p. 2-25 > La poesia democratica del poeta alchimista

 

Abstract

La consapevolezza della natura politica del linguaggio accomuna il percorso poetico di Elio Pagliarani a quello di altri autori del Gruppo 63.  Verificare e vivificare la lingua, smontare gli automatismi e i conformismi alienanti che connettono significante e significato è stata un ambizione costante del poeta di Viserba. La democratizzazione del verso è stato invece uno dei suoi tratti più originali: un percorso che passa attraverso l’allargamento dei registri, la metabolizzazione  in chiave poetico-biologica del linguaggio tecnico-scientifico,  il moltiplicarsi “brechtiano”-teatrale dei punti di vista e il superamento dell’autorità mistificatoria di un io elegiaco. L’avversione visceralmente morale a ogni potere accentratore, a ogni conformismo e/o mistificazione del linguaggio,  ci sembra in effetti essere la cifra più potente, l’impronta più originale e ancora oggi potenzialmente feconda della poesia di Elio Pagliarani.  Una poesia che ha sempre provato (anche nelle ultime, meno "ottimistiche” prove) ad essere un potente strumento “alchemico” di rigenerazione del linguaggio e in ultima analisi della democrazia: solo verificando che l’immaginario collettivo non sia inquinato da falsificazioni arbitrarie (e sia invece quanto più possibile prodotto di punti di vista

molteplici e autentici), si può tentare di (ri-)pensare una società realmente democratica i cui valori siano davvero condivisi e non imposti o peggio ancora mistificati da qualsiasi forma di potere.

The awereness of the political character of the language associates Elio Pagliarani’s poetic path with other authors belonging to Gruppo 63. Verifying  and reviving the language itself (dismantling the  automatism and the alienating conformism which connect signifier and signified) has been a constant ambition of the poet from Viserba. Whereas, democratising his verses has been one of his most original features. It’s a process that goes through the widening of the linguistic registers,  the metabolization of technical-scientific language towards a poetic-biological translation, a  “brechtian”-theatrical  multiplication of points of view, and the overcoming of the mystifying authority of  an elegiac ego. The viscerally moral aversion to any centralizing power, to any  conformism and/or mystification of the language, seems to us, in fact, the most powerful access code to his work, and the most  original and still potentially fertile print of  Elio Pagliarani’s poetry. A poetry that has always tried (also in the last, less “optimistic” attempts) to be a powerful “alchemic” tool, able to regenerate the language and, finally, the democracy itself. Only verifying that collective imaginary is not contaminated by arbitrary falsifications (and instead it should be, as much as possibile, the product of different, multiple and authentic points of view) it would be (maybe) possible to think on a truly democratic society, which values could be authentically shared, and not imposed (or- even worst- mystified) by any forms of power.

 

Keyword

Decennale, poesia, democratica, linguaggio, vivificare

Tenth anniversary, poetry, democratic, language, reviving

 

        

La poesia democratica del poeta alchimista
Marco Ricciardi

In un 2022 caratterizzato dalla celebrazione di importanti centenari delle letteratura italiana – pensiamo in particolare a Manganelli, Bianciardi e soprattutto alla macchina monstrum celebrativa pasoliniana- il decennale dalla scomparsa di Elio Pagliarani rischia di passare, colpevolmente, in secondo piano. Certo, al netto del valore degli autori coinvolti, per una sorta di mistica numerologica o di mera cadenza statistica, un centenario acquisisce naturaliter un peso specifico maggiore di un decennale.  Perché celebrare adeguatamente  e ripensare in profondità Pagliarani oggi però,  a dieci anni dalla scomparsa,  è così importante? Basterebbero di certo la parole di Walter Pedullà,  che lo ha definito tra i poeti «di più violento impatto emotivo del secondo Novecento»[1],  a dare la giusta dimensione del Nostro e a giustificarne qualsiasi eventuale sovraesposizione commemorativa. A nostro avviso ci sono però altri elementi, di ordine epocale, storico, che ci dovrebbero  spronare ad innalzare il livello di attenzione sull’ importanza della potenziale eredità culturale del poeta di Viserba nel panorama asfittico-cianotico della letteratura politico-civile italiana (e non solo) contemporanea. Con l’avanguardia e il gruppo ‘63 di cui Pagliarani fu al contempo uno dei componenti più autorevoli e sui generis, condivide  un elemento costitutivo fondamentale e fondativo (ferramenta quando mai indispensabile in un ecosistema comunicativo globale oggi sempre più alterato in senso mono-oligopolistico): la consapevolezza della natura profondamente “politica” del linguaggio.  Un consapevolezza appunto de facto metodologicamente condivisa con  altri scrittori sodali del movimento d’avanguardia, ma che per i suoi esiti espressivi e stilistici (ma più ampiamente diremo persino filosofico-politici), vale la pena di andare ad approfondire in dettaglio proprio per coglierne gli elementi più originali e, a nostro avviso, più durevoli e culturamente fecondi soprattutto alla luce dello scenario storico-culturale attuale, a soli dieci anni dalla scomparsa. Per approcciare a questa dimensione fondamentale dell’officina poetica del poeta di Viserba non si può prescindere ovviamente dalla rilettura di uno dei testi teorici più importanti pubblicati da Pagliarani (ma potremmo dire più in generale dal Gruppo 63)  ossia dal Manuale di poesia sperimentale[2].

 

Verificare e vivificare la lingua                         

La pubblicazione nel 1966 del Manuale in collaborazione con Guido Guglielmi ha una certa rilevanza soprattutto perché all’antologia di alcuni poeti contemporanei divisi secondo due categorie (poeti dell’espressione o della comunicazione) viene anteposta un’introduzione teorica scritta a quattro mani con Guglielmi che ha, in un certo senso, il valore di manifesto di certa poesia d’avanguardia, ma che, più in particolare, chiarisce l’atteggiamento e le posizioni teoriche dalle quali  si era mosso e si muoveva il poeta viserbese in quegli anni. Anni in cui erano state pubblicate le sue prime raccolte di poesia, e aveva preso forma, in modo decisamente più netto e convincente, il suo approccio stilistico e ideologico (nel panorama, peraltro davvero turbolento e fecondo, della comunità letteraria  italiana di quegli anni).  Attorno a riviste come “Il verri”, “Officina” (che nel ‘66 ha già da un po’ terminato le pubblicazioni), “Nuova corrente”, “Il Menabò”, si aprono e si chiudono dispute letterarie tra ermetici e antiermetici, poeti d’avanguardia e “tradizionalisti” che vedono un loro acme nel convegno di Palermo del 1963 quando viene sancita la nascita dell’omonimo Gruppo 63; La posizione di Pagliarani nei confronti della lingua poetica è piuttosto chiara: consapevole della carica ideologica e nei condizionamenti sociali che nella lingua vanno a irreggimentare i rapporti tra il significante ed il significato, la funzione della poesia sarà essenzialmente quella di verificare l’autenticità e la funzionalità di questi rapporti, e di testare  la capacità autenticamente comunicativa di un sistema di segni che la cultura di massa rischia di trasformare e di sabotare a suo piacimento: la lingua e con essa la poesia, che ne è un’espressione emblematica ma pur sempre un’espressione, «non può intendersi senza un ricorso a elementi extralinguistici storico-culturali»[3].

      Questa analisi, che certo prende spunto da considerazioni d’ispirazione marxista o forse sarebbe meglio dire “lukacsiane” lascia però poco spazio a spunti eroico-rivoluzionari  –tantomeno palingenetici- perché è pianamente consapevole della pervasività della società di massa e della posizione minoritaria,  d’opposizione critica, ma sostanzialmente limitata, del poeta (si potrebbe più largamente dire dell’artista o dell’intellettuale contemporaneo). Questo brano del Manuale chiarisce limpidamente la posizione riformista, di realismo operativo (in senso lukacsiano appunto) ed interna assunta da Pagliarani in quegli anni:

«Oggi, come i modelli di comportamento culturali, così anche i modelli linguistici sono realizzati, in maniera egemonica, dall’industria, attraverso una politica di comunicazione di massa, di cui qui non si intende peraltro mettere in discussione il ruolo storico. E giacché solo apparentemente si può stare fuori dall’industria e dall’universo della comunicazione, non si possono proporre modelli alternativi reali, bensì solo modelli di opposizione che traggono la loro validità da un’intenzione critica. Il compito della poesia sembra essere soprattutto un compito di verificazione, di ricostruzione critica delle funzioni della lingua. I poeti moderni sono costretti a fare i conti con gli istituti linguistici esistenti, in un impegno costante di rilevazione della povertà e della lingua che viene costantemente caricata di significati interpolati; e questo possono farlo a livello sperimentale, nella misura in cui non possono farsi istitutori di una nuova norma.»[4]

Dunque verificare e vivificare la lingua dell’oggi facendo i conti con la realtà linguistica contemporanea: questo il punto di partenza metodologico dell’officina poetica di Pagliarani in quegli anni. Laddove al disagio della cultura e di una lingua  di massa neocapitalistica in quel momento storico la poesia italiana, sta reagendo nei modi più disparati, ma con -in generale- la tendenza ad una vera e propria centrifuga dall’italiano medio: dall’ontologismo linguistico di Zanzotto all’antiermetismo ideologico di Pasolini, da quello che sarà appunto lo sperimentalismo linguistico del Gruppo 63 (nelle sue varie e spesso piuttosto diversificate espressioni pensiamo alle sperimentazioni estremisticamente decostruzionistiche di un Balestrini o alla caotica “palude” linguistica Sanguinetiana), all’affermazione di esperienze sui generis ed emblematiche  come quella di Amelia Rosselli (le Variazioni belliche sono del 63)[5]. Pagliarani arriverà invece in modo progressivo (e poi decisamente compiuto ne La ragazza Carla) ad  immergersi completamente nella lingua media piccolo borghese della società di massa, allo scopo di verificare attraverso l’«efficienza emozionale della lingua di ogni giorno sia il diritto di essere quello che è, sia il dovere di scartare l’anacronistico, l’ovvio, il retorico e l’utopistico»[6] (Pedullà); le scelte narrative, di ambientazione e stilistiche de La ragazza Carla saranno emblematiche: Milano, la città italiana certamente più moderna, più avanzata anche nel processo di massificazione, viene scelta come  il teatro verbale della vicenda, una metropoli «fatta veramente di parole»[7] (Fortini); la sua principale protagonista è la giovane Carla, piccolo borghese impiegata come segretaria in una società di import-export (impiegata e non, si noti, operaia); gli altri personaggi della vicenda, i familiari, i colleghi, i superiori, sembrano, assieme a Carla, far parte di un meccanismo ad incastro per livelli e gerarchie, di cui si ignorano le finalità come pure eventuali punti di fuga, sono figure che appartengono ad «un mondo meccanico, smisuratamente cieco, un po’ buffo, in cui ciascuno recita la sua brutta parte» (Giuliani)[8]. Sembra che Pagliarani voglia deliberatamente partire da un “grado (quasi) zero”, da un livello di quasi totale conformismo linguistico-culturale: l’impiegata Carla ed il suo ambiente milanese, in un certo senso, sono il correlativo oggettivo di questa dimensione alienata, in cui espressione, libertà culturale del soggetto e “funzione poetica” sono ridotte ai minimi termini. Tutti ottimi motivi evidentemente per attivare quella poesia vivificatrice e verificatrice alla quale, assieme a Guglielmi, Pagliarani farà poi a posteriori riferimento nel Manuale.

Nel percorso creativo poetico del poeta di Viserba, aperto con la pubblicazione di Cronache altre poesie[9] e che produce con La Ragazza Carla, probabilmente il suo primo frutto compiutamente maturo, diventa centrale l’idea di una poesia epistemologicamente umile, di “lotta e di governo”, in grado di ri-partire dal basso, dagli spazi del conformismo, del quotidiano, in quegli scenari urbani in cui “l’uomo a una dimensione” in quegli anni teorizzato da Marcuse[10] sembra trovare il suo perfetto correlativo: il tutto senza fughe elitarie nello sperimentalismo estremo ai limiti dell’extracodice,  senza tentativi di mitopoiesi consolatorie di spazi antropologicamente altri (alibi) o  rivalutazioni strutturali-metafisiche del linguaggio.  Una scelta, quella di Pagliarani, che ad una prima superficiale valutazione potrebbe sembrare di minor cabotaggio rispetto a percorsi coevi d’avanguardia (Sanguineti, Balestrini, Spatola, Manganelli, ecc.) ma che in realtà denuncia una fiducia -questa sì estremistica, coraggiosa, avanguardistica- nella capacità della stessa funzione poetica di poter resistere, sopravvivere, vivificare e vivificarsi proprio in questi spazi dimessi, quotidiani, esclusi geneticamente non solo da un dimensione naturalmente e letterariamente alta, ma anche da una contro-estetica maledetta-baudelairiana con i suoi potenzialmente pericolosi punti di fuga e sublimazioni della realtà (vedi il sottoproletariato pasoliniano).  Pagliarani non vede e non ricerca punti di fuga intellettualistici e/o letterariamente aristocratici dalla realtà, sente necessario immergersi nel linguaggio dell’hic et nunc e verificarne dinamiche, falsificazioni, mistificazioni, impoverimenti di senso, perniciose agglutinazioni, attraversandone ogni aspetto e dimensione, anche quella più refrattaria alla sublimazione poetica.  In questa modalità di approccio che è un po’ l’impronta digitale dello sperimentalismo di Pagliarani,  la poesia rappresenta uno strumento privilegiato, in prima linea, di avanguardia appunto, con cui verificare che linguaggio e società esprimano un immaginario i cui rapporti tra significante e significato, tra langue e parole, tra sovrastrutture e classi sociali siano davvero frutto di una mediazione e di una negoziazione libera, dinamica, condivisa, che in altri termini, sia davvero espressione di un linguaggio e di una società democratica.

 

Vettori di democratizzazione

La poesia di Pagliarani, fin da suoi esordi, progredisce stilisticamente su due fondamentali traccianti: una democratizzazione dei registri e una democratizzazione dei punti di vista. Andiamo a vedere il modo in cui questi due flussi procedono parallelamente (ma talvolta con velocità e intensità diverse) dalle poesie degli esordi fino alle raccolte probabilmente, e magari per ragioni diverse, più “compiute” dell’autore.

Il Pagliarani “in progress” di Cronache e di Inventario privato non è ancora quindi – indirettamente per sua stessa ammissione[11] - quello formalmente più maturo ed emblematico de La ragazza Carla eppure alcuni stilemi caratteristici dell’autore sono già chiaramente riconoscibili, stanno lì con una loro evidenzia autoriale che Pasolini stesso definirà, pur tra le riserve, nella sua recensione alle Cronache, come quella «misteriosa linfa»[12] che nutre e vivifica una poesia per altri versi ancora acerba e in fase di maturazione. C’è, in tutta la sua urgenza, il tentativo di allargare il lessico poetabile, inserendo termini del linguaggio quotidiano, o tecnico (spesso inserito nell’aurea di una dimessa familiarità o in funzione volutamente stridente all’interno del verso), proseguendo idealmente quel percorso di “democratizzazione poetica”[13] intrapreso da Pascoli e dai crepuscolari:

Supponiamo che io fossi nato oggi
Con questa pioggia che mi fa cantare
                  -Lavorano i taxi lavorano le carrozze
                    e cresce l’artrite a mio padre
È bello qui e non s’incontra un cane
svolta a Viserba Monte di Pietà
                   -prendi l’undici intanto che passa
                   Le scarpe sono una barca[14]

Termini tecnici, vengono spesso utilizzati con ironia caustica ben poco “letteraria”:

non so quanta saliva ha da secernere
la ragazza incollando francobolli, so
che cosa bruci per tenere in luce
te soave e i capricci[15] 

In particolare proprio l’utilizzo del linguaggio tecnico e/o scientifico diventa un elemento  progressivamente centrale in Pagliarani,  che tende pian piano a farsi largo (raggiungerà probabilmente livelli di massima intensità e centralità in Lezioni di Fisica e Fecaloro[16]) ma le cui numerose anticipazioni vengono già ampiamente elargite in queste prime raccolte:

È difficile amare in primavere
come questa che a Brera i contatori
Geiger denunciano carica di pioggia
radioattiva perché le hacca esplodono
nel Nevada in Siberia e  sul Pacifico
e angoscia collettiva sulla terra
non esplode in giustizia[17]

Questo allargamento del lessico poetabile iscrive sicuramente l’esperienza di Pagliarani nell’alveo di un filone realistico, plurilinguistico che affonda le sue più evidenti e scoperte radici nella scapigliatura, in alcuni crepuscolari e soprattutto nel Giovanni Pascoli più linguisticamente sperimentale, sorta di “nume tutelare” di cui Pagliarani è attento studioso (tra l’altro curerà la pubblicazione di un volume dedicato al poeta di Castelvecchio per la collana Cento libri per mille anni[18]). Per il poeta di Viserba però, questa tradizione più affine è un semplice punto di partenza da metabolizzare e da superare soprattutto in direzione di una poesia antiretorica, poco permeabile a mitopoiesi celebrative o sublimizzanti (“peccati” dei quali invece questa poesia precedente si è parzialmente “macchiata” ).  Questo elemento di forte originalità e discontinuità (nei confronti di una poesia che comunque rappresenta, almeno idealmente uno spazio letterario d’origine per Pagliarani) viene magistralmente segnalato e descritto con lucidità analitica dal poeta sodale Alfredo Giuliani, proprio nella famosa ed epocale  Introduzione ai Novissimi. Poesie per gli anni ’60[19]:

 

«[In Pagliarani] Le antiche e le vecchie forme non sono mai recluse e si riscoprono nel processo innovativo, muovendo da questo e non da una ipotetica continuità o da un ripresa polemicamente archeologica […] L’originalità di Pagliarani la si vede proprio dal modo tranquillo e per nulla retorico con cui ha recuperato la couche veristica di fine Ottocento. A differenza dei neo-crepuscolari egli non ha miticizzato (o storicizzato, che poi e lo stesso) il suo intelligente ritrovamento dell’epica quotidiana dei De Marchi e dei Praga. Lo ha fatto con estrema naturalezza, con un gusto morale, prima che per ripicca letteraria. Pagliarani non recita la parte dell’eroe bastonato, sebbene, come dice Porta, egli sia “l’unico autentico rappresentante della beat padana”. Bastonati sono realmente, dalla vita, i suoi personaggi; e lui con loro, ma carico di reticente affetto, scrupoloso nel non sovrapporre un giudizio passionale al giudizio intrinseco che è nella rappresentazione aderente delle cose.[…] Così l’atteggiamento sentimentale e quello letterario di Pagliarani perfettamente coincidono in uno stile “umile”  e saldo, che sembra terra-terra e invece tocca una esemplare drammaticità, sorda di fatica, frantumata in tante prove di coraggio e delusione, com’è il tempo del suo raccontare. […]

Anche Giovanni Sechi, su “Nuova Corrente”  segnala questa sostanziale discontinuità -pur partendo da una radice in qualche modo comune- del poeta di Viserba rispetto a movimenti letterari e autori  affini che lo hanno preceduto, in qualche modo però legati alle “convenzioni” ottocentesche del naturalismo:  

«La narrazione di Pagliarani con tali convenzioni [del naturalismo, n.d.r] non ha più nulla a che spartire. La sua “storia” è una “vena carsica” che nel corso del poemetto scompare, riaffiora, torna ad affievolirsi e non può in alcun modo configurarsi in una sequenza regolata di personaggi e di fatti aventi una origine data ed una conclusione prevedibile, secondo un ritmo convenzionale.»[20]

 

Abbandono dell’io elegiaco

Come già accennato sopra, l’altro fondamentale vettore di “democratizzazione” del verso di Pagliarani è rappresentato dal progressivo abbandono dell’io elegiaco, eroico, di stampo orfico-ermetico,  in direzione di una sempre più ampia coesistenza corale, dialogica, “teatrale”[21] dei linguaggi e dei punti di vista.

Già al momento di dare alle stampe la sua prima raccolta di poesie all’editore Schwarz , Cronache ed altre poesie[22], in quello che per lui sarà un anno cruciale (il 1954), Pagliarani manifesta una aspra insofferenza per alcuni aspetti, ai suoi occhi insoddisfacenti, presenti nell’opera che si apprestava a pubblicare. A distanza di più di quarant’anni racconterà molto lucidamente la natura di questo disagio tra le righe di quella mirabile autobiografia concentrata (che fa il paio con quella ancora più ridotta e brechtianamente “straniata” in terza persona scritta pochi anni prima[23]) che è la Cronistoria minima[24]: «Dall’uscita delle Cronache nella primavera dello stesso anno, ma probabilmente anche da un anno prima, mi preoccupava il peso, che mi pareva eccessivo, delle mie vicende personali sulla mia poesia e m’era diventata pesante nello scrivere la “tirannia dell’io”, lo avevo già avvertito nel risvolto delle Cronache, scritto da me anche se anonimo, dove dichiaravo quella poesia “gravata dalla troppo, ineluttabile carica di sé e conseguente bagaglio”»[25]. Le scorie di lirismo elegiaco, di osservazione soggettiva sub specie poetae, ancora presente in questa prima fase di apprendistato poetico, sembrano a Pagliarani delle macchie, degli «stridori»[26] dai quali doversi emendare con una certa fretta. Non è un caso che sulla scorta di questo disagio intraprenda proprio in questi anni la stesura di quello che sarebbe diventata la sua opera probabilmente più emblematica, La ragazza Carla: «Quindi per lottare contro “l’ineluttabile” avevo deciso di comporre un poemetto narrativo, con la sua brava terza persona, che si occupasse di vicende contemporanee che non mi riguardassero troppo direttamente»[27]. “L’ineluttabile” è l’ipertofismo dell’io, del soggettivismo elegiaco di matrice ermetico-simbolista di tanta poesia del Novecento, percepito ormai come inadeguato, vizioso e capzioso, vezzo di un’aristocrazia linguistica –i poeti appunto- non più pianamente in grado di vivificare il rapporto dialettico tra “lingua della poesia” e “lingua della realtà”. Ma “ineluttabile” è di certo anche l’avvento della società e della cultura di massa con la sua “usura dell’informazione”[28] che costringe l’artista, e nello specifico il poeta, a nuove dinamiche e problematiche considerazioni sulla lingua e sulle potenzialità comunicative della poesia.

Da un punto di vista dei contenuti matura progressivamente la percezione di un’inadeguatezza poetica delle “questioni private”, dell’impossibilità strutturale di una poesia dell’io, d’amore od elegiaca che possa ancora credibilmente suggestionare e corroborare il lettore. Le situazioni, i paesaggi, sono sistematicamente distorti, svelati nelle loro inadeguatezze o nella loro caricaturalità, la catarsi sistematicamente sabotata da un dettaglio fuori posto, da uno scatto d’ira, da un’irruzione del mondo esterno nello spazio precario e inadeguato del “privato”.  In Inventario privato tutti questi elementi caratteristici entrano in scena d’acchito, nella prima stanza del primo componimento. L’ambientazione inadeguata ad un commiato amoroso, il “marchingegno” di una redenzione idilliaca che si “fulmina” come la lampadina dell’atrio della stazione, trovata scenica quasi godardiana (ante litteram); è chiaro che Pagliarani, o sarebbe meglio dire l’io poetico, comincia a prendere le distanze dalla materia “narrata”[29],  la pressione del mondo esterno, della dimensione sociale e politica sulla soggettività esistenziale del poeta  raggiunge dei livelli altissimi, intollerabili. Non è più possibile nessun tipo di redenzione poetica individuale o, per così dire, di pietà “soggettiva”, in un mondo che minaccia di annichilire se stesso nella minaccia di una guerra atomica:

Se facessimo conto delle cose
che non tornano, come quella lampada
fulminata nell’atrio alla stazione
e il commiato allo scuro, avremmo allora
già perso, e il secolo altra luce esplode
che può farsi per noi definitiva[30]
[…]

Qualche composizione più avanti il concetto viene ripreso in modo ancor più esplicito: parlare dei propri rimestii sentimental-esistenziali mentre nel mondo le «hacca esplodono» è diventato non solo insostenibile, ma perfino inadeguato da un punto di vista estetico; davvero “stridente” per quell’approccio più “oggettivo”,  più “storico” e in qualche modo lucakcsiano che Pagliarani comincia a sentir essere la necessaria evoluzione di una poesia davvero moderna, davvero marxisticamente critica ed “efficiente”:

È difficile amare in primavere
come questa che a Brera i contatori
Geiger denunciano carica di pioggia
radioattiva perché le hacca esplodono
nel Nevada in Siberia sul Pacifico
e angoscia collettiva sulla terra
non esplode in giustizia.
                                      Potrò amarti
dell’amore virile che mi tocca, riempirti
se minaccia l’uomo
sé nel su genere?        

O trasferisco in pubblico stridore
Che è solo nostro, anzi tuo e mio?[31]

      Per Pagliarani il poeta non può, visto lo stato effettivo del contesto in cui opera,  ritirarsi nella bolla idealizzante di una poesia letteraria, d’antan, sublime, non più in grado di garantire una protezione  estetico-morale al soggetto che la esprime, ma deve lavorare «en plein air, fuori da qualsiasi torre d’avorio, lontano da ogni specie di recinto sacro»[32] (Spatola). La degradazione della società contemporanea si riflette  nella “faccia” del poeta che così  impietosamente «assomiglia» «agli uomini con le facce disegnate»  che affollano come lemuri  le vie di una tipica città industriale degli anni ‘50. Le angosce collettive, l’impellenza minacciosa della storia invade, contaminandoli e rendendoli impraticabili, i rifugi privati della via soggettiva alla catarsi poetica. Il poeta è marxianamente  legato a doppio-filo alla collettività vampirizzata nella quale si muove d’impaccio, senza grazia, inadeguato a dare e ricevere sentimenti autentici. Sono continui gli impacci, le cadute stridenti degli approcci amorosi, destinati strutturalmente ad una caduta nel comico o nel patetico:

Non devi amarmi se ti sbriciolo
Su una tovaglia lisa: e non mi ami[33] 

O in un altro testo di Inventario:

[…] ti ho perduta
per troppo amore, come per fame l’affamato
rovescia la ciotola col tremito[34]

 

La poesia sopravvive al deserto

Questo percorso di democratizzazione dei registri e dei punti di vista raggiunge  la sua prima più compiuta realizzazione nella forma del poemetto polifonico, di influenza brechtiana già perfettamente colta da Fortini[35] e dalla tessitura quasi teatrale-drammaturgica che sarà caratteristico prima de La Ragazza Carla e poi ( in un sofferto e complesso percorso di scrittura durato decenni), de La ballata di Rudi. Con La Ragazza Carla Pagliarani si immerge totalmente nelle “abitudini” linguistico-culturali della società a lui contemporanea: la poesia deve testare la sua capacità di resistenza  nella lingua conformistica ed esangue della società di massa ed il poeta, per farlo, non può più reclamare od ostentare una posizione privilegiata e non compromessa. La prima persona, il discorso soggettivo deve essere accantonato e sostituito da un approccio indiretto, in terza persona, in cui il poeta parla attraverso i personaggi che mette in scena: «se vuol dire qualcosa inventa un personaggio (magari un certo personaggio che somiglia a Pagliarani) oppure un “coro”»[36]. La svolta narrativa consente a Pagliarani questa presa di distanza critica, questo gioco straniante, in cui il poeta gioca al travestimento ideologico-linguistico con i suoi personaggi. La catarsi per suggestione poetica del soggetto è di fatto resa impraticabile: per svolgere al meglio la sua funzione critica e sociale, la poesia deve entrare nel tran tran, nella consuetudine narcotizzante delle dinamiche quotidiane della società contemporanea, soprattutto nelle sue consuetudini linguistiche più logore. Deve attraversare i «boschi di cemento»[37]dove non c’è più posto per satiri e folletti o per alcun tipo di trascendenza, dove il cielo «non lascia scampo» a facili vie di fuga semantico-esistenziali. In questa sorta di “milanesizzazione” del poeta, Pagliarani accetta di giocare sul campo del non sacro, del “prosaico”, nel territorio più impoetico per definizione (e la Milano di quegli anni è la città italiana certamente più compromessa in questo senso). Una via di risalita, se mai la poesia potrà essere in grado di indicarla, non dovrà essere nella fuga arcadica, nel territorio dello straordinario, nelle altezze vertiginose di una parola mistica, “rivelatrice”; ma tanto meno negli sprofondi di un mimetismo dal basso, nelle sacche di emarginazione o di “eversione” linguistico culturale  che la società neocapitalistica non è riuscita ancora del tutto a normalizzare. La poesia deve saper sopravvivere, resistere (e “riformare”) nell’ambiente “desertico” della contemporaneità senza cadere nella tentazione del miraggio (estetico-consolatorio) o nella fede verso un suo miracoloso quanto sedicente potenziale catartico o “estremisticamente” rivoluzionario. Già in Cronache e altre poesie, nella poesia Narcissus Pseudonarcissus ci sono dei versi che sembrano esplicitare una certa fiducia nell’adattabilità della natura umana alle condizioni più estreme: immagine che metonimicamente rimanda anche ad un’idea di comunicazione e di poesia:

[…]
Oh la nostra razza è la più tenace, sia lode al suo fattore,
l’uomo è l’unico animale che sverna ai poli e all’equatore
signore di tutte le latitudini che s’accostuma a tutte le abitudini,
così ho violenta fiducia
non importa come lo dico – ah l’infinita gamma dei toni
che uguaglia solo il numero delle anime sensibili delle puzze della terra[38]
[…]

Ancora più icastici ed emblematici in questo senso sono alcuni versi di Fecaloro usciti alcuni anni dopo La Ragazza Carla: qui la “desertificazione” diventa metafora della società contemporanea, e la vegetazione che lotta per combattere, per sopravvivere diventa una calzante rappresentazione traslata dell’idea di poesia secondo il Pagliarani di quegli anni. La poesia deve “resistere” adattarsi, opporsi alla necrosi raccogliendo le poche gocce di umidità-vitalità che il deserto di cemento concede alla biologia del verso. È una poesia che lotta per esistere, di “opposizione” [39], che tramuta i suoi fogliami retorici  in spine, ostinata a non scappare in cerca di territori più ospitali percepiti ormai come inesorabilmente “altrove” e perduti. Vale la pena proporne un ampio stralcio per la bellezza ed emblematicità dei versi:

[…]

Indifferenza è il prezzo del concreto?/Nei luoghi sud-occidentali, quando io stesso vidi sparire la vegetazione desertica secondaria/in seguito alla continua rimozione di energia stagnante e alla conseguente/ riemergenza dell’umidità nell’atmosfera e dell’erba prativa su terreni in precedenza rocciosi e aridi/ cominciai a capire come mai mi fossi imbattuto nell’odio. Sentì forse quella gente/che con lo scioglimento dei loro nodi di nevrosi, con il rovesciamento dell’angoscia del contatto nella sfera genitale/la morte li avrebbe sfiorati o addirittura travolti?/ Quando comincia a svilupparsi un deserto/quando la vegetazione naturale originaria soccombe gradualmente sotto i colpi della siccità/della mancanza di rugiada mattutina dell’inaridimento progressivo della terra, la vita continua/a combattere, sorge un nuovo tipo di vita, una vegetazione secondaria che si adatta/alle dure condizioni di esistenza del deserto emozionale: il gambo del cactus consiste/di fibre isolate, la pianta desertica sviluppa foglie curiose e pungenti la struttura clorofillica/ è limitata all’estremità dei rami è adattata all’estrema scarsità d’acqua/Il principio del ritiro d’energia governando l’effetto totale/ Questo qualcosa nascosto nella scorsa è la peste emozionale.[40]

[…]

La poesia, come il cactus nel deserto deve essere in grado di nutrirsi, di rendere vita, “biologia” le condizioni sfavorevoli nelle quali deve giocoforza sopravvivere. Perché nella società neocapitalistica, come peraltro Pagliarani ci aveva esplicitato già in una poesia di Cronache[41] «le strutture sono di cemento armato», sono asettiche, anti-biotiche al punto che non vi «annidano tarli». Il cieco meccanismo della produzione è garantito ma il rischio (calcolato?) è che ci siano «niente frutti». La ragazza Carla è la testimonianza di un passaggio ormai irreversibile ad una poesia il cui paesaggio è essenzialmente quello urbano. Ma la novità del momento non sta ovviamente nella comparsa della città come sfondo ed ambientazione delle vicende narrate in versi, quanto nell’assolutizzazione dello spazio urbano, presentato non più come polo alternativo, e spunto di riflessione poetica, di una opposizione città-campagna, tradizione-modernità -giacché questa «antinomia […] è caduta»[42]- quanto come espressione consustanziale e onnipervasiva della civiltà contemporanea: «la città non può più fingersi la mitica campagna attorno alle mura o beneficiare di un alibi»[43] (Guglielmi) di un “altrove”-; quasi che Pagliarani con La Ragazza Carla, rappresenti il passaggio definitivo ed irreversibile dell’Italia degli anni ’50 da una civiltà dell’organico, contadina, tradizionale a quella “dell’inorganico”, moderna, industriale - fatta di «boschi di cemento» e di «cieli d’acciaio», completamente “immemore” della prima- nella quale i ritmi biologici sono stati scavalcati e mortificati dal continuum produttivo:

[…]
Ma il sangue, è vero che ha un ritmo
in certi mesi detti primavera
accelerato? E vale anche per noi, qui sotto il ritmo
della città
[…]
Dov’è la primavera della Banca
Commerciale?[44]
[…]

 

La “contropedagogia” urbana

La città moderna è l’ambiente “inorganico” fatto di “cemento”, di “lamiera”, in cui c’è bisogno più «di piombo che di ali»[45] per poter sopravvivere; è un contesto decisamente ostile all’energia impulsiva del biologico, inospitale, spietato e duramente selettivo. Eppure c’è in questa spietatezza, una sorta di etica di fondo, di “contropedagia” della civiltà moderna. Così come i Germani di Tacito selezionavano i bambini appena nati gettandoli nel fiume, con modalità differente, ma con simile severità, la città moderna “seleziona” i cittadini con i suoi ritmi di produzione, con l’inospitalità dei suoi «boschi di cemento». Ma la poesia non vuole nascondere, edulcorare, fingere una facile catarsi retorica percepita ormai come inadeguata: l’uomo (e la poesia) devono saper sopravvivere, adattarsi e resistere a questo nuovo scenario:

                                                                          […]

                                                         Non dico risparmiali
                                                         Colpisci, vita ferro città pedagogia
                                      I Germani di Tacito nel fiume
                                      li buttano nel fiume appena nati
                                                la gente che si incontra alle serali.[46]                                                                 

                                                                         […]

 Città come laboratorio socio-selettivo della società contemporanea dunque, generatrice di una nuova etica e di una contro-pedagogia dove i veri luoghi dell’educazione e dell’apprendimento non sono più le scuole ma gli uffici:

                          […] 

Negli uffici s’imparan molte cose
                             ecco la vera scuola della vita
alcune s’hanno da imparare in fretta
                             perché vogliono dire saper vivere[47]                              

                              […]

Ma il vero elemento totalizzante della città industriale, intesa come luogo emblematico della società contemporanea, è la negazione di qualsiasi “scappatoia” alla trascendenza, di fuga dal meccanismo della produzione. La ciclicità delle stagioni, con tutti gli elementi di ritualità ad essa legati,  viene appiattita dal ciclo produttivo, l’empito rivelativo, epifanico, delle manifestazioni naturali è disinnescato: l’ambiente urbano è ormai piena espressione della reificazione del moderno, del trionfo del “non sacro” ed il cielo «d’acciaio che non finge» diventa la metafora calzante di questa prigionia dell’uomo moderno in se stesso, nella propria solitudine spirituale:

                È nostro questo cielo d’acciaio che non finge
                Eden e non concede smarrimenti,
                è nostro ed è morale il cielo
                che non promette scampo dalla terra,
                proprio perché sulla terra non c’è
                scampo da noi nella vita[48] 

                                                                 ~         

      La poesia del Pagliarani de La Ragazza Carla parte da questo grado (quasi) zero di “non sacro” e di “non poetico” da questo punto basso di estrema “resistenza biologica”: Milano - la città italiana più moderna, nella quale i meccanismi “senza tarli” della produzione movimentano in modo efficiente il tessuto sociale che la compone- ne è la collocazione ideale. L’impiegata Carla, espressione di quella piccola borghesia media, al centro dei cambiamenti economico-sociali di quegli anni, di quel passaggio da una civiltà ancora principalmente agricola ad una neocapitalistico-industriale, ne è invece la naturale protagonista. In questo contesto così inospitale, così strutturalmente ostile al sublime e al verso, la poesia deve tentare di farsi “opposizione” (o, come direbbe Sanguineti, «testimonianza d’opposizione»[49]), di ricollaudare la smorta vitalità di una lingua che altrimenti rischia di necrotizzarsi in una monolitica semantica della comunicazione di massa e della produzione. Riconquistarsi i rapporti tra significante e significato diventa una necessità fondamentale, vitale del poeta: ma qui Pagliarani non sceglie la via del rifiuto della lingua media, per intraprendere strade di “riconquista” attaccando la lingua dall’alto del sublime letterario o dal basso dei dialetti e del naturalismo populista. Sceglie la via “interna”, consapevole della forza pervasiva, e probabilmente irreversibile del processo in atto.  Compito della poesia de La Ragazza Carla sarà partire dallo status quo, dalle abitudini culturali di questa Milano anni ’50 ed inserirsi surrettiziamente all’interno dei riflessi linguistico-ideologici che lo rappresentano, per creare poi un corto circuito, una ri-semantizzare in chiave biologica, umana, di una lingua altrimenti destinata alla desertificazione, alla necrosi semantica, e permettersi così -attraverso la “resistenza” estetica del verso (e magari come in «un film di Jean Gabin»)- di (provare a) dire ancora il vero.

[…] 

Le abitudini si fanno con la pelle
Così tutti ce l’hanno se hanno pelle 

Ma c’è il momento che l’abitudine non tiene
chissà che cosa insiste nel circuito
                                                  o fa contatto
                                                        o  prende la tangente
allora la burrasca
                           periferica, di terra,
il ponte se lo copre e spazza e qualcheduno
può cascar sotto
e i film che Carla non li può soffrire
un film di Jean Gabin può dire il vero[50] 

[…]

 

La poesia deve saltare

Se La ragazza Carla e La ballata di Rudi (come vedremo) rappresentano il massimo tentativo del poeta di Viserba di spingere sul pedale della polifonia e della moltiplicazione dei punti di vista con Lezioni di fisica e Fecaloro (dapprima uscita come Lezioni di Fisica poi con l’aggiunta di Fecaloro  nell’edizione definitiva di Lezioni di fisica e Fecaloro) Pagliarani tocca il punto più alto della sperimentazione con i linguaggi scientifico settoriali.  Se i fronti di battaglia del verso di Pagliarani erano stati ne La Ragazza Carla la riattivazione semantica della poesia in un ambiente ostile e il superamento della soggettività ingombrante e mistificatoria del soggetto poetico, qui diventa centrale lo sforzo di rimetabolizzare, rendere carne, bios, valore umano,  la pletora dei linguaggi scientifico-settoriali improvvisamente  esondati nell’immaginario collettivo della neo-società dei consumi del dopoguerra.  E’ una questione epocale che investe in qualche modo, e con risposte reazioni diverse, buona parte della migliore letteratura del boom economico.  In Pagliarani è forte la consapevolezza che un altro elemento di potenziale disumanizzazione della società dei consumi è proprio la pervasività del linguaggio tecnico-scientifico, che nel suo “naturale” rendere la realtà oggettiva (o sarebbe meglio dire puro oggetto, denotativa comunicazione di dati, puro termine), rischia di svuotarla  di ogni connotazione soggettiva, e quindi etico-valoriale e di ogni desiderabilità erotico-biologica. Questa modalità d’approccio appare ben chiara ad Umberto Eco fin subito dopo l’uscita di Lezioni di fisica:

«[…] Ebbene, leggendo tutta la poesia ci accorgiamo che tra i dati di cultura, tecnica e scienza, e le ribellioni di una sensibilità che vorrebbe rifiutarli, non esiste differenza di tono e di assimilazione, come se gli uni, oggettivati, fossero fuori del poeta, e gli altri gli appartenessero carne e sangue. L’ “affermare la vita con canto” è altrettanto citato, come elemento di discorso e di sensibilità, quanto “fra macrofisica e microfisica che il mondo atomico delle particelle elementari…”. Distanziati entrambi, entrambi i dati appartengono al poeta e qui sta la novità di un discorso che si svolge circa i problemi d’oggi avendoli assimilati, in modo che il poeta non ha più da fare i conti con i problemi “impoetici” opposti a quelli “poetici”. E la passione, che rimane, è passione non opposta a cultura o ideologia, ma passione ideologica»[51]

I più diversi linguaggi settoriali vengono riattraversati in un corpo a corpo dialettico,  metabolizzati dalla bile[52] poetico-ideologica del poeta, ritrasformati in materiale umano. E’ il caso appunto della poesia che dà il titolo alla raccolta in cui le leggi della fisica quantistica diventano correlativo di sentimenti ed esperienze umane, biologiche:

                                                            «Elena Oh le sudate carte la luce                                             

è una gragnula di quanti, provo a dirti che esiste opposizione
fra macrofisica e microfisica che il mondo atomico delle particelle elementari
è studiato dalla meccanica quantistica-scuola di Copenaghen-
e da quella ondulatoria del principe di Broglie che ben presto i fisici
si accorsero come le due nuove meccaniche benché basate su algoritmi
                                                                                      [differenti                    
siano in sostanza equivalenti: entrambe negano
negano che possano essere precisi rapporti di causa e effetto
affermano che non si può aver studio di un oggetto
senza modificarlo
                                la luce che piomba sull’elettrone per illuminarlo
E io qui sto
e io qui sto Elena in gabbia e aspetto
il suono di un oggetto la comunicazione dell’effetto
su te, delle modifiche
                                        Non sono io
che ti tradisco, chi ti prende alla gola è la tua amica
la vita  […][53]

Di certo tra i linguaggi settoriali poeticamente “digeriti” nella raccolta quello dell’economia ha una centralità assoluta: in Fecaloro l’interpretazione freudiana per la quale, in fondo, l’ossessivo bisogno di possesso della società capitalistica dipende da una mai superata “fase anale” collettiva, e dal piacere perverso del trattenere le feci-oro (qui le riserve auree di garanzia diventano il “fecaloma” ostinatamente trattenuto dai governi per dare consistenza, credibilità fisica e tangibile all’idea di ricchezza e di possesso) si trasforma in un’allegoria polisemica tra le più potenti ed emblematiche della poesia di Pagliarani: 

[…]
                                                 Il denaro si sarebbe tentati di chiamarlo
fecaloro per assonanza e affinità con fecaloma la massa fecale ritenuta e
                                                                                          [indurita
sino alla consistenza della pietra
                                             il tempo infine si presenta anch’esso
                                                                               l’ostinazione
come impostazione di rifiuto della defecazione (e memoria sui glutei  delle
                                                                                  [pacche materne)
nel contenuto stomacale si sono trovati i corpi intatti di un leone marino di 
                                                                                          [una foca
di un cane di Terranova di due minori della sua specie[54]                          

[…]

 Le feci e l’oro qui acquisiscono molteplici livelli simbolici che ci aiutano, in qualche modo, ad entrare con una chiave di accesso precisa ed affilata nella poetica del poeta di Viserba.  In ottica marxista-psicanalitica di certo le feci rappresentano la degradazione del desiderio naturale fisiologico in un patologico  “fecamore”, desiderio di  accumulo e di possesso.  In una realtà in cui il desiderio è ridotto ad oggetto, a merce, i rapporti tra significato e significante,  quindi il senso della realtà è contaminato inesorabilmente dal denaro  e dai suoi perversi rapporti di forza. Ma se l’oro, le riserve auree degli stati  sono, su un certo piano semantico, il corrispettivo delle feci freudiane,  diventano invece -su un piano metaforico ulteriore- anche il correlativo oggettivo di un linguaggio degradato e asfittico che il poeta si ostina e riverificare e vivificare attraverso il verso. E lo fa, in un certo senso, proprio “giocando a perdere”, rinunciando al possesso e al potere di una narrazione e di un linguaggio conformistici e adulterati, nel tentativo di evitare che ogni rapporto tra significato e significante si trasformi in etichettatura merceologica ad uso e consumo del potere nelle sue proteiformi manifestazioni (ma anche come antidoto alla tentazione  stessa del poeta di cedere all’idea alienante del possesso):

[…]
quale altra garanzia di possesso nella cosa
                                                può dare sicurezza della cosa
                                                              tesaureggiarne in oro l’anima
                                                                        ci sono dentro fino al collo
questo amore pretende possesso
                                        mi dibatto dalla stretta di me stesso
                                                     contro il me il te che pretende possesso
                                                                    perciò perdo così spesso[55]                                                     
[…]                         

Per un altro lato è proprio il poeta, quasi come un alchimista (ed ecco un altro fecondo livello interpretativo) ad ingerire, metabolizzare, le feci della società dei consumi- e dei suoi corrispettivi slang linguistici- e a trasformarle nell’oro di un linguaggio rigenerato dal potere semantico dei versi. Per farlo è costretto a saltare continuamente su se stesso, a rigenerare e autorigenerarsi, per sfuggire alla iattura pietrificante del conformismo o a finire semanticamente “sotto sale”:

[..]

L’arte pare anche a me di poco conto
                                      ma è il nostro daffare
                                                         e il nostro daffare al momento
                                                         è saltare è saltare è saltare   
                                                         se no sulla coda ci mettono il sale[56]
[…]

 

Degrado antropologico e viaggio ai limiti dell’extra codice:  La ballata di Rudi e Rossocorpolingua

In quel impareggiabile talvolta rivelatore se pur breve documento che è la Cronistoria minima è Pagliarani stesso ad esplicitare il percorso lungo e complesso della composizione de La Ballata di Rudi[57] «scritta tutta a Roma, nel periodo dalla primavera del ’61 all’inverno ’94-95». Un testo cresciuto negli anni, i cui brani venivano letti in progress ad amici e sodali e la cui parziale, progressiva e irregolare pubblicazione su rivista attraversa varie, imprevedibili tappe:

«un ampio brano usci nel numero 18 (il penultimo) di “Quindici”  nel luglio ’69; ne ricordo altri su “Nuova Corrente” nel numero 51 del ’70 e nel numero 7 di “Periodo ipotetico”, ancora a luglio ma nel ’73 , il quale ultimo contiene già per intero col titolo Doppio trittico di Nandi tutte le sei parti (a,b,c e a1, B1, c1) che furono poi ristampate integrali e con altre varianti ritmiche nel volumetto della Cooperativa Scrittori  Rosso Corpo Lingua Oro Pope-Papa Scienza[58] nel gennaio ’77: la più ampia raccolta di brani del poemetto, prima dell’edizione completa di Marsilio del maggio ’95, apparve nella raccolta intitolata Poesie da recita, a cura e con intensa, acuta prefazione di Alessandra Briganti, Bulzoni editore, 1985»[59].

La ballata, come riscontrava Giulio Ferroni all’uscita dell’edizione integrale, è un «testo che si presenta con eccezionale forza e compattezza con un ritmo narrativo che delinea personaggi, situazioni, vicende di vita italiana del dopoguerra (di cui intende dare un “rendiconto”) e li trascina in un vortice linguistico, che fa esplodere il senso delle trasformazioni avvenute, delle scommesse e dei fallimenti in cui si sono risolte esistenze di uomini e donne comune»[60].  Ne La ballata  sembrano dunque ancora coesistere alcuni elementi caratteristici dell’officina poetica di Pagliarani, la sperimentazione linguistica, e soprattutto la molteplicità dei punti di vista e dei personaggi, quel respiro per così dire epico, che avevamo già trovato ne La ragazza Carla.  Ma lo scenario antropologico de La ballata, a mano a mano che si scorre il testo o verrebbe da dire lo si risale (quasi perforando le varie  decennali stratificazioni storiche) diventa sostanzialmente “altro” da quello descritto ne La ragazza Carla. Se lì eravamo all’interno di una dimensione in cui l’austerità del lavoro onnipervasiva, lasciava comunque dei paradossali spazi, come abbiamo visto, a una “contropedagogia” urbana (all’interno della quale tentare di reinserire, clandestinamente,  la dimensione umanistica e umanizzante della poesia), qui la febbre del denaro in tutte la sue più perniciose manifestazioni contamina e “infetta” progressivamente  (e in maniera apparentemente irreversibile) i personaggi:

«Il Rudi che dà titolo all’insieme non è un vero protagonista: sta più sullo sfondo, come losco ectoplasma delle mutazioni e dei traffici della società italiana del dopoguerra, in un impatto tra equivoche radici nobiliari, attività microdelinquenziali, contrabbando di denaro più o meno sporco, legami con faccendieri finanziari che hanno agito anche per conto del Vaticano: “conte decaduto (o sedicente tale) lo si incontra come animatore di balli sull’Adriatico nell’estate del ’49, e poi d’inverno a Milano in un vero night frequentato da malavitosi; si hanno poi sparse notizie sulla sua attività finanziaria, che lo porta ad avere un singolare “riconoscimento” e cioè la nomina a cavaliere di Malta, ma a cui consegue una morte oscura e sospetta (morto “nei primi anni Sessanta, in Svizzera, durante una cura del sonno”)»(Ferroni)[61]

Questa bulimia consumistica in un mondo in cui ormai si «affoga nella roba» (e in cui il desiderio coprofogico-reificante nel denaro-sterco ha surrogato ogni altro rapporto con la realtà) trova uno dei suoi più tragici e icastici correlativi nel Rap dell’anoressia o bulimia che sia[62] in cui è il poeta stesso a esplicitarci un drammatico passaggio epocale durato più di trent’anni (e che ha di fatto coinciso con la lunga e stratificata elaborazione de La Ballata). Trasformazioni profonde che hanno portato in dote quella sorta di apocalisse fredda e quella (probabilmente) irreversibile vampirizzazione valoriale che Pagliarani percepisce esistenzialmente (avvicinandosi soprattutto a partire dagli anni ’80-’90 alle posizioni dell’ultimo Pasolini) come un vero e proprio olocausto antropologico-culturale:

«(Fra parentesi?: all’inizio di questo rendiconto se c’era una ragazza
stramba, senza ragione apparente, si trattava di reduci quasi sempre da campi
di concentramento, da quali campi sono reduci ora?)»

In questo scenario “concentrazionario” gli strumenti di lavoro marxisti-brechtiani degli anni ’50-‘60, la democratizzazione dei punti di vista, l’epicizzazione del verso rischiano di non fare più presa sul reale. Il poeta laico, che aveva consustanziato la sua poesia sui “sacri” valori laici del socialismo, della democrazia e condivisione-costruzione comunitaria (appunto democratica) dell’immaginario, ne La Ballata di Rudi percepisce il pericolo che ormai il processo sia andato troppo oltre in direzione di un’irreversibile notomizzazione della società  e che ogni cittadino sia de facto ridotto a puro individuo-consumatore. Qui la dimensione epica, come ci esplicita Cortellessa, «in Pagliarani come, più in generale, nella letteratura della modernità- non può che essere interdetta […]»[63] proprio per la fine, quasi irreversibile, di un sistema di valori collettivamente condiviso, di generazioni ormai culturalmente sradicate dal paesaggio culturale che per millenni aveva (fino ai primi anni del dopoguerra, prima del boom economico) dato senso e sostanza all’etica comunitaria:

«Epico insomma è, più che il genere letterario, il modo della narrazione. In questo La Ballata di Rudi si può accostare ad un altro grande testo moderno, Horcinus Orca di Stefano D’Arrigo […] In entrambi è presente una comunità di pescatori […]  alla quale è delegata la conservazione di un contatto collettivo, irriflesso ma vivissimo, con l’universo atemporale e “mitico” giusta vulgata junghiano-ferencziana simboleggiato, appunto, dal mare. Alle spalle d’altronde si colloca un grande archetipo comune come Moby Dick. Ma soprattutto, in entrambi i casi, questo stesso fondo immutabile si scopre d’improvviso minacciato […] ancora più evidente è tale dimensione, nella Ballata di Rudi che ha il proprio refrain in un timore paradossale quanto attualissimo (memoria remota degli ultimi versi di Finale, nella Terra promessa di Ungaretti: “ Morto è anche lui, vedi, il mare,/Il mare”»[64]

Ed in effetti sarà proprio il ciclico, archetipico refrain,  oscillante  tra ostinate ottimistiche aperture («che non ha senso pensare che s’appassisca il mare»)  e improvvise disforie («invece ha senso pensare che s’appassisca il mare» a rappresentare per similitudine , quella “funzione poetica”, che per resistere è costretta ad adattarsi faticosamente ad un paesaggio antropologicamente devastato, tra cadute pessimistiche e vitale ostinazione poetica.  E’ un’operazione rischiosa, appunto, ai limiti. E non è un caso che proprio Nandi, il pescatore, sia il protagonista di quel Dittico[65] che porta il verso di Pagliarani ai valori massimi di sperimentazione e, al contempo, al confine  con l’extra-codice (con quello spazio  sempre  quasi “ideologicamente” e “apotropaicamente”  evitato dal poeta di Viserba):

«proviamo ancora col rosso: rosso, un cerchio intorno, poi rosso su rosso:
                                                                                     [Nandi ci fosse
col rosso un cerchio di rosso un punto sette punti di rosso se fossero
la macchia a cavallo dei cerchi, di rosso che cola in un angolo, mobile rosso su
                                                                                                    [cerchi
più stretti intasati dal rosso, che segue i bordi dell’angolo, deborda oltre
                                                                                           [l’angolo rosso
si sparge sul tempo di rosso, rosso fin dentro il midollo dell’osso del tempo
                                                                                          [rosso di vento
rosso quel vento nel tempo del rosso, rosso il fiato del vento nel rosso del
                                                                                           [tempo
[…]                             

Nel contesto storico ambientale progressivamente “concentrazionario” de La ballata di Rudi, il linguaggio ha perso quello dimensione valoriale, connotativa, poetica appunto, di possibile condivisione comunitaria. La lingua per ritrovare autenticità, vita autentica, bios deve provare a riattingere ad una tavolozza originaria, archetipica, partendo dal “rosso” («speranza e utopia, pur con tutte le manchevolezze e contraddizioni» e dal corpo (inteso come «forza, vitalità, visceralità»[66]).  E nel farlo utilizza le sue più ammalianti capacità ritmiche che nel Dittico di Nandi si caricano di potenti suggestioni rituali, psicoattive, ipnotico-ecolaliche.  Ma proprio nel momento in cui (nell’ennesimo tentativo di ritrasformare “alchemicamente”[67] la lingua “dell’avere” nella lingua “dell’essere”  con suggestioni alla E. Fromm)  i versi raggiungono il gradiente massimo di sperimentazione linguistica, Pagliarani (poeta “di comunità” per sua stessa auto-imposizione politico-metodologica)  si ritrae inorridito di fronte al pericolo di una fuga metafisica,  di una reclusione mistica nella lingua del privato:

«lingua: lingua di rosso su rosso del corpo, lingua rosso canale sul corpo fra
                                                                [essere e avere lingua per Nandi
lingua rossa del corpo del rosso, lingua del cerchio creato da lingua e da lingua
                                                                                                  [spezzato
mistica lingua del rosso mistica lingua del corpo mistica lingua del cazzo
(se è mistica è del privato, Nandi non sa che farsene,
se nel codice è già incastrata, Nandi ti abbiamo fregato) 

[…]

Ecco che la poesia di Pagliarani, così come le abbiamo visto fare in modo sempre più  “politicamente” consapevole fin dai primi anni, prova ancora a muoversi all’interno di quello spazio (asfittico e ridotto, nella società di fine/inizio millennio) tra codice (sempre più omologato e omologante nella società della globalizzazione e del neoliberismo estremo) e l’extra-codice («la mistica lingua del cazzo») potenzialmente altrettanto perniciosa nell’ecologia di una poesia che per Pagliarani è, e deve continuare ad essere, in qualche modo una poesia “di comunità”, “pubblica” non “mistica” e del “privato”.

In un momento storico in cui i valori laici di riferimento della poesia di Pagliarani (in particolare il socialismo morente di fine secolo e la sua idea di democrazia) sono ormai spazzati via dalla dinamiche del mercato globale, del tutto-merce, e del cittadino ormai ridotto a consumatore, questo compito appare ormai arduo, ai limiti dell’impossibile.  Eppure l’ostinazione,  la passione, la “bile” poetica del poeta di Viserba (pur nel momento in cui un certo “prometeico” ottimismo della “volontà” poetica anni ’50-‘60, sembra toccare qui il suo punto più basso[68]) sembrano in qualche modo voler prevalere su quel nichilismo “d’ufficio” a volte quasi “compiaciuto” di certa letteratura post-moderna. Non è un caso che l’ultimo ciclico (e come abbiamo visto emblematico) refrain sul mare che chiude La ballata di Rudi  lasci  volontariamente uno spiraglio aperto, diventi, in qualche modo, una dichiarazione d’intenti di “resistenza” epocale, tanto per il cittadino che per il poeta:

Ma dobbiamo continuare
                                     come se
                                                non avesse senso pensare
                                                                    che s’appassisca il mare.

 

Una poesia  di secondo grado

Non è un caso neppure che l’ultima poesia di Pagliarani, quella per intenderci di Esercizi Platonici[69] e degli Epigrammi[70] (se escludiamo appunto La ballata per la sua storia compositiva ed editoriale pluridecennale) sia essenzialmente una poesia di secondo grado.  Se la contemporaneità ha reso impossibile esprimersi in modo autentico dentro un codice condiviso l’unico modo per poter fare poesia sembra passare per l’arrangiamento, il patchwork, la “cover” riveduta e scorretta, attraverso lo smontaggio e il rimontaggio di codici storici del pensiero “forte” occidentale. Da qui si capisce  il riutilizzo di Platone, Savonarola e Lutero  nella raccolte sopracitate. In particolare la pubblicazione e le tematiche degli Epigrammi hanno una certa rilevanza e un valore emblematico di questa fase conclusiva.  L’edizione definitiva del 2001 degli Epigrammi (la prima parte degli Epigrammi Ferraresi è già però pubblicata nel 1987) contiene una significativa dedica a Pasolini:

 «Dopo aver compiuto e pubblicato questa ricerca, mi accorsi che la mia parte di lavoro potevo e dovevo definirla un omaggio a Pasolini. L’ho detto una volta o due in pubblico, ora ci tengo a vederlo stampato qui»[71] .

Un rapporto niente affatto lineare quello tra Pagliarani e Pasolini, passato dalla stima degli esordi  (Pagliarani affida con fiducia a Pasolini i suoi primi versi e ne viene ripagato da una sostanziale approvazione del poeta friuliano ai tempi di “Officina”) ad una fase polemica di attrito  stilistico-politico-formale risalente soprattutto ai periodi d’oro  del gruppo ’63, per arrivare poi al sostanziale riavvicinamento post mortem (di Pasolini) e al riconoscimento della capacità visionaria dello scrittore “corsaro” nell’aver saputo cogliere con anticipo quel degrado antropologico e quell’apocalittico “dopostoria” nel quale stava lentamente precipitando l’Italia e la civiltà occidentale. Una consapevolezza che abbiamo visto, matura in parallelo (ed in modo compiuto ne La ballata di Rudi)  nel poeta di Viserba, obbligandolo prima ad una riflessione strutturale sulla poesia e poi al passaggio ad un verso di secondo grado dalla forma espressiva fulminea, epigrammatica, appunto.  Un riavvicinamento già celebrato nella poesia scritta da Pagliarani per il ventennale della morte di Pasolini in cui il poeta Viserba aveva in effetti “confessato” in versi (autocitando due versi dagli Epigrammi) che:

(Solo dopo aver trascritto epigrammi da Savonarola
                                 La carne è un abisso che tira in mille modi
                                  Così intendi  della libidine dello stato                               
                                                 Mi resi conto che dialogavo ancora con te).[72]

In qualche modo Pagliarani traccia, consapevolmente e idealmente, una linea di continuità tra Savonarola, Lutero (con il loro impeto eretico e morale, “luterano” appunto proprio nell’interpretazione “pasoliniana” del termine) e il ruolo civile (e in ultima analisi politico-morale) del suo proprio essere poeta. Ma, ovviamente,  la forza vivificatrice e rigenerante della poesia non sta per Pagliarani nella mera riproduzione di codici da celebrare o ricelebrare quali possibile rifugi-loci amoeni di un passato musealizzato. La scrittura di secondo grado del poeta di Viserba ingoia, metabolizza, rimonta secondo un ordine e suggestioni semantiche nuove, esplosive, assolutamente moderne. Come descritto da Luperini crea «altra e diversa autorità» rispetto a quella originaria dei testi anche se «conservano un effetto[…] pragmatico  conforme al genere da cui sono stati tratti»[73]. Alla dimensione della “predica” fa in qualche modo riferimento Cortellessa, così come alla traduzione in chiave «anticapitalista e anticonsumista tipicamente» novecentesca di versi come «Hanno tanta roba che vi affogano dentro», che peraltro riportano ad un’immagine simile utilizzata ne La ballata («adesso che si affoga nella roba»[74]). Ed è sempre Cortellessa a riscontrare quel «surplus di foga anticlericale, nemica di ogni mediazione, di ogni potere costituito»[75] in particolare in alcuni epigrammi della raccolta:

Tommaso Muntzer disse che cacava addosso
A quel Dio che non parlava con lui[76]

Oppure più avanti:

La legge dice di ogni persona /è pubblica o privata. A quella privata
la legge dice: “Non uccidere”, 
a quella pubblica “Uccidi”, dice.[77]

Più in generale -e qui concludiamo- è proprio questa avversione a ogni potere costituito, a ogni conformismo e/o mistificazione e del linguaggio, che a noi sembra essere la cifra più potente, l’impronta più duratura e crediamo ancora oggi potenzialmente feconda della poesia di Elio Pagliarani (pur nei suoi esiti conclusivi, in qualche modo meno ottimistici). Come rileva acutamente Aldo Nove: «non l’ha mai sfiorato l’idea che la poesia abbia la funzione di abbellire la realtà, di intrattenerci piacevolmente. Continua a muoverlo la speranza che la poesia, almeno nell’individuo, possa mutare la realtà, o creare gli strumenti sempre nuovi per interpretarla»[78].

Una poesia che ha provato ad essere un potente strumento “alchemico” di rigenerazione del linguaggio e in ultima analisi della democrazia: solo verificando che l’immaginario collettivo non sia inquinato da falsificazioni arbitrarie (e sia invece quanto più possibile prodotto di punti di vista molteplici, autentici, vivi), si può in fondo tentare di costruire una società realmente democratica i cui valori siano davvero condivisi e non imposti o peggio ancora mistificati da qualsiasi forma di potere.

 


[1] W. Pedulla,Una testimonianza,”L’Illuminista, numero 20-21, anno VII, Ponte Sisto, Roma, 2007 p. 19, già (con alcune variazioni) ne “L’immaginazione”, Storie di amicizia e poesia, pp. 30-32.

[2] E.P. e G. Guglielmi, Manuale di poesia Sperimentale, Milano, Mondadori, 1966.

[3]   E.P. e Guido Guglielmi, (1966) op. cit.

[4] E. P. e Guido Guglielmi, (1966) op. cit., p. 23. 

[5] cfr. P. Perilli, Introduzione, in La pietà oggettiva (poesie 1947-1997), Fondazione Piazzola, Roma 1997 p. 23 e passim.

[6] W. Pedullà, Elio Pagliarani, in Storia generale della letteratura italiana, Diretta da Nino Borsellino e Walter Pedullà, Motta, Milano 1999, vol. XII pp. 184-188,193, 196-98.

[7] Vedi Franco Fortini, Le poesie italiane di questi anni, “Menabò”, 2, 1960.

[8] A. Giuliani, Introduzione a I Novissimi, Poesie per gli anni ’60, Rusconi e Paolazzi, Milano 1961.

[9] E. P., Cronache e altre poesie, Milano, Schwarz, 1954.

[10] H. Marcuse, One-dimensional man, Beacon press, Boston, 1964

[11] Poesia “gravata dalla troppa ineluttabile gravità di sé e conseguente bagaglio”: vedi risvolto di Cronache e altre poesie, 1954, op. cit.  poi ricitato in Cronistoria minima, ne I romanzi in versi. La ragazza Carla, La ballata di Rudi, Mondadori, Milano 1997, pp. 121-126, poi in E.P. (2006), op. cit.,pp. 464-470.

[12] P.P. Pasolini, Il neosperimentalismo in “Officina”, 2, 1956.      

[13] Vedi E. P., Introduzione a Giovanni Pascoli, “Cento libri per mille anni” collana diretta da Walter Pedullà, Istituto poligrafico e zecca dello stato, Roma 1998

[14] E.P., Romanza sotto la pioggia, in (1954), op. cit.

[15] E.P., T’alimenta la gioia perché divampi, in (1958), op. cit.     

[16] E.P., Lezione di fisica e Fecaloro, (ed. che include Fecaloro), Milano, Feltrinelli 1968.

[17] E.P., E’ difficile amare in primavere, in (1958) op.cit.

[18] E.P.  (1998), Introduzione in E.P., (1998), op. cit.

[19] A.Giuliani, Introduzione ai Novissimi. Poesie per gli anni ’60, Rusconi e paolazzi, Milano 1961.

[20] Giovanni Sechi, La ragazza Carla di Elio Pagliarani, “Nuova Corrente”, primavera 1963, poi ne “L’illuminista”, numero 20-21, anno VII, Ponte Sisto,Roma, p. 241.

[21] Il rapporto di E.P. con il teatro sia in qualità di critico che di scrittore di opere originali (e l’influenza  che questo rapporto possa aver avuto sull’evoluzione stilistica della sua poesia) meriterebbe un’analisi a parte che non ci sembra opportuno, solo per ragioni tematiche e di spazio, di affrontare in questa sede, ma che volentieri rimandiamo ad un futuro approfondimento); segnaliamo ovviamente  i fondamentali E.P.: Il fiato dello spettatore, Marsilio , Padova, 1972 che raccoglie gli interventi/recensioni di Pagliarani sul teatro (poi ampliato ne Il fiato dello spettatore e altri scritti sul teatro, a cura di Marianna Marrucci, L’orma editore, Roma, 2017) e per le opere teatrali originali dell’autore: E.P. Tutto il teatro, a cura di Gianluca Rizzo, Marsilio, Venezia, 2013.

[22] E.P, (1954) op. cit.

[23] E.P, Elio Pagliarani, in Autodizionario degli scrittori italiani, a cura di Felice Piemontese, Leonardo, Milano 1990, pp. 249-252.

[24] E. P., Cronistoria minima, in I romanzi in versi. La ragazza Carla, La ballata di Rudi, Mondadori, Milano 1997, pp.121-126.

[25] E.P, Milano 1997, op. cit.

[26] Nella poesia E’ difficile amare in primavere in E. P., Inventario privato, Veronelli, Milano 1959 l’amore tra il poeta e una donna viene letteralmente descritto in termini di «stridore»: «o trasferisco in pubblico stridore/ che è solo nostro, anzi tuo e mio?».

[27] E.P., Milano 1997, op cit.

[28] passim E. P. e Guido Guglielmi, Introduzione, in id., Manuale di poesia sperimentale, Mondadori, Milano 1966.

[29] Vedi Fausto Curi, Mescidazione e polifonia in Elio Pagliarani, in “L’immaginazione”, 190,2002.

[30] E.P., Se facessimo un conto delle cose, in Inventario privato, op. cit.

[31]  E. P., E’ difficile amare in primavere, in Inventario Privato, op. cit.

[32] A. Spatola, Recensione a Elio Pagliarani, Lezioni di fisica, Scheiwiller, Milano 1964.

[33] E.P., Se domani ti arrivano dei fiori, in (1958) op. cit.

[34] E.P., E’ già autunno, troppi mesi ho sopportato, in (1958) op. cit.

[35] F. Fortini, Le poesie italiane di questi anni, in “Il Menabò”, 2, 1960; più facilmente reperibile in Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano, 2003 pp. 570-71.

[36] Alfredo Giuliani, Milano, 1961, op. cit.

[37] E.p., I-1 La ragazza Carla, in “Menabo”, 2,1960.

[38] E.P., Narcissus Pseudonarcissus, in (1954), op. cit.

[39] passim E. P. e Guido Guglielmi, (1966) op. cit.

[40] E.P., Dittico del Fecaloro: II Fecamore, in Lezioni di fisica e Fecaloro, Feltrinelli, Milano 1968

[41] E.P. Trascrizione (da Luciano Amodio), in (1954) op. cit.

[42]  G. Guglielmi,(1966), Recupero della dimensione epica, “Paragone/Letteratura”, 160, aprile 1963

[43] ibid.

[44] E.P., (III-5) (1960), op. cit.

[45] E.P., Sotto la torre al parco di domenica, in (1959) op. cit.

[46] E.P., I-9 (1960) op. cit.

[47] E.P., II-3 ibid.

[48] E.P., II-2 ibid.

[49] E. Sanguineti, Introduzione a Poesia italiana del Novecento, Einaudi, Torino 1969 p. LX-LXI.

[50] E.P., I-1, in (1960) op. cit.

 

[51] U.Eco, Artecasa in libreria, in “Artecasa”, 57, dicembre 1964-gennaio 1965

[52] Vedi E.P. Dittico del Fecaloro: I Fecaloro in (1964), op. cit. “[…] sono scaricate le pile/ andrò avanti a bile a umori a me non mi occorre inventare rancori”

[53] E.P, Lezione di fisica. A Elena, in (1964), op.cit.

[54] E.P. ibid.

[55] E.P, Dittico del Fecaloro: II Fecamore, in (1964), op. cit.

[56] E.P, Dittico della merce: I La merce esclusa, in (1964), op. cit.

[57] E.P., La ballata di Rudi, ed. int.,Venezia,Marsilio, 1995

[58] E.P., Rosso Corpo Lingua Oro Pope-Papa Scienza, Cooperativa scrittori,1977, Roma.

[59] E.P,(1997). op. cit.

[60] G. Ferroni, Il rendiconto di Rudi, in “L’Unità-due”, 3 luglio 1995.

[61] ibid.                                          

[62] E.P. Rap dell’anoressia o bulimia che sia, in (1995), op. cit.

[63] A. Cortellessa, La parola che balla, Introduzione a E.P., Tutte le poesie (1946-2005), Garzanti, Milano, 2006 p.47.

[64] ibid.

[65] Doppio trittico di Nandi, prima in E.P. (1977) op.cit. poi in E.P. (1995), op. cit. con il titolo XXXIII,A: proviamo ancora col rosso

[66] G. Ferroni, (1995) op. cit.

[67] Per approfondire le suggestioni alchemico-iniziatiche presenti in Rosso Corpo Lingua Oro Pope-Papa scienza e poi ne La ballata suggerisco la lettura di S. Sgavicchia: Kipling, Brecht, Eliot nella ballata di Rudi, ne “L’Illuminista” numero 20-21, Settembre-Dicembre  2007, Ponte Sisto Roma; interessanti anche gli approfondimenti su alcuni importanti riferimenti culturali alla poesia anglo-americana considerati dall’autrice importanti per la composizione de La ballata (in particolare Eliot a il Kipling di Kim).

[68] Interessante per analizzare il Pagliarani “sfiduciato” ma in qualche modo “resistente” degli ultimi anni la lettura di: S. Ventroni, Intervista a Pagliarani (Elio Pagliarani: noi, gratuiti vivificatori della parola), Liberazione, 27 luglio 2006, poi ne “L’Illuminista”, n° 20-21, anno VII, pp. 109-112.

[69] E.P., Esercizi platonici, Acquario- La Nuova Guanda, 1985, Palermo

[70] E.P. Epigrammi (vers. Def.): da Savonarola, Martin Lutero, ecc., Lecce, Manni, 2001

[71] E.P, Aggiunta per l’edizione 2001, in E.P. (2001) op.cit.

[72] E.P.,L’angoscia della tua voce incrinata spezzata da un gelido vento di morte,(1995)poesia omaggio scritta per il ventennale della morte di Pasolini, poi reperibile in E.P. (2006), op cit. pp. 436-437.

[73] R. Luperini, Introduzione a E.P., Epigrammi Ferraresi, Manni, Lecce, 1987

[74] E.P., A tratta si tirano, in (1995), op. cit. poi in E.P. (2006), op. cit.,  pp. 277-279.

[75] A. Cortellessa,(2006), op. cit.,p.53.

[76] E.P, Parte seconda. Sette epigrammi dai detti conviviali di Martin Lutero, in (2001)op. cit.

[77] ibid.

[78] A.Nove, Facendo finta che non si appassisca il mare, “Poesia”, Aprile 2006