Un lascito prezioso
Gualberto Alvino
Nel 1977 partecipai al Laboratorio di Elio Pagliarani presso la galleria «La tartaruga» con Claudio Giovanardi, Giuseppe Manfridi, Arnaldo Colasanti, Felice Paniconi, Edoardo Albinati, Marco Lodoli, Paolo Del Colle, Chiara Scalesse, Sandra Petrignani e molti altri giovanissimi poeti, critici e letterati romani. L’argomento del corso era l’epigramma, tema per me intollerabile, sia perché lontano anni luce dai miei interessi d’allora, sia soprattutto perché inorridivo al solo pensiero di dover lavorare a tema. Insofferenza e ingenuità della giovinezza.
«Non scriverò mai un epigramma — risposi alla sua domanda sul motivo della mia partecipazione —: sono qui per saccheggiarti. M’interessa il tuo tono, la musica che insegui e pieghi ai tuoi fini: bassa media alta; inferno purgatorio paradiso. Tu sei tra i pochi che riescano oggi a tramutare in canto persino il ronzio d’un’ape. Voglio conoscere i tuoi segreti di fabbricazione».
Mi sbirciò con un lampo di diffidenza: detestava gli eccessi e la tracotanza. Ero un ragazzo troppo sicuro di sé: altero, sprezzante, e lui preferiva — incredibile dictu! — gli allievi compìti, gentili, ammodo.
Invece scrissi non uno, ma decine di epigrammi che riuscirono a strappare il suo pieno consenso (Elio era un pedagogo non meno discreto che sapiente, larghissimo di “voti”).
Ma non fu un idillio.
Una sera, dopo la lezione, in pizzeria, parlai malissimo di quello che all’epoca si chiamava «clan Moravia» (Pasolini, Morante, Maraini, Siciliano…):
«Detesto — dissi — i romanzi di Moravia quasi quanto i suoi accoliti: spadroneggiano nei giornali, in televisione, dappertutto, e a stento sanno fare la propria firma».
Con Moravia non aveva nulla, assolutamente nulla da spartire, eppure si scagliò contro di me con un’acredine che mi paralizzò e mi tolse l’appetito.
Pensai d’essere uscito definitivamente dalle sue grazie, ma mi sbagliavo: giorni dopo invitò me e altri compagni di corso a casa sua, in via Margutta, e fu affabile, paterno, tenerissimo:
«Ho letto — sussurrò con la sua inseparabile pipa di schiuma tra i denti — il brano di romanzo che mi hai dato: niente male, proprio niente male. Sai lavorare benissimo sulla lingua. Mi piacciono molto le tue torsioni formali. Devi solo cercare di essere meno severo quando scrivi»: parole testuali, impresse a fuoco nella mia memoria.
Mi sfuggì il senso di quel «severo» e non ebbi il coraggio di indagare, ma riflettei per settimane, con più d’un incubo notturno, e alla fine mi parve di capire: alludeva alla rigidità del mio linguaggio, sempre pertinacemente aulico, senza la minima escursione verso il basso.
In quell’anno imparai molte cose, come tutti voi, del resto. Queste soprattutto: l’elasticità e l’artigianalità compositiva, la necessità di suonare non una ma molte corde e l’importanza fondamentale della revisione: tornare sui proprî passi continuamente, instancabilmente, ossessivamente, «perché — ripeteva — ogni correzione spalanca davanti ai nostri occhi un nuovo mondo».
In una delle ultime lezioni trovai una piena conferma alla mia intuizione: ci parlò, infatti, di come intervenne su un suo antico testo, Se facessimo il conto delle cose (da Inventario privato, 1959), in cui — se non ricordo male — una luce al neon si tramutava in «lampada fulminata», conferendo al dettato maggiore asciuttezza in grazia dell’efficacissimo correlativo oggettivo. Variantista convinto, ne rimasi incantato. Permettetemi di leggerlo per intero, giacché lo considero uno dei testi più commoventi — in senso ovviamente etimologico — del nostro indimenticato maestro:
Se facessimo un conto delle cose
che non tornano, come quella lampada
fulminata nell’atrio alla stazione
e il commiato allo scuro, avremmo allora
già perso, e il secolo altra luce esplode
che può farsi per noi definitiva.
Ma se ha forza incisiva sulla nostra
corteccia questa pioggia nel parco
da scavare una memoria — compresente
il piano d’assedio cittadino in tutto il quadrilatero
e curiosi dei pappagalli un imbarazzo
ci rende, per un attimo, dicendoti dei fili di tabacco
che hai sul labbro, e perfino una scoperta
abbiamo riserbata: anche a te piace
camminare? (e te non stanca? che porti
tacchi alti, polsi, giunture fragili
che il mio braccio trova a fianco,
il tuo fianco, le mani provate sopra i tasti
milanese signorina)
se ci pare che quadri tutto questo
con l’anagrafe e il mestiere, non il minimo buonsenso
un taxi se piove separé da Motta
Ginepro e Patria poltrone alla prima
ci rimane, o dignità, se abbiamo solo in testa
svariate idee d’amore e d’ingiustizia.
È passato quasi mezzo secolo da allora, e quella “classe” si è dispersa. Per qualche anno continuai a frequentare alcuni di voi, ma poi le circostanze della vita ci hanno separati. Tuttavia, non ho mai smesso di pensarvi e di sentirvi come compagni di scuola, come figli di quel padre leale, burbero e generoso.