Incontri con Elio
Marco Caporali
Incontrai la prima volta Elio Pagliarani il 12 novembre 1985, il giorno in cui era uscita su “Reporter” una mia recensione a Esercizi platonici. Lo chiamai per informarlo e mi disse di portargli l’articolo. Diverse volte ebbi modo di tornare nella sua casa di via Margutta, ma la ricordo ancora con gli occhi di quella prima volta. In quell’oscuro atrio, seduto di fronte a me leggeva l’articolo, soddisfatto lo riponeva e mi chiedeva, senza che io gli avessi accennato al mio scrivere versi, di tirar fuori le mie poesie, sicuro che le avessi nella borsa. Così iniziò la nostra amicizia, con passeggiate nel quartiere che avevano spesso per meta le bancarelle di libri. Inesauribile narratore di storie e di aneddoti, appassionato conoscitore di antichi libri e del loro valore, la sua compagnia era fonte inesauribile di riflessioni e stimoli.
Quando, nel febbraio del 1988, quasi dieci anni dopo un’analoga iniziativa, inaugurò presso il centro culturale “La ragnatela” in via dei Coronari un laboratorio di poesia, mi prese come assistente, o almeno così mi sentivo. Ho vaghi ricordi e quel che mi aiuta è un articolo che scrissi allora per la cronaca romana de “Il Messaggero”. Gli incontri si tenevano ogni giovedì alle 17,30, per un totale di quindici e un costo complessivo di 150.000 lire, 70.000 per gli studenti. Della quarantina di partecipanti, pochi erano i giovanissimi, a differenza di quanto accadeva, credo, nel suo primo laboratorio. Subito Elio invitò a rompere il ghiaccio, chiedendo ai presenti di leggere i loro testi, per entrare nel vivo di un lavoro comune. Far nascere le considerazioni tecniche dalla pratica di scrittura, riducendo al minimo i preliminari teorici, era alla base del suo metodo di lavoro, a cui mi attenni nei laboratori che in seguito ho tenuto, in particolare con i ragazzi a scuola. Di quel laboratorio ricordo la presenza un giorno di Amelia Rosselli come insegnante e di due poeti partecipanti, Paola Febbraro (che lì conobbi) e Fabio Ciriachi che conoscevo appena. Ricordo anche lo spunto che una volta prese da un articolo su una sfilata di alta moda. A partire dalla considerazione che ogni linguaggio può diventare linguaggio poetico, ci cimentammo con la cronaca giornalistica, ma pure con regole fisse come quelle del limerick.
Nel giudicare i versi, Elio non aveva mezze misure, approvava, a volte con entusiasmo, o rifiutava, con i sensi, prima che con l’intelletto. D’altronde la poesia, come l’arte in genere, era per lui questione di pancia. Ricordo letture collettive nella sua casa di via Margutta. Ascoltava con attenzione ed esprimeva consenso o scontento. Ricordo ad esempio una volta che rimase colpito dalla poesia di Gianfranco Palmery, che non conosceva e di cui credo piacesse l’inusuale qualità della scrittura, l’originalità di una voce estranea alle tendenze dominanti. O quando gli feci conoscere Cristina Annino. Lì era l’estrema libertà espressiva ad affascinarlo, e quando seppe che pubblicava con “Corpo 10” si sorprese e intristì, di fronte alla sordità della grande editoria. Raramente i suoi rifiuti erano dettati da idiosincrasia. Sapeva intendere i punti di forza, nonché i rischi in agguato, del banale in alcuni, dell’astruso in altri. Per lui non esistevano nell’arte vie maestre, pur essendo impegnato in una precisa progettualità. Ma le questioni “politiche”, importanti nella sfera pubblica (quando ad esempio rifiutò di pubblicare su “Ritmica” un saggio sulla metrica contemporanea che mi aveva commissionato, pur riconoscendo il valore dei poeti presi in esame, a scapito di altri), non intaccavano la sua capacità di rilevare la poesia ovunque essa fosse. Rifuggiva dalle spiegazioni e i suoi consigli erano attinenti a quel che ascoltava o leggeva, senza nessuna posizione aprioristica. Amava la poesia in quanto tale. Quanto più era astratta – diceva – tanto più aveva bisogno di elementi che la facessero restare a terra, di stazioni narrative, come nella favola di Pollicino che lasciava dei piccoli segni per ritrovare il sentiero.
Due furono le riviste che creò in quel periodo e a cui mi chiese di collaborare: la già citata “Ritmica” e “Videor”, videorivista edita dalla “Camera blu”. Le videocassette rispondevano alla necessità di documentare l’esecuzione della poesia, il suo aspetto performativo, e il primo numero era dedicato a un grande performer appena scomparso, Adriano Spatola. Rispondeva alla necessità di registrare le diverse modalità di narrazione orale, a partire da una duplice fonte, colta e popolare, il cabaret dadaista e futurista e la poesia a braccio. Elio credeva nello stimolo reciproco tra i generi, e riteneva l’esperimento di Videor “un po’ come il primo cinema rispetto al teatro. Mediante il video – mi disse in un’intervista per l’Unità – vogliamo accrescere il valore d’uso, far durare la performance oltre l’evento”. E quando gli chiesi se le sue esecuzioni, in cui si esaltano le modalità fonico-ritmiche della partitura e le modulazioni della voce, alternando a momenti di concitazione verbale e gestuale, accompagnati da improvvisi sbalzi di tono, fasi più distensive, non si situasse a metà strada tra lettura tradizionale e teatro, rispose che la definizione poteva andar bene “se con teatro si intende quello del Living, un teatro di corpo, fiato, respiro, gesto”. Aggiungendo che “l’arte è essenzialmente sensoriale. E’ la scienza ad essere intellettuale”. E la passione comune per un teatro che privilegiasse tale dimensione creò fra noi un ulteriore legame, come quando ci recammo insieme al teatro India nel 2000 allo spettacolo Mythos dell’Odin Teatret. Amava il teatro di Barba dai tempi di Ferai e rimase impressionato dall’intensità espressiva di Iben Nagel Rasmussen, attrice storica del gruppo.
Fu la pratica della trascrizione, del montaggio e della scansione, a sollecitare la mia scrittura quando decisi di confrontarmi, nel mio libro di poesia e variazioni Il silenzio venatorio, con l’opera di Kierkegaard e con gli stessi Discorsi a tavola di Martin Lutero, a cui Elio aveva attinto in quanto vi è di più corporeo e viscerale. Mi stimolava in particolare il linguaggio filosofico del libro grazie al quale ci siamo incontrati, e che più di tutti mi è caro, Esercizi platonici, ossia la forma più chiusa, meno teatralizzata della sua poesia, pur attraendomi il contrasto e l’antitesi propria degli epigrammi, in cui pure l’alterità rispetto ai linguaggi correnti trova sostegno e sostanza nel passato. Negli esercizi la modalità dominante è l’interrogazione, un argomentare interrogante, dove l’assertività è corrosa dal dubbio. E’ un interrogarsi intorno a ciò che sfugge a una definizione, all’elemento indeterminato della scrittura poetica, all’inafferrabile concetto di arte. Un interrogarsi sul rapporto tra oggetto, corpo, memoria e parola, tra i sensi e la razionalità, in cui l’espressione colloquiale viene distillata fino a un massimo di forza espressiva. Per concludere, nel variegato territorio dei suoi insegnamenti, tra i più decisivi è un memorabile verso degli Epigrammi ferraresi: “Come è sera rompi il muro: non uscire dalla porta”.