo riplasma, lo rende oggetto di infrazione alla norma e lo trasforma in discorso cifrato e sovversivo. Il gioco linguistico, infatti, può rivelarsi il più potente strumento di trasgressione, come nel Racconto dell’ancella (1985) di Margaret Atwood in cui è una partita a Scarabeo a rappresentare il gesto eversivo e contestatorio. La parola, così, si fa strumento straniante, concorrendo a generare quel corto circuito interno alla soggettività, tanto perseguito dall’autore, in vista di una letteratura che sfidi i limiti dell’antropocentrismo e al tempo stesso restituisca spessore all’individuo.
La coscienza del negativo, pertanto, assume, nella parabola artistica e intellettuale di Calvino, il valore di un vero manifesto ideologico volto a scardinare pratiche di pensiero e di comportamento. Egli sembra voler promuovere una vera e propria cultura della crisi, in cui l’oscillazione tra visione utopica e distopica risulta asservita a un’unica vocazione, quella ben espressa dal motto di Romain Rolland che invitava al pessimismo della ragione e ottimismo della volontà. La crisi, pertanto, si trasforma in paradigma conoscitivo, su cui elaborare un complesso di regole metodologiche, modelli razionali e criteri logici di soluzione dei problemi. La «sfida al labirinto» è quella di Edmond Dantès, impegnato a trovare una via di fuga dall’impenetrabile fortezza d’If. Il racconto Il conte di Montecristo ribadisce il valore del disegno ideale come modello contrastivo, per cui l’immagine della prigione perfetta occorre a fornire una via di fuga attraverso il confronto con la fortezza reale, con il dato raccolto attraverso l’esperienza sensibile. Da qui, per l’autore, lo stretto rapporto tra mondo e letteratura, concepita come «serie di tentativi di conoscenza e di classificazione delle informazioni sul mondo, il tutto molto instabile e relativo ma in qualche modo non inutile»51.
Da notare come, nell’ultima produzione dell’autore, avvenga un recupero del puro dato sensibile nella sua disponibilità immediata, che sembra suggerire un’ancora possibile armonia e pienezza di senso tra uomo e mondo. Tuttavia, ciò si realizza solo a patto di una disponibilità verso il mondo che è al contempo sacrificio di sé e rispecchiamento, in un rapporto di interdipendenza e relazione reciproca.
[…] quel che importa è il momento in cui strappandosi a se stesso si sente in un barbaglio l’unione di passato e futuro, così come io nello strappo da me stesso che vi ho proprio ora finito di raccontare vidi quello che doveva accadere trovandomi oggi innamorato, in un oggi forse del futuro forse del passato ma anche certamente contemporaneo di quell’ultimo istante unicellulare e contenuto in esso […] (Priscilla-Mitosi)52
Lo scompenso tra dimensione umana e cosmica, tra pienezza ideale e limiti del reale alimentano quella tensione desiderante, quel «stato-moto-desiderio di moto-desiderio-amore»53, che si traduce in disponibilità verso l’altro, slancio amoroso che consente una seppur transitoria armonia e integrazione tra le parti. Ma, questo rito di passaggio verso l’armonia si chiude sempre, come in ogni rito sacrale, con la parola o il canto: ne sono un esempio l’elenco dei piatti messicani dal suono evocativo in Sapere sapore o il duetto con l’amata nel Re in ascolto (1984). Il possesso del mondo, inteso come conoscenza della realtà di cui facciamo parte, in via definita, si corona solo attraverso una complessa integrazione tra dato sensibile, dato culturale e dato relazionale; per cui alla triade «io-polpetta-Olivia» si aggiunge «un quarto termine che assumeva un ruolo dominante: il nome delle polpette».54
Calvino, in ultima istanza, torna a rivendicare il ruolo della letteratura e della parola come luogo ultimo d’incontro, spazio non conteso. Reintegrando esperienza presente, tensione desiderante verso il futuro e profondità culturale l’opera letteraria ci informa del mondo e della nostra presenza nel mondo e, dunque, ce ne garantisce l’inclusione e la comprensione.
1 Italo Calvino, Palomar, in: Romanzi e racconti, ed. diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, vol. II, Mondadori, Milano 2004, pp. 886-87.
2 Id., Note e notizie sui testi, in: Romanzi e racconti, cit., vol. III, p. 1318.
3 Id., Una pietra sopra, in: Saggi, a cura di M. Barenghi, vol. I, Mondadori, Milano 2002, p. 227.
4 Id., Palomar, in: Romanzi e racconti, cit., p. 934.
5 Per una breve guida all’ecocritica: Serenella Iovino, Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, Edizioni Ambiente, Milano 2015.
6 I. Calvino, Cronache planetarie. Cronache italiane, in: Saggi, cit., vol. II, pp. 2316-17.
7 Id., Racconti e apologhi sparsi: Il richiamo dell’acqua, in: Romanzi e racconti, cit., vol. III, p. 279.
8 I. Calvino, Descrizioni e reportages: Natura, in: Saggi, vol. II, cit., p. 2685.
9 S. Iovino, Filosofie dell’ambiente, Carocci, Roma 2008, p. 130.
10 I. Calvino, Prefazioni e note d’autore: Presentazione 1966 all’edizione scolastica di Marcovaldo, in: Romanzi e racconti, cit., vol. I, p. 1232.
11 Id., Marcovaldo, Romanzi e racconti, cit., vol. I, p. 1068.
12 Ivi, p. 1115.
13 Id., I racconti (Gli idilli difficili), in: Romanzi e racconti, cit., vol. II, p. 989.
14 Id., Marcovaldo, op. cit., p. 1122.
15 Ivi, p. 1173.
16 Id., Ricordi-racconti per «Passaggi obbligati», in: Romanzi e racconti, cit., vol. III, pp. 23-25.
17 Id., Letture di scienza e antropologia: Fato antico e fato moderno di Giorgio de Santillana, in: Saggi, cit., vol. II, p. 2089.
18 Id., Palomar, op. cit., pp. 955-54.
19 Id., I giovani del Po, in: Romanzi e racconti, cit., vol. III, p. 1021.
20 I. Calvino, Note e notizie sui testi: Palomar, in: Romanzi e racconti, vol. II, cit., p. 1430.
21 Sul legame tra zoo e imperialismo vd. Randy Malamud, Reading Zoos (1998), cit. in Serenella Iovino, Calvino’s animals: Anthropocene stories, Cambridge Universities press, Cambridge 2001.
22 Per approfondire la vicenda di Ota Benga: Ngimbi Kalumvueziko, Le pygmée congolais exposé dans un zoo américain: sur le traces d’Ota Benga, L’Harmattan, Parigi 2011.
23 I. Calvino, Racconti esclusi da «I Racconti»: Lettera ad Amelia sui dischi volanti, in: Romanzi e racconti, cit., vol. III, p. 880-81.
24 Id., Scritti di politica e di costume: Le capre ci guardano, in: Saggi, cit., vol. II, pp. 2131-32.
25 Sulla nascita e lo sviluppo delle etiche ambientali: S. Iovino, Filosofie dell’ambiente. Natura, etica, società, op. cit.
26 I. Calvino, Marcovaldo, op. cit., p. 1122.
27 Id., Le Cosmicomiche, in: Romanzi e racconti, cit., vol. II, p. 167.
28 I report e le notizie sulle tribù incontattate sono reperibili sul sito italiano della organizzazione Survival International, https://www.survival.it/chisiamo/rapporto-annuale (ultimo accesso 1 novembre 2022)
29 Espressione ripresa dall’opera di Virginia Woolf Between the Acts (1941).
30 I. Calvino, Una pietra sopra, op. cit., pp. 135-36.
31 Stefano Dalla Casa, Viviamo nell’era degli scarti. Come riconoscere il Wasteocene: la crisi socio-ecologica secondo lo storico dell’ambiente Marco Armiero, 25/01/ 2022, pubblicato su: «Il Tascabile»: https://www.iltascabile.com/scienze/wasteocene/ (ultimo accesso 4 novembre 2022)
32 I. Calvino, Ricordi-racconti per «Passaggi obbligati»: La poubelle agréée, in: Romanzi e racconti, cit., vol. III, pp. 78-79.
33 Id., Narratori, poeti, saggisti: Contemporanei stranieri, in: Saggi, cit., vol. I, pp. 1331-32.
34 Id., I giovani del Po, op. cit., p. 1095.
35 E. Severino, Verità e natura umana: Festivalfilosofia sulla natura, Sassuolo 18 settembre 2011, Consorzio per il Festivalfilosofia, Modena 2012, p. 8.
36 I. Calvino, Le Cosmicomiche, op. cit., p. 123.
37 D. Scarpa, Italo Calvino, Bruno Mondadori, Milano 1999, p. 169.
38 I. Calvino, Collezione di sabbia, in: Saggi, cit., vol. I, p. 578.
39 Id., Il visconte dimezzato, in: Romanzi e racconti, cit., vol. I, p. 403.
40 Id., La giornata di uno scrutatore, in: Romanzi e racconti, cit., vol. II, p. 41.
41 Thomas Mann, La montagna incantata, Corbaccio, Milano 2011, p. 203.
42 I. Calvino., Una pietra sopra, op. cit., pp. 233-34.
43 Id., Abbozzi, rifacimenti, traduzioni: Dialogo con una tartaruga, in: Romanzi e racconti, cit., vol. III, p. 1158.
44 Michel Foucault, Eterotopie, Mimesis, Milano 2010. La proposta della lettura del Giardino dei gatti ostinati come eterotopia è in: S. Iovino, Italo Calvino's animals: Anthropocene stories, Cambridge Universities press, Cambridge 2001.
45 I. Calvino, Una pietra sopra, op. cit., p. 323.
46 Id., Lezioni americane: Appendice. Cominciare e finire, in: Saggi, cit., vol. I, p. 751.
47 D. Scarpa, op. cit., p. 146.
48 Sulla teoria dell’«ecologia della mente»: Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000.
49 I. Calvino, Note e notizie sui testi: Le città invisibili, in: Romanzi e racconti, vol. II, cit., p. 1363.
50 Id., Una pietra sopra: Il mare dell’oggettività, op. cit., p. 60.
51 Id., Note e notizie sui testi: Ti con zero, in: Romanzi e racconti, cit., vol. II, p. 1347.
52 Id., Ti con zero, in: Romanzi e racconti, cit., vol. II, pp. 287-88.
53 Id., Ti con zero, op. cit., pp. 281.
54 Id., Racconti per «I cinque sensi»: Sapere sapore, in: Romanzi e racconti, cit., vol. III, p. 146.