Paratesti e titolature letterarie nella pittura di Achille Perilli (1951-1971)
L’indagine sulle appendici paratestuali che incorniciano, letteralmente, le opere d’arte contemporanee meriterebbe un paziente lavoro di catalogazione e di sistematizzazione ragionata – a maggior ragione, laddove il sovrappiù lirico intervenga a ‘completare’ l’apparente blank narrativo dei contenuti astratti o informali. Di fronte a superfici trasparentemente geometriche, il titolo acquista una rilevanza primaria come spazio di mediazione tra un significante astratto e la sua ricomposizione logico-narrativa da parte degli osservatori. La «soglia» diventa il luogo d’incontro tra due tensioni formalmente opposte (astrazione e significazione referenziale), la cui alleanza segnerà, al contrario, una delle cifre più riconoscibili dell’intera carriera visiva di Achille Perilli.
In un discorso sulle strategie laterali di grammaticalizzazione di un quadro, il caso di Perilli si rivelerà decisivo per l’evidente propensione dell’artista a dislocare qualsiasi informazione utile alla decifrazione fuori dalla griglia pittorica. In sostanza, la verbalizzazione per Perilli si situa un attimo prima e un attimo dopo l’evento del quadro. La parola, dunque, non si deposita (in forma di citazione o di nuvola fumettistica) dentro alla tela, come avverrà nei disegni dell’amico Gastone Novelli. Eppure, la letteratura sarà onnipresente nell’immaginario di Perilli, modellando quella cornice ‘grammaticale’ necessaria a delimitare l’ossimoro del suo fantasioso razionalismo.
Dopo un esordio da titolista di morigerati costumi – con un’oscillazione tra il bozzetto realistico (Paesaggio di Avigliana, Paesaggio industriale, Testa di operaio, ecc.) e la convenzione astrattista (Composizione 11/47, Composizione 3/48, Senza titolo, Composizione analitica, Forme plastiche, ecc.) –, la scelta della trouvaille nomenclatoria diverrà una peculiarità ricorsiva nell’autorappresentazione pubblica di Perilli. A partire dai primissimi anni Cinquanta, infatti, all’indeterminatezza modaiola del gergo matematico (Yx, Imprevisti di una retta, Due forze in contrasto nello spazio, e così via) – che veniva a stabilire sostanzialmente una tautologia tra etichetta (geometrica) e contenuti (geometrici) – subentrerà uno scollamento progressivo tra subjet e titolo. In questa sede, tenterò di offrire un primo attraversamento delle titolature perilliane, restringendo l’arco cronologico (per ragioni di organicità e di spazio editoriale) al primo ventennio d’attività (1951-1971). L’analisi verrà ripartita in quattro paragrafi tematicamente coesi, con l’obiettivo di restituire all’assoluta libertà del segno perilliano i vincoli (per paradosso, altrettanto emancipatori) della referenzialità e del citazionismo. Oltre ai fenomeni di intertestualità, infatti, è come se il brusio del mondo (dai nomi propri ai luoghi, dall’autobiografia agli episodi di cronaca) incombesse sempre alle soglie dei quadri, togliendosi le scarpe della letteralità (potremmo dire) nell’anticamera d’accesso all’opera.
1. I titoli letterari: tra canone generazionale e manie di lettore
Nell’ecosistema altamente specializzato dei titoli perilliani, la letteratura rappresenta senz’altro il terreno di coltura più produttivo. Uno dei primi affioramenti dissonanti rispetto al glossario matematico e astrattista risale al 1951, con E dietro infiniti spazii – sintagma marcatamente ‘poetico’, che suggerisce un falso calco dall’Infinito leopardiano, in una crasi tra gli «interminati | spazi» (vv. 4-5) e l’«infinito silenzio» (v. 12).
Questa forma di liricità latente si evolverà poi nella tendenza a servirsi di un lessico libresco per presentare al pubblico le proprie opere, maneggiandone i contenuti come se si trattasse di veri e propri libri. È il caso di titoli come Appunti per una poesia (1957), Racconto sul muro (1957), Poesia per Carla (1957), Poesia per l’aurora (1958), Romanzo nero (1958) e Intenzione di poesia (1959). Del resto, lo stesso Cesare Vivaldi definirà Perilli «uno scabro, intenso, difficile poeta» (Vivaldi 1968), in una significativa indistinzione tra gli strumenti operativi della pittura e le ‘intenzioni di poesia’ alla radice del gesto plastico. In questi primi lavori, l’interscambiabilità tra campo letterario e pittorico viene ostentata attraverso una riappropriazione dei generi narrativi – dalla «poesia» al «romanzo» –, evocati come analoga per vincolare l’apparente staticità dei geometrismi a un’idea (letteraria, per l’appunto) di trama, di fiction, di cronotopo. Oltre all’abbecedario dei termini più comuni, Perilli si servirà anche di alcuni lemmi tecnici – come Zaum primo (1951), ossia la parola coniata dai poeti del futurismo russo Velemir Chlebnikov e Aleksei Kručënych per indicare quegli esperimenti fonosimbolisti condotti su glossolalie, neologismi e rimodulazioni del gergo infantile. Il vocabolo ritornerà venticinque anni dopo nel titolo dello spettacolo di struttura-azione Zaum, allestito dal «Gruppo Altro»[1] presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel marzo del 1976.
Dopo una prima approssimazione ‘per via di etichette’, Perilli disseminerà alcuni tributi espliciti a scrittori, come avverrà per L’eccellenza Ripellino (1954). Il poeta e traduttore Angelo Maria Ripellino – la cui figura di promotore e animatore intellettuale meriterebbe un’urgente valorizzazione accademica[2] – dedicherà a sua volta un componimento in versi all’amico, l’Epistola al signor Perilli pubblicata sull’«Esperienza moderna» nel 1957 (Ripellino 1957), nonché una seconda lirica (In principio era Odradek) confluita nel catalogo perilliano di Machinerie, ma chère machine (Perilli 1975)[3]. La conoscenza con Ripellino (avvenuta, peraltro, nel luogo tutt’altro che neutrale del Centro Sperimentale di Cinematografia) porterà Perilli ad acquisire una certa familiarità con l’avanguardia ceca e con il formalismo russo che avrà delle ripercussioni dirette sui lavori “astratti” della prima fase (cfr. Guzzi 1947). Ripellino funzionerà, per Perilli, come un salvifico deus ex machina, investito del compito palingenetico di liberare gli artisti più ricettivi dalle catene del «sordo grigiore della provincia italiana» – come scriverà Perilli stesso in un articolo su Ripellino e la dimensione della pittura (Perilli 1979: 108).
Come constateremo anche a proposito di Elio Pagliarani e di Alfredo Giuliani, l’indagine sui titoli ci permetterà di conferire una validazione ulteriore a quel processo di ‘mutuo soccorso culturale’ caratteristico delle neoavanguardie (soprattutto romane), in cui un gesto d’offerta (la poesia tributata a un artista) verrà spesso ricambiato da intitolazioni dedicatorie o dall’invio concreto di manufatti. Senza trasferire la prassi sul terreno del giudizio moralistico o del mero utilitarismo di comodo, è necessario riconoscere, tuttavia, come un simile corporativismo intellettuale lasciasse spesso dei sedimenti effettivi (titoli, oggetti, testi d’occasione) fondamentali per ricostruire l’agenda quasi giornaliera di quelle cellule di resistenza (nonché di attiva reazione) che si sognarono alternative a un’egemonia intellettuale passatista e retrograda. Più in generale, quando compare apertamente il nome di un altro operatore culturale (ad esempio, nei ricorrenti Omaggi[4]), il titolo varrà come medaglietta identitaria, un espediente per costruire una propria genealogia di modelli ai bordi del quadro. Non si tratterà di fonti meccanicamente derivative, rispetto alle quali lo stile di Perilli dovrà dichiararsi in qualche modo debitore (parassitario o epigonale), ma piuttosto di suggestioni di lettura che contribuiranno a sagomarne i presupposti programmatici e ideologici più generali. Si possono inscrivere in questa classificazione, ad esempio, La maschera di Sade (1954) o il Piccolo omaggio a Cravan (1954), il poeta-pugile idolatrato da dadaisti e surrealisti come Marcel Duchamp o André Breton[5].
Da un utilizzo nominale del thesaurus letterario si passerà, poi, al dispiegamento di intere citazioni estrapolate da titoli di romanzi, singole frasi o versi denotativi di un canone generazionale e/o di una biblioteca squisitamente privata di letture. Ricostruire l’inventario dei prelievi intertestuali di Perilli ci consentirà, in primo luogo, di identificare le mode aggregative dei gruppi sperimentali più avanzati degli anni Sessanta. L’indice delle opere grafiche di Perilli potrebbe essere sfogliato, dunque, come un elenco di quei maestri o anti-maestri che hanno agito come cinghie di trasmissione per sincronizzare i movimenti testualmente anarcoidi del Gruppo 63. Non sono d’accordo con quanto sostiene Elisabetta Cristallini relegando gli «spunti letterari» delle titolature perilliane al rango di decorazioni esteriori, vuoti «inganni percettivi e mentali», che «non offrono alcuna guida alla lettura delle strutture» di Perilli (in Perilli 1988: 118). Al contrario, questi apparati verbali diventano fondamentali per inserire l’arte di Perilli dentro un preciso côté storiografico che, lungi dal negarne la prepotente originalità, servirà a chiarire come alcune scelte terminologiche e citazionistiche agissero anche come provocazione o replica implicita rispetto a un contesto discorsivo reale e ben individuabile. Liberando il citazionismo dalle polveri sottili della filologia, bisogna ricordare come i calchi o le riprese testuali abbiano funzionato in tutte le epoche come mediatori di ideologie, nonché come cartelloni di militanza attiva per denunciare la tradizione e il canone (maggiore o minore, egemonico o underground) su cui ciascun artista sceglie di scommettere i propri risparmi creativi nella battaglia per l’occupazione del campo culturale.
Cominciamo dai ‘nonni sperimentali’ più accreditati nell’albero genealogico delle neoavanguardie. Il quadro The enormous tragedy of the dream (1957) deve la propria titolatura all’incipit del settantaquattresimo dei Canti pisani di Ezra Pound («The enormous tragedy of the dream in the peasant's | bent shoulders») (Pound 1985: 838). Per i Novissimi, i Cantos hanno rappresentato l’apprendistato obbligatorio, nonché il patentino per ottenere un’immediata riconoscibilità (d’avanguardia e, soprattutto, d’avanguardia internazionale) nel panorama italiano coevo[6]. Un ulteriore affioramento poundiano si può identificare nel titolo latino confezionato tre anni dopo, Ubi amor, ibi oculus est (‘Dov’è amore è anche capacità di percezione’) (1960), giacché si tratta della citazione sull’ineffabilità del Paradiso contenuta nel Benjamin Major di Riccardo di San Vittore su cui si chiude il sipario del novantesimo canto poundiano (Pound 1985: 1172)[7]. Il nome di Pound era già comparso in un sintomatico articolo di Perilli, pubblicato su «Civiltà delle macchine» nel novembre del 1954, in cui l’artista istituiva una relazione biunivoca tra una cultura-causa (un humus novecentesco costruito su autori come «Heidegger e Carnap, Pound e Berg», Perilli 1954) e la scultura-effetto di Pevsner.
Un secondo aggregatore di scritture sperimentali omaggiato nei lavori perilliani sarà Antonin Artaud. L’allusione in questo caso è ancor più criptica, giacché si tratta di un’apparente glossolalia o clausola nonsensical – Ora bulda nerkita (1959) – che si rivelerà, invece, asportata dal passaggio di una lettera a Jacques Rivière del 9 ottobre 1945, allegata al Paese dei Tarahumara e altri scritti, dove leggiamo: «Perché l’indefinito è una pressa | Ora bulda nerkita | che schiaccia anche il torchio fino a farne venir fuori il sangue stesso dell’infinito, non come uno stato, ma come un essere» (Artaud 1985: 178). Il magistero esercitato da Artaud sulla stagione teatrale degli anni Sessanta non necessita certo, in questa sede, di dimostrazioni esemplificative – così come, del resto, quella del patafisico Alfred Jarry, di cui Perilli citerà non una pièce ma l’eccentrico romanzo L’amour absolu (1899), in un omonimo quadro del 1959.
Alla stessa costellazione di riferimenti maudits appartiene anche George Bataille, la cui centralità d’ispirazione assumerà la forma di una triplice citazione – semplice da individuare nella mera replicazione del titolo Les larmes d’eros (1967), vale a dire l’ultimo libro a cui Bataille lavorò dal 1959 al 1961, strutturando l’opera-testamento come un bilancio e un congedo luttuoso dai propri archetipi ragionativi (la morte, il sacro, il gioco, l’eros, e così via). Da questo ambizioso tomo di «storia universale», Perilli estrapolerà poi altre due titolature – Des cavernes deux fois magiques (1967) (tratto dal titolo del secondo paragrafo del cap. ii, Le travail et le jeu) (Bataille 1987: 593) e La réponse au désir érotique (1968), sintagma che si colloca, invece, nell’iniziale Avant-propos (ivi, p. 576). Sulla carica erotica insita nelle geometrie apparentemente innocue di Perilli insisterà Alfredo Giuliani in una poesia del 1965[8], destinata a confluire negli Scherzi critici su pitture – una breve sezione ecfrastica di Chi l’avrebbe detto che ospita quattro testi dedicati a pittori (Emil Nolde, Teodosio Magnoni, Gastone Novelli e, per l’appunto, Achille Perilli) (Giuliani 1973: 117-122). Nel delineare un identikit segnaletico di Perilli («insegnante di ginnastica putativa», «massaggiatore di lobi balneari», «paesaggista per cineteche di campagna», vv. 12-14), Giuliani apostroferà l’artista come visionario «allevatore di clitoridi» (v. 13), in una focalizzazione sulla radice sessuale e anatomica delle invenzioni di Perilli che troverà una parziale consonanza con una tela del 1962 intitolata Erotica (nonché con L’esperienza sessuale, realizzata lo stesso anno). Per Perilli, del resto, il gesto plastico (e, soprattutto, cromatico) rappresenta «la mia sensualità, la mia immaginazione carnale [...], le sensazioni più ricche, succulente, viziose» (cit. in Di Milia 1986: 32).
Per restare brevemente nell’orbita di Giuliani – su cui ritorneremo più diffusamente nel paragrafo successivo –, un’opera del 1959 (These ancient minutes) risulterà debitrice della lirica di Dylan Thomas Hold hard, these ancient minutes in the cuckoo’s mouth (1935) (Thomas 1962: 74). Il neoavanguardista (e forse il poeta italiano tout court) più fidelizzato allo stile di Thomas sarà proprio Giuliani; nel 1965 uscirà per Einaudi una silloge di Poesie dell’autore gallese tradotte da Ariodante Marianni e accompagnate da «sette versioni» creative dello stesso Giuliani – già apparse nel Cuore zoppo (Giuliani 1955).
Un altro collettore generazionale si può scorgere dietro all’Emploi du temps (1959) – derivato dall’omonimo romanzo di Michel Butor pubblicato in Francia tre anni prima (1956). In questo caso non si tratterà della genia di ‘provocatori neri’ à la Artaud ma, piuttosto, di un ‘gemellaggio poetico’ con la corrente francese del Nouveau Roman che pure segnerà, in modo altrettanto decisivo, le sorti del romanzo sperimentale italiano[9].
Il bottino di questa caccia enigmistica alle fonti verrà a includere anche un’importante direttrice degli interessi estetici di Perilli, vale a dire il dadaismo[10] – attraverso due calchi dalle poesie di Jean Arp, rispettivamente, Les pierres sont des nuages (1970) («les pierres sont des nuages | car leur deuxième nature danse sur leur troisième nez | bravo bravo»[11], Seghers 1970: 36) e Une goutte d’homme (1970) («une goutte d’homme | un rien de femme | èvent la beauté du bouquet d’os», ivi, p. 40). La figura di Arp (che Perilli aveva incontrato per la prima volta a Parigi nel giugno del 1948) sarà una costante nominale negli scritti di Perilli, dai semplici «collages» menzionati in Segni e immagini di Franz Kline (Perilli 1957a: 33) all’Intervista a Jean Arp pubblicata sulla «Fiera Letteraria» nel 1953 (Perilli 1953).
Il rimando a Nadja di Andrè Breton (1928), invece, svolgerà una duplice funzione: di marker identitario e ideologico, da un lato, e di tributo privato ed esistenziale, dall’altro (dal momento che l’anno precedente, nel 1969, era nata la figlia di Perilli – Nadja, per l’appunto).
Il citazionismo letterario di Perilli non si esaurirà, tuttavia, nella compilazione di un canone collettivo, valido come tesserino da esibire nel club esclusivo della Neoavanguardia. La rassegna delle titolature perilliane ospiterà svariate allusioni a romanzi meno noti ma probabilmente determinanti nella formazione intellettuale (e nella costruzione di un gusto personale) dell’artista. Tra le emersioni intertestuali che si possono segnalare, ricordo Il lamento dell’ultimo menestrello (1961) – che ricalca l’omonimo poema di sir Walter Scott (1805) – e I gioielli indiscreti (1971), ossia il primo romanzo scritto da Denis Diderot (1748).
Talvolta è possibile individuare piccoli raggruppamenti organici di citazioni, che si coagulano attorno a uno stesso autore. È il caso di Raymond Roussel, di cui nel 1970 Perilli rievocherà il curioso ‘copione narrativo’ Locus solus, uscito nel 1914 e messo in scena nel 1922 suscitando reazioni fortemente contestatorie da parte del pubblico. Già nel 1969 si era affacciato un curioso spettro rousseliano, in una titolatura – L’irrémédiable extase (1969) – derivante con ogni probabilità da un saggio di François Lorin intitolato, per l’appunto, Raymond Roussel ou l’Irrémédiable Extase (Lorin 1964). Roussel è considerato uno dei padri putativi della Patafisica e dell’Oulipo, che lo investiranno a posteriori della responsabilità storica e anticipatoria di aver trasformato lo stesso codice linguistico in attore e personaggio delle sue trame.
Per quanto riguarda il Don Diego de Mesa y Gallardo (1955), invece, il rimando è al nome di un poeta spagnolo poco conosciuto, che aveva soggiornato a Roma tra il 1951 e il 1956[12] – occupandosi contestualmente della sezione spagnola della rivista «Botteghe Oscure». Nel sedicesimo quaderno del periodico, pubblicato proprio nel 1955, verrà accolta una sua lirica – Pasifae (fragmento) – (Mesa y Gallardo 1955). Un’ulteriore allusione al poeta si ritroverà nel Veritiero ritratto di Don Diego de Mesa, realizzato nello stesso 1955, a cementare l’affinità elettiva tra i due operatori culturali – che forse ebbero modo di frequentarsi personalmente nella Capitale.
Per restare nell’ambito delle ‘letture incarnate’, vale a dire di quelle designazioni nominali che sono debitrici di una conoscenza al contempo amicale e artisticamente feconda, non sarà casuale imbattersi in svariate titolature legate al nome di Jean-Clarence Lambert – critico d’arte, traduttore e poeta francese con cui Perilli coltivò un duraturo rapporto di co-operazione estetica. Il titolo di un’opera del 1964 (Jeu antique et cruel) corrisponde a un verso del Journal du Labyrinthe di Jean-Clarence Lambert – poi confluito in Les armes parlantes: pratique de la poésie. Ai vv. 3-5 di Le Coryphée leggiamo, infatti: «C’est un jeu antique et cruel, | du moins on le suppose: on en a oublié la plupart des règles» (Lambert 1976: 153; i corsivi sono miei). La coincidenza potrebbe sembrare tutto sommato marginale, se non esistesse una pluri-certificata rete di collaborazioni tra lo scrittore-critico e l’artista. Una prima traccia letteraria[13] è attestabile al 1960, quando le dodici poesie francesi del Theatrum Sanitatis erano state accompagnate tipograficamente da cinque litografie perilliane (Lambert, Perilli 1960). Al 1962 risale, invece, un contributo saggistico (Till Achille Perilli) pubblicato su «Konstrevy», che cementifica criticamente una corrispondenza d’amorosi sensi estetici destinata a perdurare negli anni successivi – come testimonia Il Parlar Rotto, la plaquette uscita nel 1972 per la Grafica Romero, con poesie di Lambert e dodici acqueforti di Perilli (Lambert, Perilli 1972).
Talvolta le fonti si riveleranno ancor più periferiche, imprevedibili e ‘minori’, al punto da suggerire al filologo-bricoleur una certa dose di capricciosa casualità – o, meglio, una pesca disordinata e rapsodica nel cantiere spalancato della testualità. È il caso del Ninfo egerio (1963), estrapolato da una definizione coniata da Mario Carli nel Fascismo intransigente per apostrofare Benedetto Croce, marchiandolo come «il Ninfo Egerio dei tonti» (Carli 1926: 131).
Per evitare di appesantire l’analisi con un esubero di puntualizzazioni – ingiustificate laddove si tratti di scrittori storicizzabili a fatica nella storia del gusto delle avanguardie – riporto nella seguente tabella un elenco complessivo delle occorrenze letterarie, secondo una prassi inventariale che ripeterò in tutti i paragrafi successivi[14]:
Tyaratyondyorondyondyo (1953) |
Tyaratyondyorondyondyo, racconto pubblicato da René Basset all’interno dei Contes populaires d’Afrique (Basset 1903: 361-364). |
The enormous tragedy of the dream (1957) |
I Cantos di Ezra Pound (LXXIV, v. 1). |
Corto viaggio sentimentale (1958) |
Corto viaggio sentimentale, racconto incompiuto di Italo Svevo (1928). |
Racconto d’inverno (1958) e Il racconto d’inverno (1964) |
Il racconto d’inverno [The Winter’s Tale] di William Shakespeare (1611). |
L’amour absolu (1959) |
L’amour absolu, romanzo di Alfred Jarry (1899). |
Ora bulda nerkita (1959)
|
Al paese dei Tarahumara e altri scritti di Antonin Artaud (1945). |
L’emploi du temps (1959) |
L’emploi du temps, romanzo di Michel Butor (1956). |
These ancient minutes (1959) |
Hold hard, these ancient minutes in the cuckoo’s mouth, poesia di Dylan Thomas (1935). |
Il lamento dell’ultimo menestrello (1961) |
Il lamento dell’ultimo menestrello [The Lay of the Last Ministrel], poema di sir Walter Scott (1805). |
Nella pietra dorme un’immagine (1959) |
Così parlò Zarathustra [Also sprach Zarathustra] di Friedrich Nietzsche (1883) («Ahimè, uomini, nella pietra dorme un’immagine, l’immagine delle immagini») (Nietzsche 1964: 359). |
Ubi amor, ibi oculus est (1960) |
Benjamin Major di Riccardo di San Vittore, citato nel finale di Ezra Pound, I Cantos (XC, vv. 25 e 126). |
Avant le cinema (1963) |
Avant le Cinéma, poema di Guillaume Apollinaire (1917)[15]. |
Varney the vampire (1963) |
Varney the Vampire, romanzo gotico a puntate di James Malcolm Rymer (1845). |
Les larmes d’eros (1967) |
Les Larmes d’Éros di George Bataille (1961). |
Des cavernes deux fois magiques (1967) |
Les Larmes d’Éros di George Bataille (1961) (par. 2, cap. ii, «Des cavernes deux fois magiques»). |
La réponse au désir érotique (1968) |
Les Larmes d’Éros di George Bataille (1961) (Avant-propos, «la réponse au désir érotique, au contraire, est une fin»). |
From harmony to harmony (1968) |
A Song for St. Cecilia’s Day, ode di John Dryden (1687) («From harmony to harmony | Through all the compass of the notes it ran, | The diapason closing full in Man»). |
Monsieur Morphée (1969) |
Monsieur Morphée Empoisonneur public di Roger Gilbert-Lecomte (1966). |
Idéal maitresse (1969) |
Idéal Maîtresse, poesia di Robert Desnos (1923) (Desnos 1973: 75). |
L’irrémédiable extase (1969)
|
Raymond Roussel ou l’Irrémédiable Extase, articolo di François Lorin (1964). |
Les pierres sont des nuages (1970) |
Les pierres domestiques, poesia di Jean Arp («les pierres sont des nuages | car leur deuième nature | danse sur leur troisième nez | bravo bravo») (Seghers 1970: 36). |
Une goutte d’homme (1970) |
Une goutte d’homme, poesia di Jean Arp (1938) (Seghers 1970: 41). |
Les espaces du sommeil (1970) |
Les Espaces du sommeil, poesia di Robert Desnos (1926) (Desnos 1999: 539). |
Locus solus (1970) |
Locus solus (1970), romanzo di Raymond Roussel (1914). |
Nadja (1970) |
Nadja, romanzo di Andrè Breton (1928). |
I gioielli indiscreti (1971) |
I gioielli indiscreti [Les bijoux indiscrets], romanzo di Denis Diderot (1748). |
Nota sulla percezione delle differenze immaginarie (1971) |
Note sulla percezione delle differenze immaginarie, racconto fantascientifico di Robert Sheckley (1971). |
2. La letteratura contemporanea italiana: Neoavanguardia e dintorni
I casi d’intertestualità neoavanguardista si pongono come fossili precocemente archeologici, gusci linguistici vuoti (ma sintomatici, quantomeno a livello documentario) rispetto all’incommensurabile pienezza di una co-abitazione quotidiana degli spazi intellettuali (quasi da ‘Bauhaus novissimo’ geolocalizzato a Roma). Per quanto riguarda il caso specifico di Perilli, dopo una prima conoscenza di Giuliani, Manganelli, Balestrini e Pagliarani risalente al 1961, l’artista presenzierà attivamente alle riunioni palermitane del Gruppo 63, realizzando le scenografie e i costumi per lo spettacolo collettivo di «Teatro Gruppo 63», ospitato contestualmente nella sala Scarlatti. Mentre la vita culturale procedeva in una rete (al contempo calendarizzata e anarchica) di eventi, mostre e dibattiti, è come se nelle opere di Perilli si sedimentasse una traccia archivistica involontaria di questa iper-interdisciplinarità espansa. Al di là delle occasioni ufficiali e diurne (da Che cosa si può dire a Pelle d’asino, per fare soltanto due esempi di lavori firmati a quattro o a sei mani da Giuliani, Novelli, Pagliarani e Perilli), il meticciato disciplinare degli anni Sessanta meriterebbe ancora di essere studiato nel suo lato ufficioso e notturno – che emerge con forza, per esempio, proprio in singole titolature o allusioni secondarie. Un titolo come L’Europa cariata (1963), ad esempio, trae la sua incisività incantatoria da un verso del Sasso appeso di Nanni Balestrini, pubblicato da Scheiwiller nel 1961. Si tratta della quinta sezione del libro, dove leggiamo (Balestrini 2015: 69; i corsivi sono miei):
L’Europa cariata (tecnica mista su tela, 120 x 120 cm, 1963) |
prendilo per le caviglie, prendilo per il collo sottile, le gambe sul soffitto l’inguine arancio nel silenzio docilmente dove pende la vita spaccata, e lasciare l’Europa cariata, sulla pioggia fuggendo lo scafo l’urlo del pianeta sulla fascia di nubi i verdi mari |
Nel 1965, peraltro, Perilli realizzerà le scene e i costumi per il balletto delle Mutazioni, su libretto dello stesso Balestrini – in una crescente frequenza degli happening interartistici che raggiungerà forse il suo apice nella co-organizzazione dell’evento performativo Grammatica no stop/teatro ore 12, messo in scena alla libreria Feltrinelli di Roma nel marzo del 1967.
Qualche inaspettata coincidenza testuale si potrà riscontrare anche con Edoardo Sanguineti, frequentatore della domenica di artisti come Perilli e Novelli, nonché dei salotti romani in generale – dal momento che, vivendo tra Torino, Salerno e Genova, non era facile garantire un presenzialismo regolare e, dunque, forme di cooperazione vagamente paragonabili a quelle che si verranno via via a costituirsi con Giuliani o Manganelli. Eppure, nonostante l’intermittenza dei rapporti e una certa distanza tanto ideologica quanto creativa, nel 1963 Perilli dipingerà un Alphabetum – e Alphabetum era proprio il titolo di una poesia sanguinetiana apparsa su «Documento Sud» tre anni prima (Sanguineti 1960a). Come spesso accade nella trafila variantistica sanguinetiana, nel passaggio dalla singola lirica al macrotesto verrà poi eliminata la titolatura e il componimento diventerà semplicemente la prima ‘stazione’ anepigrafa di Purgatorio de l’inferno – ultimato proprio nel 1963 e pubblicato l’anno successivo nell’iper-raccolta di Triperuno (Sanguineti 1964).
Un gioco citazionistico simile si poteva ipotizzare già dalla scelta di chiamare una tela Opus metricum (1960) – peraltro, proprio nello stesso anno in cui l’Opus metricum di Sanguineti era uscito per Rusconi (Sanguineti 1960b). Non può certo trattarsi di un accidente statistico; al contrario, Perilli stava cercando di presentarsi al pubblico come un ‘novissimo’ acquisito, in una legittimazione che poteva (e doveva) passare anche per il leader mediatico della Neoavanguardia. Nel ricordare nostalgicamente gli anni Sessanta, Perilli evocherà spesso quei «pomeriggi e serate dedicate al nascere e al costituirsi dei ‘novissimi’ con discussioni e polemiche e contrapposizioni», dichiarando assertivamente di aver trovato per la prima volta negli spazi culturali della Neoavanguardia «quel coincidere, che da sempre sentivo necessario, dove il ragionare non si limitava al proprio e ristretto codice linguistico, ma si allargava ad una sorta di ricognizione [...] in un accumularsi di esperienze e di curiosità» (Perilli 1994: 101)[16]. Questa consanguineità novissima riceverà la benedizione critica di Maurizio Fagiolo dell’Arco in Rapporto 60, il libro-bilancio ambiziosamente epocale dove il critico asserirà che «Perilli è un “novissimo” ad honorem: ricordiamo lo stretto legame con Giuliani e Pagliarani, la messinscena di testi del “gruppo 63”, la collaborazione nella rivista “Grammatica”. Affronta l’onirismo, come Sanguineti, con personaggi fluidi o evanescenti [...]. La rabbia, “le diable au corps” è quella di Pagliarani, l’ambiguità allegra è di Giuliani» (Fagiolo Dell’Arco 1966: 121).
Per quanto riguarda Elio Pagliarani – che aveva dedicato all’artista una poesia[17] (Come alla luna l’alone[18]) uscita sul primo numero di «Grammatica» nel novembre del 1964 e destinata a confluire successivamente nella Lezione di fisica (Pagliarani 2019: 162-166) –, ritroviamo una convergenza tra un titolo perilliano del 1961 (Oggetti e argomenti per una disperazione) e l’omonima «lezione» indirizzata ad Alfredo Giuliani (ivi, pp. 150-153).
Prima di scandagliare l’abisso intricato dei prelievi manganelliani, segnalo un’ultima occorrenza da Cesare Vivaldi, critico d’arte, poeta e novissimo ‘acquisito’ – nonché escluso dell’ultimo minuto dalla rosa finale dell’antologia di Giuliani[19]. Oltre ad aver presentato più volte l’artista sotto il profilo squisitamente critico e diagnostico, Vivaldi dedicherà a Perilli una poesia, confluita nella plaquette del Dialogo con l’ombra, assieme a cinque disegni di Giulio Turcato (Vivaldi 1960: 17). Non sarà casuale che Dialogo con l’ombra sia anche una tela realizzata da Perilli nello stesso 1960, a confermare la stessa circuitazione polimorfa tra poesie e quadri di area avanguardista.
Passiamo, infine, al bacino dei rimandi ossessivi e miniaturizzati al mondo immaginativo di Giorgio Manganelli[20]. Potremmo azzardare sommariamente che, ogniqualvolta l’osservatore s’imbatta in un titolo che ammicchi a problemi di semiotica o comunicazione linguistica, ci sia lo zampino intertestuale di Manganelli. Lo scrittore funziona, agli occhi di Perilli, come il ricettacolo di quelle invenzioni rocambolesche e di quei neologismi metafinzionali perfetti per affidare al pubblico le geometrie giocosamente lucide dei propri quadri. Partiamo da un esempio ‘collaterale’, vale a dire L’inferno linguistico (1964) – che ricalca il titolo di un articolo scritto da Angelo Guglielmi (L’inferno linguistico di Manganelli, per l’appunto) pubblicato sulle pagine del «verri» proprio nel 1964 (Guglielmi 1964).
Più rilevanti e sostanziosi mi paiono, invece, i carotaggi da Nuovo commento e da Agli dèi ulteriori, usciti entrambi per Einaudi, rispettivamente, nel 1969 e nel 1972. Per quanto riguarda il Nuovo commento, un primo sintomo di prossimità si può identificare nell’Allucinazione retorica del 1968. Sebbene questo eccentrico meta-testo verrà stampato soltanto l’anno successivo, è più che plausibile ipotizzare che Perilli ne avesse già lette alcune sezioni[21], come dimostra eloquentemente il seguente passaggio (Manganelli 2009: 17; i corsivi sono miei):
Allucinazione retorica (tecnica mista su tela, 81 x 100 cm, 1968)
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Pare naturale, non meno logico che mitologico, dedurre dal candore prospettico del commento [...] la fantasia, il virtuosistico delirio, l’allucinazione retorica, che il testo ospiti, o sfidi, o mimi, o infine sia abbozzo, progetto, planimetria ideale [...] di città. |
Un’ulteriore riprova si ottiene sottoponendo alla radiografia manganelliana altre due titolature risalenti al 1968, vale a dire La civetteria dell’astrazione e La carnale albedo – opere, peraltro, graficamente simili ed entrambe campionabili dalla stessa sezione di Nuovo commento (Manganelli 2009: 20-21; i corsivi sono miei):
La civetteria dell’astrazione (tecnica mista su tela, 81 x 100 cm, 1968)
La carnale albedo (tecnica mista su tela, 81 x 100 cm, 1968). |
Le civetterie dell’astrazione: non occorre più di un fulmineo, goffo indugio per cogliere le severe e disagevoli implicazioni di codesta enunciazione [...]. Maneggiare il testo come discontinuo e negricante abanico andaluso, schiva e lusinghiera mutanda da anima, nottambula sciarpa per carnale albedo.
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Le schegge citazionistiche tratte dal Nuovo commento includeranno anche l’Arguzia iconica (1968) («Ma si noti con quanta protervia [...] il chiosatore discorra di “arguzia iconica”», Manganelli 2009: 13), portandoci a ipotizzare quasi l’esistenza di un progetto (incompiuto e abortito) di illustrazione dei due libri manganelliani ‘in-illustrabili’ per statuto[22].
Passando agli Dèi ulteriori, non è difficile notare come le frasi isolate da Perilli provengano integralmente dal Discorso sulla difficoltà di comunicare con i morti, pubblicato sull’ottavo numero del «Menabò» nel 1965 (Manganelli 1965). E proprio al 1965 risale questo secondo nucleo di titolature manganelliane, tra cui possiamo individuare I metateppisti (1965) – oscura tipologia di ‘dannati’ oltremondani («secondo taluni, anime di aborti») di cui viene data una definizione da dizionario nella Nota pubblicata a conclusione della terza sezione del Discorso («metateppisti: luoghi di malizia e cattiverie e, insieme, impubertà; secondo taluni, anime di aborti: metafora a indicare il senso di carenza affettiva originaria che essi comunicano», Manganelli 1972: 150). Una seconda emersione dal Discorso riguarda un’espressione iper-lirica, quasi da ‘poetese’, vale a dire Il calamaio della notte (1965) – che deriva da una sezione del Discorso in cui il narratore intinge «la spennata penna» dell’ingegno nel proprio «negrissimo inchiostro interiore», così come gli altri uomini solitamente s’intingono, «pennini di se medesimi, nel calamaio della notte» (Manganelli 1972: 134; i corsivi sono miei):
Il calamaio della notte (tecnica mista su tela, 100 x 81 cm, 1965)
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E tutto ho scritto intingendo la spennata penna del mio ingegno nel mio negrissimo inchiostro interiore; così come gli uomini compilano i propri sogni, intingendosi, pennini di se medesimi, nel calamaio della notte. |
Un ultimo sintagma che, se non fosse calato in un simile contesto di citazionismo serrato, non sarebbe affatto riconoscibile come prelievo manganelliano interessa, infine, I rituali apotropaici (1965) («se sospettosi di malocchi e fatture, ed esperti di rituali apotropaici», Manganelli 1972: 156). Dopo un inseguimento nominale quasi voyeuristico, nel 1982 sarà lo scrittore a dedicare a Perilli un saggio (La logica assurda) incentrato sul riconoscimento simmetrico di un’iperattenzione, manifestata dall’artista per i problemi della comunicazione contemporanea e del linguaggio, arrivando a sostenere (manganellianamente) che per Perilli «i problemi di pittura sono sempre stati problemi di linguaggio» (Manganelli 1982: 14).
Si parla spesso delle poesie dedicate agli artisti come forme di ‘pubblicità’ e di presentazione mediatica – un commento letterario che si arroga il dovere di scortare le opere d’arte sui cataloghi o sulle brochure, agendo come collante ideale per tenere insieme un album di fotografie che, altrimenti, non godrebbe di una propria autonomia fruitiva. Tuttavia, bisognerebbe iniziare a interpretare l’interdisciplinarità degli anni Sessanta nei termini di un sistema (reciproco e paritario) di welfare culturale tra artisti e poeti, spostando il baricentro dal linguaggio verbalizzato della poesia a quello ‘diversamente’ grammaticalizzato dell’arte visiva. Nel pregiudizio (non ancora compiutamente digerito dal pensiero occidentale) relativo alla preminenza della parola (il Logos) sull’immagine, credo che sarebbe un gesto critico necessario l’atto di rovesciare il cannocchiale e restituire ai quadri e alle loro parole (dai titoli agli inserti verbali) una piena parità rispetto a quella più tradizionale della letteratura. Immaginiamo, così, i poeti del Gruppo 63 come scolari a scuola di grammatica (visiva) dai colleghi artisti. Suona la campanella, e i maestri diventano alunni, la cattedra un banco, la poesia uno scarabocchio ai margini di una lezione di sguardo.
Dialogo con l’ombra (1960) |
Dialogo con l’ombra, raccolta di poesie di Cesare Vivaldi (1960). |
Opus metricum (1960) |
Opus metricum, raccolta di poesie di Edoardo Sanguineti (1960). |
Oggetti e argomenti per una disperazione (1961) |
Lezione di fisica, raccolta di poesie di Elio Pagliarani (1964) (Oggetti e argomenti per una disperazione «per Alfredo Giuliani»). |
Alphabetum (1963) |
Alphabetum, poesia di Edoardo Sanguineti pubblicata su «Documento Sud» (1960). |
L’Europa cariata (1963) |
Il sasso appeso, raccolta di poesie di Nanni Balestrini (1961) (sez. v, «e lasciare | l’Europa cariata | sulla pioggia»). |
L’inferno linguistico (1964)
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L’inferno linguistico di Manganelli, articolo di Angelo Guglielmi (1964). |
I metateppisti (1965) |
Agli dèi ulteriori, romanzo di Giorgio Manganelli (1972) («metateppisti: luoghi di malizia e cattiverie»). |
Il calamaio della notte (1965) |
Agli dèi ulteriori, romanzo di Giorgio Manganelli (1972) («pennini di se medesimi, nel calamaio della notte»). |
I rituali apotropaici (1965) |
Agli dèi ulteriori, romanzo di Giorgio Manganelli (1972) («se sospettosi di malocchi e fatture, ed esperti di rituali apotropaici»). |
Allucinazione retorica (1968) |
Nuovo commento, romanzo di Giorgio Manganelli (1968) («il virtuosistico delirio, l’allucinazione retorica»). |
La civetteria dell’astrazione (1968) |
Nuovo commento, romanzo di Giorgio Manganelli (1968) («le civetterie dell’astrazione»). |
La carnale albedo (1968) |
Nuovo commento, romanzo di Giorgio Manganelli (1968) («nottambula sciarpa per carnale albedo»). |
Arguzia iconica (1968) |
Nuovo commento, romanzo di Giorgio Manganelli (1968) |
3. Le arti ‘sorelle’: cinema, musica, teatro e cultura di massa
Come prosecuzione provvisoria di questo repertorio nominale (il cui nucleo rimane, tuttavia, il campo letterario), mi limiterò a riportare alcuni regesti collaterali, circoscrivendo il campo dell’analisi a singole occorrenze particolarmente denotative. Queste due sezioni aggiuntive mi aiuteranno a dimostrare come, anche attraverso la scelta delle titolature, Perilli stesse cercando di promuovere una propria idea di convergenza transdisciplinare – più sperimentale e meno roboante della Gesamtkunstwerk wagneriana. Per Perilli l’urgenza era quella di creare le premesse per «un nuovo tipo di spettacolo» dove far confluire «la pittura, la musica, il teatro, il cinema, secondo le deduzioni dai miei studi su Moholy-Nagy» (1990) (cit. in Rossi 2022). Un simile allineamento degli astri disciplinari si ritroverà in Collage (1961), l’«azione musicale in un tempo su materiale visivo» con musiche di Aldo Clementi e regia di Andrea Camilleri, rappresentata per la prima volta al Teatro Eliseo di Roma il 14 maggio del 1961. Dagli anni giovanili, del resto, l’engagement di Perilli era sempre stato indirizzato a forgiare, come leggiamo nel sottotitolo di un articolo comparso su «Civiltà delle Macchine» nel 1955, «una figura di artista aperto a ogni esperienza, interessato a tutte le tecniche, coinvolto in qualunque forma di espressione» (Perilli 1955: 75).
In un contesto di rivendicata ipermedialità, non desterà alcuno stupore incontrare svariati titoli di film (in italiano e in lingua originale, a seconda dei quadri) – da Der mude tod (1954), il film muto che sancirà il successo internazionale di Fritz Lang (1920), a La foresta pietrificata (1954), la pellicola diretta da Archie Mayo che rese Humphrey Bogart una star. Il campionario integrale delle fonti risulterebbe piuttosto dispersivo, con una stordente variabilità cronologica e stilistica – si va dal cortometraggio pionieristico di George Méliès, Il sogno dell’astronomo (1898), al film-peplum sugli Amori di Cleopatra di William Castle (1953), con scene, costumi e ambientazioni romane a bassissimo costo – anzi, addirittura riciclate dal set della Salomè di William Dieterle, girata lo stesso anno.
La riemersione intermittente di titolature cinematografiche diventa ancor più comprensibile se consideriamo come il taglio stesso dell’inquadratura e, più in generale, la narrazione filmica avessero inciso sull’impaginazione grafica delle tele perilliane. Per adoperare le parole di Umbro Apollonio, anche il linguaggio cinematografico, infatti, influenzerà la sequenzializzazione delle superfici pittoriche di Perilli, in virtù di una «dinamica temporale che trasferisce sullo schermo della tela il succedersi e il contrapporsi di scene» (cit. in Perilli 1988: 114). I quadratini giustapposti nei quadri di Perilli assomiglieranno, dunque, a fotogrammi cinematografici sottratti per un attimo alla temporalità della cinepresa, frame cristallizzati per lo spazio di uno sguardo.
Der mude tod (1954) |
Der müde Tod/Destiny, film di Fritz Lang (1920). |
La foresta pietrificata (1954) |
The Petrified Forest, film di Archie Mayo (1936). |
Confessione di un peccatore (1961)
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Confessione di un peccatore [Die Sünderin], film di Willi Forst (1951). |
Gli amori di Cleopatra (1961) |
Gli amori di Cleopatra [Serpent of the Nile], film di William Castl (1953). |
Il sogno dell’astronomo (1962) |
Il sogno dell’astronomo [La lune à un mètre], cortometraggio di Georges Méliès (1898). |
Per passare dal cinema al teatro possiamo servirci di un titolo-ponte, ossia l’omaggio ai Marx brothers (1963) – il gruppo comico fondato dai cinque fratelli Marx e destinato a riscuotere un notevole successo di pubblico, in una produzione al confine tra vaudeville e cinema, tra Broadway e Hollywood. Come per il cinema, anche i dispositivi scenici del teatro condizionarono, secondo la critica coeva, le geometrie perilliane, giacché – come scriverà Fagiolo Dell’Arco nel già citato Rapporto 60 – «ogni nuova opera è una nuova ipotesi di attribuzione di battute tra i diversi personaggi» simulati dalle linee-silhouette di Perilli (Fagiolo Dell’Arco 1966: 122). Il teatro, tuttavia, non rappresenterà soltanto una funzione dell’applicazione visiva, ma anche un autentico mestiere coltivato a più riprese dall’artista[23]. Già nel 1949, Perilli aveva frequentato al Leopoldskron Student Rest Center di Salisburgo un seminario per il teatro, allestendo uno spettacolo recitato anche da Piero Dorazio e Giovanni Guerrini. Le avventure teatrali di Perilli rappresentano un capitolo del suo percorso creativo ancora da riscoprire, facendo alleare gli strumenti della filologia con il proposito pragmatico di rimettere in circolazione, sui palcoscenici contemporanei, le pièce interdisciplinari degli anni Sessanta e Settanta.
Per tornare alle titolature, il genere teatrale ‘puro’ riceverà soltanto qualche sparuta concessione citazionistica, ben più rara rispetto alla letteratura o al cinema. Oltre al Fazzoletto di Desdemona (1957), genericamente shakespeariano, e ad altre corrispondenze sparse campionabili nella tabella sottostante, mi soffermo brevemente soltanto su Scherzo, satira, ironia e significato profondo (1970). Il titolo, infatti, deriva da Scherz, Satire, Ironie und tiefere Bedeutung (1827), l’unica commedia composta dal poeta tedesco Christian Dietrich Grabbe (1827) e impostata su un confronto grottesco-drammatico tra Arsenico e Diavolo – metaforicamente, tra astuzia umana e sapere (anti-)divino. Il copione verrà rivitalizzato da Alfred Jarry (autore, come abbiamo visto, già oggetto delle attenzioni intertestuali di Perilli). Il drammaturgo francese citerà Grabbe, intanto, tra i libri sequestrati dalla biblioteca del Dottor Faustroll (Jarry 1972: 661) e poi, il 1° gennaio del 1900, ne offrirà una parziale traduzione-rifacimento sulle pagine della «Revue Blanche». La riscrittura, intitolata Les Silènes, verrà pubblicata integralmente soltanto nel 1926, in una raffinata plaquette con un’acquaforte di Demetrio Galans (Jarry 1926).
Al confine tra teatro e musica si situa, infine, l’allusione ai personaggi di Florindo and Vespina (1964), protagonisti della Spinalba, ovvero Il vecchio matto (1739) – dramma comico in tre atti musicato da Francisco Antonio de Almeida su libretto di un autore italiano sconosciuto. La prima rappresentazione moderna, che segnerà anche la riscoperta dell’opera, risale al 26 maggio del 1965, al Teatro Nacional de São Carlos di Lisbona, in una singolare convergenza cronologica che meriterebbe ulteriori verifiche documentarie.
Per quanto riguarda la musica, l’unico affioramento effettivamente campionabile riguarda l’etichetta Post Weberniano, applicata a un quadro del 1957. Dalla cultura di massa, invece, Perilli ricaverà con ogni evidenza Green Lantern (1962), vale a dire il nome attribuito a diversi eroi della DC Comics a partire dall’estate del 1940. Analogamente, nel 1970 farà capolino il personaggio di Mr Mxyzptlk (1970), creato da Jerry Siegel e Joe Shuster come nemico giurato di Superman e comparso per la prima volta nel trentesimo fascicolo del fumetto omonimo (1944). Più generico sarà il titolo Comics code (1970), in una probabile allusione al «CCA» («Comics Code Authority»), l’organo di censura del fumetto negli Stati Uniti. Il rapporto con i materiali (e i mitologemi) ‘pop’ sarà dirimente per uno stile che, come affermerà Pia Vivarelli, si stava nutrendo di «forme linguistiche ‘prelevate’ da un altro contesto» (e, in particolare, dal «linguaggio delle strips», modellizzante soprattutto per la «regola progettuale» dell’impaginazione piuttosto che per i contenuti o i risvolti ideologici filo-capitalistici) (Vivarelli 1988: 13). La cosiddetta fase dei «fumetti» perilliani, inaugurata intorno al 1960-1961, comporterà una proliferazione di tavole in cui, all’interno dei riquadri-vignette, verranno ospitati una serie di scarabocchi antropomorfi o animaleschi che emuleranno, in forma allegorica e primitivista, il funzionamento narrativo dei comics[24].
Trattandosi di un saggio incentrato sulle questioni dell’intermedialità e dell’intertestualità, non indugerò su altri tributi perilliani a vicende biografiche, episodi di cronaca o personaggi della politica (nazionale o internazionale) – pure ben rappresentati, a partire dall’Omaggio a Domingo Ortega (1954), il matador spagnolo ritiratosi a vita privata proprio nel 1954[25].
La rosa bianca e la rosa rossa (1961) |
La rosa bianca e la rosa rossa, opera in due atti composta da Simon Mayr su libretto di Felice Romani (1813). |
Florindo and Vespina (1964) |
Spinalba, ovvero Il vecchio matto (1739), dramma comico in tre atti musicato da Francisco Antonio de Almeida su libretto di un autore italiano sconosciuto. |
Scherzo, satira, ironia e significato profondo (1970)
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Scherzo, satira, ironia e significato profondo [Scherz, Satire, Ironie und tiefere Bedeutung], commedia di Christian Dietrich Grabbe (1827). |
4. Trattatistica, alchimia e testi sacri
Un ultimo capitolo di questo ‘catalogo ragionato’ delle titolature dovrà includere quelle forme di testualità non strettamente letterarie, derivanti da manuali specialistici oppure da testi sacri. Esoterismo e alchimia occupano intanto uno spazio prioritario nella biblioteca perilliana – filtrati perlopiù dallo sguardo catalizzatore di Carl Gustav Jung. L’incidenza del pensiero junghiano consorzierà idealmente diversi operatori culturali dell’epoca – con una particolare influenza su Gastone Novelli e sul giovanissimo Edoardo Sanguineti. Piuttosto che attingere al versante misticheggiante o ideologico dello psicanalista svizzero, i protagonisti della Neoavanguardia verranno attirati dall’immaginario figurativo e simbolico (nonché, spesso, dalle citazioni extra-junghiane incastonate nell’argomentazione generale). In un’intervista rilasciata a Ferdinando Camon nel 1965, Sanguineti preciserà che le sue letture junghiane non dipendevano affatto da un’adesione epistemologica o metodologica («in questo senso sono sempre stato più freudiano che junghiano», cit. in Camon 1965: 219). Piuttosto, le stazioni dell’itinerario alchemico interessavano ai giovani avanguardisti «come repertorio di simboli, come una specie di vocabolario simbolico che diventava fruibile come una mitologia, immediatamente applicabile al livello della poesia» (ibidem).
Per passare ai sintagmi che Perilli importerà da Psicologia e alchimia (1944), La visione dell’orologio universale (1958) corrisponde al titolo del terzo paragrafo del cap. III, inaugurato dalla «grande visione» di un «orologio universale portato dall’uccello nero» (Jung 1983: 206). Analogamente, La prefigurazione dell’oro (1960) comparirà nella didascalia della fig. 164, che rappresenta «Mercurio in piedi sul caos rotondo [...]. Il “rotondo” è la prefigurazione dell’oro» (ivi, p. 331).
In altri casi, le espressioni – pure attestate dal medesimo volume – non saranno da attribuirsi a Jung ma ai trattati minori da lui distesamente menzionati come principi d’auctoritas occultistica. Ad esempio, Fuoco dell’anima (1960) deriva da una citazione del Recueil stéganograpique di Béroalde de Vernille («bei rubini, e pietre eteree, che sono il vero fuoco dell’anima e la luce dei Filosofi») riportata da Jung nel secondo capitolo (ivi, p. 277). Anche Una fenice nella sfera (1959) potrebbe provenire da una frase del medico e alchimista tedesco Libavius riportata da Jung nel cap. ii, laddove si parla di «una fenice che s’incenerisce nella sfera» (ivi, p. 291; i corsivi sono miei). Tra la bibliografia secondaria riportata dallo psicanalista ritroviamo anche altri titoli perilliani, tra cui il De occulta philosophia (1959) – il volume che Cornelio Agrippa scrisse nell’arco di vent’anni, combinando magia, esoterismo, cabala e neoplatonismo (1533), ricordato da Jung a proposito del significato cabalistico del numero 32 (ivi, p. 210).
In alcuni casi, invece, non è possibile individuare una mediazione junghiana nella lettura di trattati alchemici laterali, come avverrà per il titolo Fuoco lento di natura (1960), ritagliato da Ur – Introduzione alla magia quale scienza dell’io, una sorta di propedeutica alle scienze esoteriche uscita in tre volumi nel 1929. Nel quinto capitolo dedicato alle «Acque corrosive» il lettore apprende, infatti, che queste sorgenti luciferine «disciolgono i corpi senza conservare gli spiriti; non lavano, ma ardono; non operano per fuoco lento di natura ma con la precipitazione che viene dal diavolo» (Gruppo di Ur 1929: 129). La fascinazione per le figure minori dell’alchimia e del pensiero magico verrà suggerita anche dal già citato Jean-Clarence Lambert, il quale, nel presentare una mostra di Perilli allestita presso la Galerie d’Arte International di Parigi nel 1980, ricorderà la malìa esercitata da «Elias Ashmole, avocat et alchimiste anglais du XVIIème siècle» sulla pittura perilliana – citando, peraltro, i nomi di Bataille e Nietzsche (entrambi puntualmente saccheggiati nelle titolature dell’artista) tra i moderni «dédalogistes» e costruttori di labirinti di linguaggi (Lambert 1980).
Una difformità maggiore nella cernita delle fonti alchemiche si segnalerà ‘scavallando’ diacronicamente nei pieni anni Sessanta, dove un iniziale junghismo verrà stemperato e corretto da nuovi travasi. Talvolta non è possibile scindere la probabile derivazione junghiana dal fatto che si tratti sostanzialmente di lemmi ricorsivi entro una vulgata terminologica invalsa grosso modo in tutti i trattati esoterici – come avviene per Lo spirito mercuriale (1959) (Jung 1983: 282 e 417), l’Elixir vitae (1959) (ivi, pp. 233, 243, 391 e 413), L’unione dei contrari (1959) (ivi, pp. 23, 40, 209, 239, 320, 334, 350, 357 e 484), Prefigurazione dell’oro (1960) (ivi, p. 331) e Il corvo di Mercurio (1960) (ivi, p. 242) – tutti «concetti alchimistici fondamentali», per adoperare un’altra definizione di Jung[26].
Fuori dalla biblioteca strettamente alchemica, è possibile rintracciare diversi trattati di vario argomento (dalla filosofia all’architettura) disseminati in un arco cronologico esteso. Vediamo, ad esempio, A treatise of melancholy (1967), il volume redatto da Timothy Bright nel 1586 per definire la l’eziologia melanconica – testo a cui attinse ripetutamente William Shakespeare per costruire il personaggio di Amleto.
Per quanto concerne L’Archeomètre (1969), la fonte nominale coincide con L’Archéomètre, clef de toutes les religions et de toutes les sciences de l’antiquité di Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, pubblicato postumo nel 1911. L’opera pretendeva di offrire un paradigma universale valido per ciascun sistema filosofico o scientifico e basato su una serie di simboli ricavati da un supremo «Archée» o «sanctuaire des arcanes».
Più facile decodificare titoli come Homo ad quadratum (1967) – ossia, par excellence, l’uomo vitruviano. Nel terzo libro del De Architectura, infatti, Vitruvio tratterà le due figure antropometriche dell’homo ad quadratum e dell’homo ad circulum – che verranno invece a coincidere nella realizzazione leonardesca del 1490 ca. Una seconda insorgenza vitruviana riguarderà il quadro Ordinatio, dispositio, eurythmia, symmetria, decor, caos (1968) – giacché si tratta delle sei categorie formalizzate da Vitruvio nel secondo capitolo del De Architectura (con la divertita sostituzione finale della «distributio» con il «caos»).
L’interesse per l’architettura (coltivato anche in forma di articoli e saggi apparsi sparsamente su rivista[27]) proseguirà diacronicamente con l’Ordonnance des cinq espèces (1967), tratta dall’Ordonnance des cinq espèce de colonnes selon la methode des anciens di Claude Perrault (1683). Rifacendosi all’immaginario rovinistico dell’antichità e ai precetti di Vitruvio, Perrault tenterà di instaurare dei nuovi parametri del ‘bello’ architettonico per combattere la mediocrità e la disarmonia delle forme contemporanee.
In alcuni casi, Perilli introdurrà alcune microvarianti che, nonostante l’esiguità quantitativa della modifica, capovolgono radicalmente il valore e il significato del sintagma di partenza. È il caso del De armonia immundi (1968), a rettificare il De armonia mundi del francescano Francesco Zorzi (1525), un trattato in tre cantici scritto per dimostrare l’esistenza di un principio ordinatore in grado di disciplinare l’apparente caos storico dell’attualità (e ironicamente contraddetto dall’«immondo» ribaltamento di Perilli).
Nei pieni anni Sessanta sorprende la pressoché totale assenza di alcune discipline in voga negli ambienti intellettuali frequentati da Perilli, come l’antropologia e la sociologia. Fanno eccezione alcune categorie formalizzate dal sociologo statunitense Robert K. Merton nel saggio sulla Teoria e struttura sociale (1949). Qui ritroviamo, infatti, due spunti per le titolature perilliane, dall’Impulso puritano (1961) – che deriva dal terzo paragrafo del cap. xxi, L’impulso puritano della scienza (Merton 2000, vol. 1, p. 1111) – alla Profezia suicida (1961), che Merton aveva già enunciato in un articolo comparso su «The Antioch Review» nel 1948, e che poi confluirà nella XIII sezione di Teoria e struttura sociale (La profezia che si autoadempie, ivi, vol. 2, p. 765).
Un saggio generazionale che trova posto negli scaffali peritestuali di Perilli sarà, invece, Il bagno di Diana di Pierre Klossowski (1956), che l’artista citerà nel titolo di un quadro del 1964 e che l’amico Gastone Novelli illustrerà proprio l’anno successivo (1965).
Tutt’altro che minoritario si rivelerà, infine, il citazionismo biblico e religioso, legato alla ripresa capillare di intere clausole dal magazzino inesauribile dei testi sacri. Nuovi cieli e nuova terra (1951), ad esempio, è un’espressione che ritorna piuttosto frequentemente nella Bibbia, dall’Apocalisse («Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati», Apocalisse 21: 1; i corsivi sono miei) ai Libri dei profeti («Poiché ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra, e le cose di prima non si ricorderanno più e non verranno più in mente», Isaia 66: 22; i corsivi sono miei) e ai Vangeli («Secondo la sua promessa, noi aspettiamo “nuovi cieli e nuova terra”, nei quali abiterà la giustizia», Pietro 3: 13; i corsivi sono miei). L’ipotesi-promessa di una nuova società umana ‘redenta’ attraversa come un Leitmotiv strutturale le Sacre Scritture – nonché alcune titolature ‘palingenetiche’ di Perilli, a cominciare da La vigna di Noè (1955). A Perilli il sacro interessa in quanto bacino eternamente rinnovabile di interrogativi (e barlumi epifanici di risposte) sugli elementi primi dell’esistenza. Come scriverà Cristallini nelle Schede critiche delle opere esposte alla mostra romana allestita alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nell’estate del 1988, in questo senso Perilli sarà portato ad associare alle proprie opere «dei titoli che rimandano a immagini ataviche, a simbolici ritorni al significato originario delle cose» (cit. in Perilli 1988: 111).
In altri casi verranno poi saccheggiate espressioni più mainstream della Bibbia, come L’albero del male (1954), Il corpo del santo (1954), Trino (1954), e così via. Alcune emersioni riguarderanno, invece, rituali e culti extra-occidentali – ad esempio, Ngai vi osserva (1955), dal nome del Dio venerato da alcune tribù monoteistiche del Kenya (di cui parlerà anche Mircea Eliade nel suo Trattato di storia delle religioni), oppure i più prevedibili La tromba di Allah (1954), Vai Maometto (1954) e il Segno del Budda (1969).
La visione dell’orologio universale (1958) |
Psicologia e alchimia, saggio di Carl Gustav Jung (1944); cap. iii, par. 3 (La visione dell’orologio universale) |
De occulta philosophia (1959) |
De occulta philosophia libri tres, trattato di Cornelio Agrippa (1533). |
La prefigurazione dell’oro (1960) |
Psicologia e alchimia, saggio di Carl Gustav Jung (1944); cap. iv, par. 3, fig. 164 («Il “rotondo” è la prefigurazione dell’oro»). |
Fuoco lento di natura (1960) |
Ur – Introduzione alla magia quale scienza dell’io; cap. V (1929). |
L’impulso primario (1961) |
Teoria e struttura sociale, trattato di Robert K. Merton (1949); vol. 1, cap. xii, par. 3. |
La profezia suicida (1961) |
Teoria e struttura sociale, trattato di Robert K. Merton (1949); vol. 2, cap. xiii, par. 1. |
Il fuoco dell’anima (1960) |
Psicologia e alchimia, saggio di Carl Gustav Jung (1944); cap. ii, par. 2. |
Il bagno di Diana (1964)
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Il bagno di Diana, saggio filosofico di Pierre Klossowski (1956). |
A treatise of melancholy (1967) |
A Treatise of melancholy (1967), trattato di Timothy Bright (1586). |
Ordonnance des cinq espèces (1967)
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Ordonnance des cinq espèce de colonnes selon la methode des anciens, trattato di Claude Perrault (1683). |
Ordinatio, dispositio, eurythmia, symmetria, decor, caos (1968) |
De architectura, trattato di Vitruvio, cap. ii («Ordinatio, dispositio, eurythmia, symmetria, decor, distributio»). |
L’Archéomètre (1969) |
L’Archéomètre, clef de toutes les religions et de toutes les sciences de l’antiquité di Alexandre Saint-Yves d’Alveydre (1911). |
È curioso constatare, in chiusura, come i prelievi minoritari siano proprio quelli legati al settore specialistico delle arti figurative – in nome, probabilmente, di quella estroflessione verso il fuori disciplinare ribadita a più riprese nei manifesti e negli articoli propulsivi di Perilli[28]. Oltre agli Omaggi nominali, gli affioramenti legati alla storiografia pittorica sono numericamente inferiori e, spesso, piuttosto prevedibili – ad esempio, Les grands transparents (1962)[29], che si rifà a Les Grands Transparents di Man Ray (1938), così come il Cerimoniale per Gute Form (1970), la corrente estetica animata da Max Bill a partire dalla mostra eponima organizzata a Basilea nel 1949. Perilli aveva conosciuto Bill l’anno precedente, nel 1948, passando a trovarlo nel suo studio di Zurigo di ritorno da Parigi[30]. Un altro tributo pianificato da Perilli è quello A Marca Relli (1957) – l’artista americano che fonderà, assieme a Mark Rothko, Franz Kline e de Kooning, il «Club of Eight Street» nel 1949. Proprio nel 1957 Marca Relli esporrà i propri collage e pitture alla Galleria La Tartaruga di Roma – che verrà visitata, con ogni probabilità, dallo stesso Perilli, costituendo l’innesco congiunturale del titolo.
Altri esempi di «omaggi» offerti a modelli o ‘colleghi’ internazionali saranno, poi, la Dedica a Picabia (1958), l’Omaggio a Klee (1959), Bene Kasimir (1967), Piccola colonna Schwitters (1967), La grande colonna Schwitters (1967) e l’Omaggio a Brancusi (1968). Per incrementare il computo dei prelievi (passando dal contesto restrittivo dei manufatti o dei movimenti plastici a quello più generalista degli scritti d’arte), possiamo aggiungere in coda Le ricerche di Galatea (1970), estrapolato dal saggio di Dimitrii Gorbov (Le ricerche di Galatea. I rapporti tra l’arte e la realtà) uscito sul quarto numero della «Rassegna sovietica» nel 1964 (Gorbov 1964: 120). Il controverso pamphlet era stato pubblicato per la prima volta (in lingua russa) nel 1929, innescando presto un dibattito internazionale sui rapporti tra l’intellettuale e la classe sociale di cui dovrebbe o vorrebbe presentarsi come ‘organico’ esponente. Gorbov – membro del gruppo letterario «Pereval» – sosteneva la costitutiva impossibilità, per lo scrittore, di parlare a nome di una «classe committente (nel nostro caso, il proletariato)» (ibidem). Gli esponenti di Pereval (letteralmente ‘Il varco’, movimento fondato a Mosca nel 1923) ritenevano, in generale, che la creazione artistica nascesse esclusivamente da un gesto istintivo e irrazionale, impossibile da imbrigliare entro qualsivoglia logica di potere – in un posizionamento evidentemente problematico nel contesto iper-militante della letteratura sovietica coeva[31]. Il carattere socio-artistico del prelievo da Gorbov non deve affatto sorprendere; per il ‘novissimo dadaista’ Perilli, infatti, sarà sempre prioritario intercettare quei messaggi estetici che passano (in questo caso esplicitamente) attraverso domande sociali e politiche estendibili dalla bolla del mercato artistico alla società stessa.
La nostra rassegna termina nel 1971 non soltanto per ragioni di mera economia testuale, ma anche per la netta percezione che, nel nuovo decennio, le scelte titolistiche di Perilli siano destinate a diventare progressivamente meno derivative e più ricreative. A esclusione di alcune eccezioni locali, Perilli smonterà il citazionismo enigmistico della prima fase bilanciandolo con un crescente bisogno di deragliare verso un lirismo privato, che rinunci a un quanto d’interdisciplinarità per restituire all’artefice e allo spettatore una forma di appropriazione (e, per certi versi, di poeticità) personale. Esauritasi anche a livello storico la radiazione fossile dell’esplosione neoavanguardista – ed essendosi imposta, dopo la data-boa del 1968, una nuova rotta più meccanicisticamente politica –, l’artista sembra avvertire l’urgenza di riscoprire una propria voce, fortificata dal bagno lustrale negli abissi dell’intertestualità plurale delle neoavanguardie. Dopo le coreografie di gruppo degli anni Sessanta, potremmo dire con un aforisma conclusivo, dal 1971 Perilli sceglierà di ballare titolisticamente da solo.
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[1] Il Gruppo si era costituito nel 1972, con una sinergia programmatica di competenze interartistiche – dalla pittura alla musica, passando per la danza, la fotografia, l’architettura e la grafica. Perseguendo ostinatamente una militanza «intercodice», gli esponenti di Gruppo Altro (e, in particolare, proprio Achille Perilli e la moglie Lucia Latour) si impegneranno nell’organizzare una serie di eventi performativi, mostre o spettacoli utili a sondare le nuove possibilità di un palcoscenico esteso e plurale. Per una precisazione teorica sul concetto di «intercodice», cfr. soprattutto Perilli 1982.
[2] Nonostante il recente moltiplicarsi di saggi e studi monografici incentrati su singoli aspetti della prolifica carriera di Ripellino, ritengo doverosa una più generale operazione di inclusione della sua figura nel campo di forze (e di attriti) della Roma del boom culturale. Ripellino si troverà spesso, tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta, a occupare gli stessi spazi materiali (nonché editoriali) della Neoavanguardia, collaborando a riviste come «L’esperienza moderna» o «Marcatrè», e legandosi ai medesimi artisti ‘novissimi’ (in particolare, romani). Ri-attraversarne il lavoro in qualità di agente attivo di sperimentazione linguistica (e non soltanto come un raffinato outsider) potrebbe aiutare a far luce sul mosaico interdisciplinare del Gruppo 63 – finora oggetto di un restauro estremamente accurato per certi singoli tasselli, e dell’incuria più totale per i riquadri immediatamente adiacenti.
[3] Ricordo che la prima raccolta di poesie di Ripellino, Non un giorno ma adesso, verrà illustrata proprio da Perilli, che ne realizzerà anche la copertina (Ripellino 1959). Altri due casi di co-edizioni d’arte riguarderanno Un progetto di vita, la plaquette uscita nel 1976 con una poesia di Ripellino e quattro incisioni di Perilli (Ripellino 1976a) e Forma 1, la cartella tirata in 96 esemplari contenente i versi della Symphonie Fantastique del poeta e sei incisioni di Carla Accardi, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Antonio Sanfilippo, Giulio Turcato e, per l’appunto, Achille Perilli (Ripellino 1976b). In anni successivi rispetto all’arco cronologico perimetrato per questa ricerca, Perilli dedicherà all’amico scrittore un interessantissimo saggio d’applicazione intersemiotica (Ripellino e le arti figurative) (Perilli 1983).
[4] Curioso sarà il caso di un Omaggio a Ludovico Ariosto, confezionato collettivamente da Umberto Mastroianni, Giuseppe Santomaso, Giulio Turcato e, per l’appunto, Achille Perilli – con testi di Corrado Pizzinelli e Gianni Canova – in occasione del quinto centenario dalla morte del poeta, nell’aprile del 1974 (Mastroianni, Perilli, Santomaso, Turcato 1974).
[5] Perilli aveva già citato il nome di Cravan nel saggio Dada est plus que dada, pubblicato sull’«Esperienza letteraria» nel marzo del 1959, dove leggiamo: «Come Duchamp, come Picabia, come Cravan, come Schwitters: Raoul Hausmann è Dada nella sua totalità» (Perilli 1959) – in un eterno ritorno di nomi e modelli ideali che vedremo spesso operativo nei paratesti dell’artista.
[6] Per i rapporti tra Pound e alcuni poeti della Neoavanguardia – in particolare, Edoardo Sanguineti – segnalo almeno gli studi di Lorenzini 2007 e Bacigalupo 2012. Entrambi i contributi prendono avvio dall’importante saggio di Sanguineti sui Canti Pisani pubblicato su «Aut Aut» il 22 luglio del 1954, successivamente confluito in Sanguineti 2010: 141.
[7] Una prima e più estesa citazione dal Benjamin Major s’incontrava già ai vv. 25-28 («Ubi amor, ibi oculus. | Vae qui cogitatis inutile. | ... per quam in nobis divinae similitudinis | imago reparatur») (ivi, p. 1166). Cfr. il Commento di Mary de Rachewiltz pubblicato in appendice (ivi, p. 1599).
[8] Nello stesso anno, peraltro, Perilli confezionerà scene e costumi per la rappresentazione di Povera Juliet di Giuliani al Teatro Parioli di Roma, in una circuitazione quasi soffocante delle reciproche influenze creative. Tre anni dopo, invece, Giuliani presenterà in prosa la sala personale di Perilli alla Biennale di Venezia allestita tra il 22 giugno e il 20 ottobre del 1968.
[9] Sulle due declinazioni (italiana e francese) del «nuovo romanzo», cfr. soprattutto Fastelli 2013.
[10] Vale la pena ricordare il saggio di Perilli sull’Antologia Dada, comparso su «Civiltà delle macchine» nel novembre del 1954 (Perilli 1954a), nonché i saggi usciti per «L’esperienza moderna», tra cui Dada est plus que Dada (Perilli 1959). Nel 1955 Perilli aveva incontrato a Berlino Hanna Höch – conoscenza capitale nella biografia intellettuale dell’artista, nonché fonte utilissima di documentazione relativa al dadaismo, così come sarà fondamentale la biblioteca parigina di Tristan Tzara, a cui Perilli avrà accesso nel 1956.
[11] Chissà se da questa citazione deriverà anche un altro titolo perilliano, vale a dire Bravo! Bravo! (1969).
[12] Per queste informazioni, cfr. Trapanese 2016 (soprattutto p. 13).
[13] A livello bio-bibliografico, invece, bisogna ricordare che già due anni prima, nel 1958, Perilli era stato invitato a una mostra di poesia visiva organizzata da Lambert a Düsseldorf e in Polonia – dopo essersi conosciuti a Parigi durante un breve soggiorno perilliano nel 1957.
[14] L’inventario è stato compilato nel modo più esauriente possibile, sebbene sia ancora necessario, e anzi caldamente raccomandato, individuare altre allusioni citazionistiche nascoste dietro a titolature in apparenza neutrali. Verranno ospitati nelle tabelle dell’intero articolo i casi di conclamata intertestualità, escludendo forme più marginali di allusività – come il semplice rimando nominale (ad esempio, Marx Brothers o L’eccellenza Ripellino) o vagamente stilistico (come Post-Weberniano). Nei casi in cui i prelievi perilliani facciano riferimento alle traduzioni italiane di libri o copioni stranieri, verrà fornita tra parentesi quadre la titolatura originaria. Per ottenere un’immediata visualizzazione e leggibilità, infine, verranno riportati sulla colonna destra soltanto i dettagli sommari di quegli ipotesti di cui si sia già dato conto nel discorso principale, riservando maggiore spazio informativo alle scoperte ulteriori.
[15] Il testo di Apollinaire, peraltro, era stato musicato da Francis Poulenc tra i Quatre poèmes de Guillaume Apollinaire (1904); dal momento che la morte del compositore francese risale proprio al 1963, Perilli potrebbe aver scelto questa titolatura come un tributo personale al musicista.
[16] Per i rapporti tra Perilli e i poeti del Gruppo 63, rimando al saggio di Lo Monaco 2020.
[17] Un’antologia dei versi dedicati all’artista si può trovare in Perilli 1988: 17-27.
[18] Il titolo, con ogni probabilità, è già debitore di alcune atmosfere ‘lunari’ dei quadri giovanili di Perilli – ricordo ad esempio Alla luce lunare e Il sentiero della luna, realizzati nel 1957, oppure ancora Viaggio alla luna, del 1958. La luna è un tema ma è anche un archetipo ragionativo nell’arte di Perilli, che veicola una necessità di guardare (e puntare attivamente) a un fuori. In un pamphlet del 1969 (Indagine sulla prospettiva), l’artista dichiarerà risolutamente che: «la struttura pittura permane poiché è il nostro modo di comprendere il mondo, la realtà, è la nostra azione sul terreno della fantasia, è il nostro raggiungere la luna, l’altra faccia della luna» (Perilli 1969). La poesia di Pagliarani si propone, quindi, come un omaggio esplicito alle lune di Perilli – le lune concettuali e gli astri reali, oggetto di una contemplazione quasi leopardiana
[19] Per le trascrizioni dell’intricato epistolario dei Novissimi, che ha rappresentato l’anticamera genetica all’antologia einaudiana, cfr. Milone 2015.
[20] I rapporti tra Manganelli e gli artisti romani meritano ancora di essere mappati anche (o soprattutto) dalla prospettiva delle appropriazioni pittoriche. Trattandosi di forme di cooperazione meno ostensive e istituzionali dei libri d’artista di Giuliani o Pagliarani, la critica ha perlopiù trascurato le ricadute e le suggestioni (pure numerosissime) esercitate dalla parola politropa di Manganelli sul campo plastico. Ad esempio, Gastone Novelli nei Viaggi di Brek (1967) campionerà una serie di sintagmi provenienti dal saggio manganelliano Quale sarà il compito di una moderna e pertinente retorica, pubblicato sul «Giorno» il 13 settembre. Le frasi, pronunciate dal bizzarro personaggio del polipo-retore «Manga», subiranno un processo di sottrazione e successiva ri-semantizzazione analogo a quello delle titolature perilliane, sebbene con prelievi più estesi. Per un’analisi del fumetto di Novelli, cfr. Portesine 2021 e il commento di Raffaella Perna alla nuova edizione (Novelli 2021), mentre per un più generale bilancio dei rapporti tra Manganelli e Novelli, rimando a De Pirro 2012.
[21] Consultando digitalmente l’inventario del Fondo Giorgio Manganelli, conservato presso il Centro Manoscritti di Pavia, si trova una stesura dattiloscritta con correzioni manoscritte autografe datata 14 aprile 1968: https://lombardiarchivi.servizirl.it/groups/UniPV_CentroManoscritti/fonds/45901/units/608020 (consultato il 29 maggio 2022).
[22] Per quanto riguarda, invece, l’illustratissima Hilarotragoedia, tradotta in immagini tanto da Gastone Novelli quanto da Franco Nonnis, cfr. il già citato saggio di De Pirro 2012.
[23] Per una visualizzazione immediata della produzione teatrale di Perilli, rimando alla sezione monografica del sito http://www.achilleperilli.com/?page_id=271 (consultato il 29 maggio 2022). Sul tema, cfr. anche Rossi 2022 e Drudi 1991.
[24] Come scriverà acutamente Calvesi, «il fumetto è, per Perilli, un po’ come per Klee il geroglifico egiziano» (Calvesi 1963).
[25] Per una breve campionatura di altre titolature di ‘cultura generale’ (dalla storia all’attualità, passando per il mainstream e l’antichità classica), cfr. la seguente esemplificazione provvisoria: Lenin (1951), Marat (1954), Rosa Luxemburg (1964), Omaggio a Nerone (1966), Il palazzo di Venere (1967), Vulcano sorprende Marte e Venere (1968), Omaggio a Eiffel (1968), La prospettiva di Buster Keaton (1970), Ricostruzione dei volumi di Louise Brooks (1970), e così via.
[26] Sempre provenienti dal bacino magico-esoterico (seppure non comprese all’interno di Psicologia e alchimia) sono da considerarsi titolature come I mutamenti di Mercurio (1959), Solve et coagula (1960), La congiunzione al bianco (1960), La proiezione dell’elisir (1961), La luce della cabala (1961), I tempi dei cabalisti (1969), e così via.
[27] Cfr. ad esempio il saggio Un pittore giudica l’architettura: Achille Perilli, pubblicato sull’«Architettura» nell’ottobre del 1957 (Perilli 1957b).
[28] Ad esempio, in una recensione alla Storia della poesia ceca contemporanea di Ripellino, Perilli asserirà risolutamente che «è assolutamente impossibile scrivere di una letteratura contemporanea senza avere una profonda conoscenza di quanto si è fatto in questi ultimi cinquant’anni in ogni campo dell’arte nel mondo. Sono avvenimenti talmente collegati tra loro, da non potersi districare facilmente» (Perilli 1951).
[29] Il riferimento a «Les GRANDS TRANSPARENTS» si troverà verbalizzato all’interno degli Elements pour la reconstitution d’une acte d’amour, il testo esposto alla mostra parigina Donner à voir nello stesso 1962 – e poi pubblicato in Lambert 1963. Qui, contravvenendo alla prassi invalsa nelle opere a-verbali di Perilli, le parole e la scrittura entreranno direttamente nello spazio dei riquadri, formando delle effettive bandes dessinées. Per una riproduzione della tavola, cfr. Perilli 1988: 148, tav. 5.
[30] Per ricostruire i rapporti tra i due operatori, che si sostanzieranno di una serie di mostre e collaborazioni editoriali, rimando alla Biografia curata da Cristallini in Perilli 1988: 125-129.
[31] Cfr. Zalambani 2003 per una lucida sistematizzazione storica del dibattito letterario che porterà dalle avanguardie al realismo socialista in Russia.