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Lezione di epica e Pagliarani

Francesco Targhetta

 

Se è a partire dall’epica che ho voluto costruire questo intervento sul mio rapporto con la poesia di Elio Pagliarani, è anche per un senso di colpa radicale che nutro verso di lui e che, a dieci anni abbondanti dai fatti, è il momento di condividere o, forse dovrei meglio dire, confessare. Nelle settimane successive alla pubblicazione di Perciò veniamo bene nelle fotografie, il romanzo in versi che mi uscì per Isbn a metà febbraio 2012, ci fu un’intensa fase di promozione, che comportava per me un dialogo quasi quotidiano con l’allora Ufficio stampa della casa editrice Giulia Osnaghi. La quale un pomeriggio mi scrisse per propormi una presentazione romana per fine marzo; a introdurmi sarebbe stato Andrea Cortellessa, e i gestori del Kino, che avrebbe ospitato l’evento, avevano espresso il desiderio che la serata fosse arricchita dalla lettura di qualche passo tratto da La ragazza Carla, modello ineludibile di quel libro. All’estremo gradimento per l’idea volli aggiungere nella mia risposta a Giulia un rilancio azzardato, ossia la proposta di invitare Pagliarani stesso, di cui ignoravo le condizioni di salute ma che sapevo vivere a Roma, a presenziare e magari leggere al suo impareggiabile modo. Il nostro dialogo quel giorno proseguì per qualche mail fino a una secca replica di Giulia in cui a un link era accompagnata la frase (l’archivio di gmail non mente): “Pagliarani è morto stasera”. Quello scambio avvenne infatti l’8 marzo 2012. Cortellessa, che poi in quella presentazione romana si incaricò di leggere, a quel punto in memoriam, alcuni stralci de La ragazza Carla, parla, nella sua postfazione alla riedizione mondadoriana del 2019 di Perciò veniamo bene nelle fotografie, di «bontempelliana simmetria» a proposito del sincronismo tra l’uscita del mio romanzo in versi e la scomparsa di Pagliarani, ma ignorava questo dettaglio, che forse lo avrebbe spinto a tirare in ballo riferimenti più inquietanti.

In quella stessa postfazione Cortellessa cita più volte Pagliarani, definendolo, in un passaggio, «lettore attento dei “crepuscolari” ma già delle loro matrici ottocentesche». Bene, è proprio da quella “linea crepuscolare”, verso cui avevo sempre avuto una predilezione e che avevo approfondito durante gli anni di dottorato e il successivo assegno di ricerca sul simbolismo italiano di fine ‘800, che sono arrivato a Pagliarani, indagandolo dapprima nelle sue due raccolte degli anni ‘50, maggiormente debitrici della nostra tradizione poetica tra i due secoli. Da quel Pagliarani, curiosamente, e non da La ragazza Carla, pescava la mia antologia del liceo, il Guglielmino-Grosser, che accoglieva soltanto I goliardi delle serali, a proposito della quale parlava di «mimetismo realistico» e di «grigia banalità di reperto del mondo contemporaneo» (che però, puntualizzava una citazione di Alfredo Giuliani, «cessa quasi sempre di essere banale grazie alla verità della scrittura»). Fu il mio primo incontro con Pagliarani. Ecco, non mi stupisce se da qui, ossia da un «racconto in versi»1 già pieno di personaggi e battute immersi nella caligine della città, sia nato in me il desiderio di approfondirne la conoscenza, in rigoroso ordine cronologico. I Fiaschi, che raccolgono poesie scritte tra il 2003 e il 2009, cioè proprio gli anni della mia ricerca universitaria, testimoniano l’iniziale adesione a quel Pagliarani, menzionato, ad esempio, in modo esplicito nella poesia Il treno dopo, scartata dalla raccolta ma poi reintegrata nella sezione Fondi nella ristampa per Le Lettere del 2020; la lirica si chiude con una citazione da un testo di Inventario privato («Non devi amarmi se ti sbriciolo / su una tovaglia lisa. E non mi ami»), dove ad attirarmi erano, oltre all’asimmetria sentimentale, la rima “Elisa [che chiudevo il mio testo] : lisa” e la forte assonanza tra quell’«ami» e «Elio Pagliarani», che mettevo a suggello del prelievo.

In quei versi l’amore entrava nello sfondo urbano, sotto il «cielo contemporaneo» di una Milano dalle tinte ammodernate rispetto all’entre deux siècles che però giungevano a me inevitabilmente sbiadite, una città «dura […], metallica e impietosa»2 dove un io lirico poteva finalmente inoltrarsi e cantare la propria stessa reificazione. È stata questa la grande lezione di Pagliarani: nella sua poesia «la percezione dell’uomo-cosa, a differenza che in tanto espressionismo e crepuscolarismo, non risparmia il soggetto»3. Nelle memorabili Due ottave dal diario milanese, con riferimento ai barattoli di latta da colpire con le palle alla fiera, si legge «la mia faccia, mamma, gli asso­miglia», e senza arrivare al noto «Non so se avete capito: / siamo in troppi a farmi schifo» è chiaro quanto Pagliarani abbia precocemen­te compreso come il meccanismo capitalistico non escluda nessuno, renda tutti collaborazionisti, e come la poesia debba dare voce a «quanto di morte noi circonda», senza arretrare o sottrarsi al suo ruolo, e soprattutto senza autoindulgenza. Nessuna torre d’avorio e nes­sun piedistallo da cui osservare gli altri spettano al poeta: la «pietà og­gettiva» con cui si racconta l’ingresso nella vita adulta di Carla Dondi è stata fondamentale per aiutarmi a correggere gli eccessi di queri­monia ed elegia (ma anche di ironia) che l’apprendistato crepuscola­re mi aveva lasciato.

È stata, di più, lezione di vita e di sguardo verso gli altri e soprattutto verso sé stessi: la poesia di Pagliarani continua a invitare a diffidare di sé sempre, e nella marea di autofiction contemporanea mi sembra un ammonimento tanto inascoltato quanto prezioso (paradosso in forma interrogativa: è forse la poesia più che la prosa, oggi, a dare spazio e ascolto all’altro da sé? Da questa prospettiva è possibile che La colpa al capitalismo sia il libro più pagliaraniano che abbia scritto). Invita, di più, a diffidare di tutto, e non è un caso che la sua sia una poesia fondata su un raffinatissimo plurivocalismo, su un continuo contagio di punti di vista e parole che è incerto, ben presto, in quale direzione proceda, anche perché coinvolge un narratore che, più che veristicamente eclissato, sembra nascondersi dietro un giornale letto distrattamente sul filobus (vd. Ripensavo la tua gioia, il tuo alimento), apparendo tutt’altro che escluso, piuttosto incluso a intermittenza, rispetto a quanto accade sulla scena. Questa mutevolezza di calibratura della voce del narratore nel racconto mi pare una delle peculiarità tecniche più innovative di Pagliarani, poi radicalizzata nelle campiture e nei montaggi sempre più ellittici de La ballata di Rudi, il cui scivolamento delle focalizzazioni e delle battute in un flusso aperto e disorientante, la cui epica corrosa, coralità e moltiplicazione delle angolazioni sono penetrati in modo decisivo in Perciò veniamo bene nelle fotografie (l’incipit, in compenso, omaggia La ragazza Carla) e persino nell’impostazione narratologica de Le vite potenziali.

È in queste sperimentazioni che emerge la carica epica della sua poesia, la sua coralità, la sua attitudine a registrare i tratti più profondi (e perciò sfuggenti, di solito, a un’indagine in presa diretta) del proprio tempo e a intercettare certe pieghe della civiltà del benessere in anticipo rispetto a sociologi e filosofi, come solo la poesia migliore sa fare: non a caso rileggere oggi Pagliarani è fonte di incessanti riattivazioni semantiche e ricaricamenti di senso, per cui molti suoi versi sembrano rigenerarsi, trasmutare e ricadere sulla stretta contemporaneità a mo’ di granate lanciate da decenni di distanza. Il risucchio venefico del mondo del lavoro, i compromessi che trascina con sé, l’aziendalismo e l’adattamento “corporate” (quel meravigliosamente ambiguo «e son dei loro» in La ragazza Carla, II, 2), l’introiezione della dialettica servo/padrone (ma Praték, qui, c’è ancora), la somatizzazione attraverso i disturbi alimentari, l’assunzione di «tranquillanti» e «sonniferi» come sola soluzione a forme depressive devastanti proprio perché indeterminate nelle cause («da quali campi sono reduci ora?», dal Rap dell’anoressia o bulimia che sia) sono caratteri precipui della società tardo-capitalistica che Pagliarani coglie con rara lucidità (lui, Pasolini, Bianciardi, e poi?), tanto da diventare un modello di riferimento non solo per molti poeti ma anche per alcuni prosatori che del mondo del lavoro hanno fatto il centro della propria scrittura (penso a Giorgio Falco).

Torno, per avvicinarmi alla conclusione, alla postfazione di Cortellessa a Perciò veniamo bene nelle fotografie: mentre nella Ragazza Carla, pur nella sua brevità, si rappresenta un cambiamento (una dolorosa “formazione”), il mio romanzo in versi racconta uno stallo, un «falso movimento»4, da cui il titolo. Se l’epica in Pagliarani era «interdetta: intravista, tentata»5, oggi diventa semplicemente impossibile: non resta, data la colpa al capitalismo, che verificarne gli effetti, a bocce ferme e senza alcuna possibilità di azione, in una «penitenza autoinflitta» che è il modo rimasto di «dire il dissenso». Il «vuoto immenso» evocato in questo mio testo, nonché l’immaterialità informatica tematizzata ne Le vite potenziali, erano già allusi nella danza spettrale che chiude La ballata di Rudi attraverso una serie di affondi in ambiti, dall’alta moda alla burocrazia, dalla genetica all’economia (nella straordinaria Adesso la Camilla gioca in borsa: tra gli apici di Pagliarani tutto), che hanno finito per dominare e monopolizzare il discorso contemporaneo. Ma è il pieno, appunto, che svuota, l’eccesso che nullifica (anche questo c’era in Pagliarani: «bisogna fargli vedere che c’è tanto da fare e bisogna dargli / tanto da fare che a nessuno rimanga in capo una sola idea propria»).

Chiudo su una nota stilistica e su un’ipotesi critica. In una lettera a Fausto Curi del 2000 Pagliarani parla del suo impegno, «già dai miei vent’anni precisi, all’abbassamento del linguaggio poetico» e aggiunge «abbassamento perseguito non privilegiando un linguaggio programmaticamente basso e umile, ma con l’ampliamento del lessico, con l’attribuire possibilità, capacità di poesia a tutta la lingua italiana nel suo insieme». Ecco, in questo testo cita Pascoli. Che ha dato vita, coi Poemetti, alla poesia narrativa italiana contemporanea. Che ha sperimentato per primo nel ‘900 un vero plurilinguismo. Che è stato modello fondamentale per il Pasolini poeta. PPP. Pascoli-Pagliarani-Pasolini. Non può essere questa, ben poco esplorata, una delle linee della poesia italiana del ‘900 più fertili nel XXI secolo?

1 A. Cortellessa, La parola che balla, introduzione a E. Pagliarani, Tutte le poesie (1946-2005), Milano, Garzanti, 2006, p. 8.

2 Ivi, p. 16. Senza dubbio questo sguardo su una città cui non si appartiene ha dato molto alla Padova dei miei primi due libri.

3 Ivi, p. 11.

4 A. Cortellessa, Tutte le direzioni, in F. Targhetta, Perciò veniamo bene nelle fotografie, Mondadori, Milano, 2019, p. 254.

5 A. Cortellesa, La parola che balla, cit., p. 47.