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L’isola dei topi di Alberto Bertoni

Marilina Giaquinta 

“L’isola dei topi” è un “autoritratto universale”, “universale” come intendeva Auerbach, cioè come concetto di “letteratura universale dello spirito umano” e prima di lui Goethe e cioè “l’intuitiva e vagamente romantica “sensazione” che la natura umana trascende la specificità delle culture e delle storie”, spiega Daniel Mendelsohn. E tuttavia un autoritratto, un’intimità così profonda, così tracciante, così piena, così confidente, una confessione aperta del “semplicemente sono stato”, dell’ “essere fragile/ a tutto permeabile/ incapace di offrire resistenza”.

Un consegnarsi al lettore, uno svelamento di se stesso così assoluto che chi lo legge ha l’impressione di aver ritrovato, attraverso la grazia delle parole e dei versi, un vecchio amico, un compagno di bevute ( “oltre i confini delle sbornie tristi”) e di partite e di scure risate. Un parlare solitario, un’inquisizione, una pubblica accusa rivolta implacabile a se stesso che genera però prossimità e inclusione e in cui l’altro è sempre chiamato in causa, come uno specchio che lo riflette e in cui si riflette. ( Celan, poeta amato dall’autore ed evocato già nel titolo della sezione “Was war”, scriveva :” l’incontro misterioso tra “io” e “tu” che dà vita a una poesia”). E, d’altra parte, per Bertoni “la poesia è colloquio”, è “comunicazione”, è “trasmissione d’esperienza”. E, se, come scrive Damasio, “per avere conoscenza e coscienza, dobbiamo “connettere” o “riferire” oggetti e processi a … noi stessi”, la poesia è lo sguardo ( parola tra le più ricorrenti della raccolta) sì rivolto alle cose e agli oggetti che esistono e hanno luogo nel mondo circostante, ma riferito e necessariamente costruito intorno al loro stesso osservatore. È uno sguardo interiore, uno sguardo/sentimento, uno sguardo che, nello stesso momento in cui percepisce, crea il mondo e lo fa immagine appartenente. Quello sguardo -  che dalle cose ha divorziato, perché ha divorziato da se stesso - contiene “l’assoluto non essere che sono”, il senso e la lucida coscienza dell’inerzia irresistibile della vita, “della fine di ogni più autentica passione”, del “raro esistere di umani.”  L’io “gettato nel mondo”, di heideggeriana memoria, condannato ad esserlo per essere, un io naufrago in un ognidove fatto di negazioni, a cui l’infinito suscita nausea e che ha bisogno di uno specchio per ritrovare una cognizione esistenziale. “Nello specchio stamattina ho visto/ un sorriso che non conosco”. E invero, la negazione è dialettica e la dialettica è, dice Edith de la Héronnière, “da sempre un sano percorso cognitivo”, perché è necessario, sempre e comunque, procurare una frattura nell’ordine delle cose – e del nostro sguardo a loro rivolto – per esistere nel tempo, pur privi di ogni redenzione ( “Io sono io e la mia circostanza, e se non la salvo, non salvo neanche me stesso”, scriveva Ortega Y Gasset).

Un abbandonarsi, un lasciarsi andare alla deriva e al coraggio dei versi (“scaldarmi scrivendo”), perché la poesia è pratica di smarrimento ( pianeta viene dal verbo greco “planaomai” che significa “errare, smarrirsi”), perché, scrive Agamben, “occorre concepire il soggetto non come una sostanza, ma come un vortice nel flusso dell’essere… e il poeta è colui che si immerge in questo vortice.”

“L’isola dei topi” è l’ossimoro della vita ( e, quindi, della morte: “l’enigma è la vita, un insulto logico visto che si nasce non solo per morire, che già basterebbe, ma bisogna pure saperlo – uno sfregio, in buona sostanza. Intollerabile.”, scrive Eugenio Mazzarella): è memoria  ( ” il poeta non solo adopera la memoria, ma la incarna” scrive Ann Carson e si arrabbia Bertoni per la mancanza del suo esercizio tra i giovani), e perdizione (“il precipizio nel fiato”), è l’abulia dell’amore coniugale (“ con la nonchalance dovuta/ alla nostra lunga storia Femmina- Maschio”) e allo stesso tempo la dolce nostalgia degli “abbandoni e delle resistenze.”, è fango è tane è topi è pioggia impietosa che non risparmia niente ( “oggi piove addosso a ogni cosa”), è vento che “esplode” “con immensi ruggiti”, è “aprile solo e crudele fra le bestie”, è caduta rovinosa e bilico come nella metafora del piccione che “barcolla sul cordolo sconnesso” ma, allo stesso tempo, è natura solidale che ha gli stessi stati d’animo del poeta e le stesse sue emozioni, che respira con lui e con lui condivide “diastole e sistoli”, è foglie di “ruvido gambo e verde eleganza lanceolata”, è tigli, è pioppi, è “ombre  campagnole”, è “la compostezza delle nevi” che “scendono lievi”, è “platani almeno centenari/ dai quali anche oggi fluisce/ un respiro più grande”, è “ramo di pino fluttuante”, è “linea celeste d’orizzonte” verso la quale tendere. La natura insomma invade la scena autobiografica ed è la voce stessa del poeta perché, come scrive Emanuele Coccia, “ogni vita è un atlante che si dispiega: non abita un territorio, ma incarna in sé la mappa del territorio”.

E poi ci sono i topi. Quelli che l’autore vedeva correre sugli argini dei canali della sua Modena quando era bambino, quelli a cui è abituato, quelli che adesso sono interrati, “i nostri interlocutori quotidiani”, sotterranei come la  nostra coscienza, i topi che ci somigliano, noi stessi “androtopi”, quelli sui quali i neuroscienziati conducono i loro esperimenti in laboratorio per studiare i meccanismi di difesa del cervello umano e perché, in genere, mostrano di avere processi neurologici simili ai nostri.

“Poi, c’è la dimensione dei topi come incubi, dei topi come concrezioni dell’inconscio, la parte nostra che è indicibile. Io credo molto alla poesia per dare voce all’indicibile”, spiega l’autore in un’intervista, dei topi come “il correlativo oggettivo di questa constatazione di orrore che in qualche modo ci abita”, aggiunge l’autore dopo aver parlato dei lager e di come abbiano cambiato “la vicenda e il destino dell’uomo occidentale.”

Ognuno di noi vive sull’isola dei topi, in “isolitudine, come diceva Bufalino, con il proprio “autunno di topi nel pensiero”, noi, animali notturni assaliti dal tormento che è più facile dire ciò che avremmo potuto essere e non siamo divenuti, stranieri a noi stessi e sempre concernenti, abbandonati al peccato di vivere mentre cerchiamo affannosamente la nostra libertà nell’altro.