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I concreti furori: sentimento sociale e letterarietà

Roberto Milana

 

“Credere il genere umano perduto e non avere febbre di fare qualcosa in contrario…” questi come si sa erano gli astratti furori vittoriniani in Conversazione in Sicilia. Certo, specifici e altri contesti motivano questa condizione di sofferta abulia esistenziale, quello storico prebellico piuttosto tragico e annichilente e quello letterario ancora pieno di forme inveterate di protagonismo dell’io, di quella carità di sé   che Pagliarani poi denunciava a sé stesso  nel risvolto del suo primo libro Cronache e altre poesie del 1954 , con immediata e severa coscienza critica (prima traccia dell’epigrammatico “siamo in troppi a farmi schifo”).

Alla luce di questo doloroso revisionismo dell’impegno e parafrasando parole così dense e drammatiche diciamo che invece l’opera e direi, avendolo conosciuto da tempo, la vita di Pagliarani, sono  sempre state agitate da concreti furori, espressi in una ferma e dolce partigianeria così lontana dal  determinismo ideologico e dalle sue aporie. Concreti furori caratterizzati da un’attenzione fenomenologica e appassionata alla complessità dei torti sociali contemporanei in una cronaca letteraria del malessere  presentata in un  rilievo quasi etologico  a formare un’epica feriale in tempi e spazi spezzati nel ritmo e nella narrazione.

Nel continuum poetico di Pagliarani  circolano tante persone figurate, dantescamente cioè nel senso costitutivo dell’espressione, in tratti icastici ognuna col proprio gesto o la parola quotidiani di pena e di affermazione, declinazioni della  pietà oggettiva “I goliardi delle serali in questa nebbia/hanno voglia di scherzare: non è ancora mezzanotte/e sono appena usciti da scuola… Non so quanta saliva ha da secernere/la ragazza incollando francobolli… E l’accompagna Piero/che fa stenografia perché non vuole fare il ciclista col padre… Ma a Camilla queste storie non piacciono, mica è certa/d’aver fatto bene a entrare in borsa”. Comunque tagli di vita di alta intensità semantica dove parlano i corpi e i pensieri fittamente con un dinamismo umano e progressivo che riscatta ogni mediocrità di status, ogni solitudine del relato sfruttamento moderno, indicando vie nuove induttive e libertarie alla politica. 

L’atto espressivo di Pagliarani nasce e continua nelle sue diverse scritture con quello che Alfred Adler, lo psicanalista  ribelle al freudismo, chiamava il sentimento sociale, una spinta naturale ad aderire al mondo degli altri. “Un significato personale non è un vero significato… Una parola che avesse senso solo per una persona sarebbe una parola senza senso”. (What life should Mean to You, p. 69). Ma L’enfer c’est les autres,  insegna Sartre  certamente, ma in quel fuoco ci sono anche le utili possibilità del paradiso. Questa applicazione al confronto corporale e politico col mondo e i monnaroli, come diceva l’amato Belli,    si dota   nel tempo  di strumenti della più raffinata razionalità letteraria. Proprio quelli che alimenteranno il tocco di libera pedagogia nella leggera e ferma moralità dei suoi testi letterari e nell’impegno di formazione nei suoi laboratori, a offrire sponde nuove, più sicure  a giovanissimi intellettuali  un po’ persi, alle prese col riflusso politico generazionale della seconda metà degli anni settanta tra tossicodipendenze e terrorismo. Si trattava delle sponde della letterarietà come valore direi istituzionale, filologico, espressivo, sociale, tutto da poter rovesciare e ricostruire meglio al tempo che ci tocca vivere. “Ho già detto altre volte di credere ad una funzione sociale della letteratura, funzione che non esaurisce, beninteso, la letteratura, ma che è verificabile oggettivamente a prescindere da ogni intenzionalità. La funzione è quella di mantenere in efficienza, per tutti, il linguaggio…” (Intervento, in Gruppo 63, Il romanzo sperimentale, Milano 1966).  

Questa specie di manutenzione del linguaggio è presente in mobilità nell’intera scrittura di Pagliarani, già dalle prime prove si rompe continuamente quell’unità naturalistica dei dialoghi e dell’ambientazione con scarti di voci e di inquadrature a impedire l’attribuzione stanca del significato ovvio e suggerire  altre  opportunità semantiche. Il fenomeno si fa più intenso di movimento ne  La ragazza Carla dove l’edificio del poemetto è frammentato in piccoli piani differenti di narrazione  con immagini e parole di riporto con il senso tortuoso del percorso dell’oppressione di Carla  e poi per li rami di grande ispirazione, arrivare a quella festa mobile della Ballata di Rudi, dove altrettanti spazi e tempi si dilatano filosoficamente  in una dialettica di blocchi ora narrativi ora dichiarativi di sintassi fluida e affabulatoria. C’è sempre qualcosa di filmico nel linguaggio poetico di Pagliarani,  come già rilevato sia in sede critica che nelle stesse sue intenzioni espressive, ma in superamento del  neorealismo e verso i movimenti di macchina nervosi della Nouvelle vague, non solo nelle improvvise sequenze narrative ritagliate in montaggio, ma nell’azione sulla langue stessa, sul corpo dell’italiano storicamente  in progress,  tesa verso un’assidua definizione visiva e fonica dell’intimità del moderno sfruttamento sociale attraverso un tallonamento godardiano dei personaggi e una registrazione diretta di eventi. L’intimità in un lirismo straniato in cui penetrano le sottili forme dello sfruttamento nella nuova società di massa che si affaccia dagli ultimi anni cinquanta fino addirittura alla condivisione odierna dell’io del malessere  che comporta. Sono atti sofisticati del nuovo dominio senza padroni, in apparenza. Pagliarani ha colto i temi nuovi di un conflitto classista mai sopito  e di una forte attualità culturale, basti pensare alle riflessioni di filosofia sociale del coreano Byung-chul Han.

Fenomeni ormai radicalizzati  dalla diffusione della tecnologia digitale e forse anche nell’esperienza audiovisiva di Videor allora Pagliarani  sentiva la necessità di  forme di resistenza e, rievocando il frasario di allora, di riuso del mezzo, piccoli atti di  guerriglia semiologica, per una invece attualissima sopravvivenza di specie.

Pagliarani ha portato l’avanguardia nel canone, con un’ operazione copernicana  e nuovissima nell’accidentato novecento. Gli elementi d’avanguardia del suo sperimentalismo si ricompongono in una scrittura non finita e culturalmente risolta, in un linguaggio di forte intensità sociale che  si fa letterario  in dialogo fitto con le componenti direi secolari della tradizione e si  colloca nel canone italiano tra gli scrittori che toccano senza folclore e programmaticità lo spirito del tempo e del paese vivo.