p. 35-37 > PERCHÉ PAGLIARANI

PERCHÉ PAGLIARANI

Un avvicinamento in nove passi

Francesco Muzzioli



Primo passo. Ho prediletto Pagliarani fin dall’inizio, ai tempi della mia tesi di laurea sulla “poesia sperimentale”. Ero già allora fortemente brechtizzato e tra i Novissimi Pagliarani era evidentemente quello che mostrava con più immediatezza una istanza politica. Ho dovuto leggere attentamente Adorno per capire come la “separatezza” degli altri fosse un’altra modalità di contestazione. Nello stesso tempo, però, non mi è mai sembrato giusto separare Pagliarani dall’area sperimentale del Gruppo 63: non mi pareva fuori, semmai all’ala sinistra del movimento.

Secondo passo. Non solo perché il suo racconto si svolge in versi e quindi lavora con procedimenti che allontanano il linguaggio dalla prosa, ho riconosciuto abbastanza presto che quello di Pagliarani non era un semplice realismo di “personaggi tipici in circostanze tipiche”. Ed era evidente che la realtà sociale che gli forniva il contenuto non era avvolta da alcun mito: non il mito della classe operaia motore della storia che dominava la sinistra di allora, ma neppure il mito del sottoproletariato vergine di storia che caratterizzava la coeva esperienza di Pasolini. Per Elio si potrebbe parlare di una ricerca impregiudicata nella complessità sociale reale.

Terzo passo. Si pensi alla Ragazza Carla, in buona dose inserita nella antologia fondativa dei Novissimi. Se in quel poemetto c’è un argomento sociologico, esso è relativo a un ruolo lavorativo intermedio. Carla è una aspirante segretaria. Il suo posto è quindi a metà strada, è sottoposta al potere (e si accorge subito di quanto pesante sia), ma in qualche modo di lato, non al livello dei più bassi subalterni. Pagliarani ce ne mostra il doppio sfruttamento, trattandosi di un soggetto femminile, perché già a quell’altezza nel mercato ci sta anche un mercato del corpo, con le sue leggi non scritte. Il poemetto mette il suo obiettivo su un addestramento alla maschera sociale, su un processo diffuso di sussunzione nell’industria.

Quarto passo. Ma a guardar bene l’impegno di Pagliarani non è esclusivamente descrittivo (per quanto abbia il suo valore la percezione dell’evoluzione della piccola borghesia del nord-Italia). L’impegno di Pagliarani è soprattutto etico. Però attenzione: non una reprimenda morale sul comportamento dei suoi personaggi e ancor meno una satira. Né, viceversa c’è pietosa comprensione, punto di vista umanista e nemmeno umanitario che lamenti le sorti dei sottoposti. La sua è una morale integrale, che parte dallo stato di necessità («Necessità necessità verbo dei muti»…). In questo senso, la qualità dei personaggi diventa la capacità di sopravvivenza nella giungla della città, la Milano industriale con il suo «cielo d’acciaio che non finge / Eden e non concede smarrimenti». Questo tipo di etica “ferrea” esclude anche ogni compensazione di tipo lirico. Non a caso la conclusione è la bellissima rima equivoca tra “amare” verbo e “amare” aggettivo («amare lacrime»).

Quinto passo. Così la morale in Pagliarani non prende la strada dell’esortazione né quella del compianto. Prende, semmai, la strada dell’invettiva. Se, quindi, è vero che il suo sperimentalismo consiste in una forma di plurilinguismo, sia di linguaggio che di generi e di toni (vedi quegli scarti anche metrici tra un segmento e un altro della Ragazza Carla, per non parlare della frammentazione radicale della Ballata di Rudi, definibile un “poemetto a pezzi”), tuttavia l’impennarsi dell’invettiva dimostra: 1) l’uso polemico del linguaggio, attivato come un corpo contundente; e 2) una istanza non dialogica, perché l’invettiva tende a escludere il suo destinatario e a negargli la risposta. Messaggio senza replica. E vedi l’utilizzo, nel Pagliarani più tardo, del testo di Savonarola negli Epigrammi ferraresi (il perentorio «Tu sei marcio», ecc.).

Sesto passo. Ci si emoziona con Pagliarani? Eccome, anche la rabbia è un’emozione e non delle minori. La rabbia, poi, genera scompostezza. Ed ecco raggiunto, in questa marcia di avvicinamento progressivo, un altro punto di appoggio importante. Il modo di comporre i suoi poemetti. Come dicevo, già la Ragazza Carla presenta disuguaglianze formali e décalages bruschi, ma soprattutto La ballata du Rudi è un vero e proprio testo di montaggio. Le varie parti provengono da momenti diversi, da ripensamenti e risistemazioni. Sicché i personaggi e i loro destini si perdono. Da questo punto di vista, Pagliarani coincide pienamente con l’opera disorganica dell’avanguardia. E in questa mancanza di unità può essere inserito senza problemi il brano meno narrativo (meno “antropomorfo”, direi) di Pagliarani che è Rosso corpo lingua, una serie di variazioni insistite e incalzanti sui gangli della vita sociale (il corpo, il denaro, il linguaggio, la religione, la scienza) e sulle possibilità di alternativa affidate all’espansione simbolica del colore rosso («rosso, un cerchio intorno, poi rosso su rosso», ecc.). Pagliarani “vede rosso”.

Settimo passo. La frammentazione ad alto grado della Ballata di Rudi va intesa nell’ambito di un processo di straniamento. La mia prima impressione “brechtiana” è stata poi confermata e approfondita nel tempo. Pagliarani è uno dei pochi autori brechtiani del nostro secondo Novecento. E non solo perché ha tenuto in vista il teatro, come autore nonché come critico attentissimo con il suo fiato dello spettatore. Lo straniamento, infatti, non è esclusivamente una tecnica di recitazione, ma è un atteggiamento artistico complessivo. Significa passare attraverso un punto di vista non preordinato e innescare una visione insolita e sorprendente. Significa anche un movimento contraddittorio, perché si guarda contemporaneamente dall’interno e dall’esterno di una situazione. Già il personaggio di Carla è portatore un simile spostamento; è dentro e fuori del meccanismo dell’assunzione. Ma forte straniamento c’è anche in Lezione di fisica: straniamento nel senso di una critica implicita, che demistifica la sostanza poetica, troncando il suo andamento normale e immettendo livelli “prosaici” di discorso, allusivi di una base materiale che sta fuori, ma torna continuamente con l’assillo del rimosso.

Ottavo passo. Proprio dalla tecnica di montaggio possiamo ricavare la distanza di Pagliarani – anche quando opera nel citazionismo – con la logica del postmoderno. La sua composizione non vuole soltanto riunire i lacerti eterogenei del mondo. La ricerca è quella che deve evidenziarne la disparità. Eccoci quindi giunti, dopo il progressivo avvicinamento, nel cuore di questa scrittura. Che è la logica del comporre; che sta, in altre parole, in un fondante elemento musicale, ma – al di là di quanto può risultare dal computo metrico, da rimbalzi di significanti o simili – proprio di musica moderna. Fondamentale è la dissonanza.

Nono e ultimo passo. Un piccolo corollario aneddotico. Tutti ricordiamo quando Elio leggeva i suoi testi. E per prima cosa colpiva il suono della voce, per niente armoniosa. Poi era curioso il suo modo di avvicinarsi al libro per leggere bene. Ma soprattutto era caratteristico il gesto che, con la mano eventualmente libera, si muoveva segnando il ritmo come un direttore d’orchestra. Sì, Elio orchestrava la sua poesia. Per carità, non dico che gli attori che lo hanno letto in passato o lo leggeranno in futuro non abbiano il diritto, come tutti gli interpreti, di orchestrarlo a modo loro. Dico solo che quel ritmo lui lo teneva sempre ben presente: lo sentiva pulsare ed era per lui l’essenziale. La pulsione dell’alternativa.