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Via memoriæ/ Via crucis

Marco Caporali


C’è un filo che lega le varie raccolte poetiche di Marco Palladini, e attraversa quest’ultima Via memoriæ/ Via crucis: il minare alle fondamenta lo statuto della poesia, fino a lasciare che il discorso corrente se ne appropri. Così accade ad esempio in Cent’anni di comunistitudine, in cui lo scarto del discorso poetico rispetto a un piano enunciato, a un’ argomentante analisi storica, è pressoché inesistente, se non fosse per quel ritmare le frasi con una  barra divisoria, in cui la poesia scende giù dal suo pulpito, si fa trattatello storiografico. Pagliarani diceva che la differenza della poesia dalla prosa è semplicemente nell’andare a capo. Qui viene meno la residua differenza, nel rifiuto di fare della poesia una lingua separata in un mondo in sé concluso. Nel bisogno di aprirla, di contaminarla, di abbassarla, come nella ballata del Sessantotto,  il linguaggio poetico, mimetico dei linguaggi, si sottrae alla torre d’avorio in cui è relegato. Palladini, a differenza di molti autori d’oggi a cui la cosa appare anacronistica, continua a porsi il problema della lingua, a interrogarsi e a sperimentare. Il discorso della poesia non si può autogiustificare, ma nel suo confrontarsi con altro può trovare giustificazione. “La poesia come sguardo sull’altro che si riempie/ di luce e di senso…”, in questo libro è un susseguirsi di sguardi ogni volta diversi quanto diversi sono coloro che rievoca, poeti, teatranti, uomini del nostro tempo che sono scomparsi.

La via della memoria è una via crucis da percorrere in compagnia di coloro che gli sono stati compagni, che sono parte innanzitutto della sua memoria di poeta, e che vengono storicizzati al pari del ’68, del ’77, delle date salienti dei nostri trascorsi. Che formano in sintesi, che rendono possibile, quel che Palladini è, esistenzialmente e poeticamente, lasciando però che sia la lingua a scandagliare, che dalla lingua scaturisca la figura. Una lingua a volte esibita, sempre in primo piano, in un’aperta ricerca delle sue possibilità espressive, una lingua che si dispiega e si ripiega, come il mantice di una fisarmonica, una lingua sempre tesa, a tutto campo, in posizione di sfida, non addomesticata, e al contempo sottoposta alle ragioni del dire. E le figure che la lingua traccia sono tutte antitetiche a un ordine che vorrebbe tacitarle. Una lingua che non si accontenta di sé ma si impenna, si sforza di uscire da sé, si scuote fino a reinventarsi, a negarsi, ad autoannientarsi, a giungere al borbottio, all’insignificanza, oppure a dispiegarsi fino alla sua natura simbolica, di un’alta rappresentazione di sé e delle cose. La varietà delle sue composizioni è pari alla varietà dei linguaggi e dei creatori di linguaggio rievocati. Palladini è un autore pluricorde, inventore di neologismi fin dal sorprendente esordio di Et ego in movimento (I Quaderni di Barbablù 1987), fagocitatore di linguaggi che nel suo laboratorio si riciclano, come nel remix di Celiniana, il più alto momento orchestrale del libro. Nel laboratorio di Palladini entrano in egual misura i detriti di un mondo seriale e il sublime dell’arte. E ciò lo rende atipico nel panorama odierno. La sua lingua è dissacrante ma capace di sacralizzarsi, il balbettio di riscattarsi. Credo che il suo antecedente più prossimo sia il Pasolini di Trasumanar e organizzar.

Il suo sperimentalismo è di tipo viscerale. La poesia gli prende la mano, non si fa pregare.

La memoria in questo libro è memoria dei maestri e dei compagni di strada, di coloro che l’hanno resa possibile, da Sanguineti a Ferlinghetti a Bene a Rigoni a Carella a Zeichen, da Pagliarani a Spatola a Bordini a Toni a Cinieri a Lunetta a Reim, passando per altri eroi del nostro tempo come Maradona e gli alpinisti Ballard e Nardi, e a qualche vivente (pochi) come Maria Jatosti. La galassia dei mai pacificati. E con essi il fertile humus dell’utopia. Come è detto nella poesia per Giorgio Cesarano: “Proust mente: il tempo in sé non si può raccontare/ Tra tensioni e memorie lo puoi soltanto delirare/ Il nostro tempo collassa sempre su se stesso/ Il suo fantasma ci attraversa e s’involve nell’adesso”. Nell’interazione con l’altro si può tendere a scomparire, o viceversa si parte da sé, facendo emergere la relazione, quel che per sé ha significato l’altro. E l’ancoraggio al discorso, nella sua qualità enunciativa, non ne impedisce il sommovimento, il suo terremotarsi, con opposte pulsioni verso il sublime e il suo annientamento. Tale spinta contrastata vivifica il discorso, e lo porta ad essere, nei suoi momenti di più alto pathos, in una sfera di assoluta comprensibilità e mistero, come se tutto fosse detto ma restasse tuttavia un margine, “i piccoli bordi” della poesia a Bordini, che si identificano con la poesia stessa.

Palladini riesce a calarsi nell’altro e a mantenere uno sguardo critico, una distanza. Il nostro compito è “l’elaborazione della differenza”. Una differenza contrapposta all’indifferenza. Il simbolico si incarna nel materiale, e la tensione “dell’artefice poetico che fonda un nuovo ordine della visione” a prendere possesso della materia si manifesta nella tecnica elencativa, nell’ansia enumerativa che mira a impossessarsi della “cosalità”. Stare “dentro le cose” è un atto visionario. In una grande vivacità linguistica, la via della memoria diviene una via crucis in cui ogni persona rievocata è una stazione, verso il “confine…sconfinato” del post-scriptum, l’attualità della guerra, “la patologia/ dell’inverosimile che si rende verosimile”. E d’altronde la nascita è “qualcosa che sta venendo fuori con il forcipe/ della storia più immonda che infatti si annuncia/ ad un bivio nella bruma con un fremito di horrore”. Sono tappe di un cammino in cui ritrova i propri riferimenti, le proprie coordinate. Come scrive Antonio Francesco Perozzi nella prefazione, “il libro di Palladini appare tanto aggressivo e battagliero quanto spaventato e rapito, colto alle spalle”. E’ intimorito l’andamento spavaldo. Nell’Immemoriale di Carmelo Bene che inaugura il libro, il “tempo artistico” è un “eterno attimo”, al di là della stessa recita perché lì si sostanzia la vita. Carmelo Bene, “puro artifex/ del depensamento di sé medesimo”. Quindi “immemoriale”. Perché lì si esiste, lì si è vivi. Lì non c’è memoria. La memoria che àncora a quel che non è stato, come i “piccoli bordi” della poesia a Boldrini che “producono scenari che forse/ non sono mai stati e smarriscono le distinzioni/ tra il reale che si dilegua e il visionario che si impone”. Il puro artifex coincide con la pura verità dell’attimo eterno, nell’ossimorica verità della poesia.

Non riducibili a giochi verbali, i ritratti scaturiscono dai nomi. Congeniale alla vena sperimentale di Palladini, l’acrostico sancisce la separatezza della scrittura. Dal nome con cui la persona si identifica, con cui si compenetra, nasce la persona-parola, un essere identificato con la parola che lo chiama. Il cortocircuito dell’acrostico. Non è un semplice artificio, è il nome che si fa persona, nel conflitto-compenetrazione tra “cosalità” e scrittura. Nel loro cortocircuitare. E anche gli anni-simbolo, ’77, ’68, i più vasti contenitori, sono trattati come persone, come coloro che hanno fatto la storia della poesia e dell’arte.   

Marco Palladini, Via memoriae / via crucis, Roma, Gatto Merlino, 2022