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Lo sfascio delle biblioteche pubbliche statali

di Marco Menato

 

Con la dicitura ‘biblioteche pubbliche statali’ vengono identificate 46 biblioteche direttamente dipendenti del Ministero della Cultura – Direzione generale biblioteche e diritto d’autore, così come sono elencate, in ordine di regione da nord a sud, nel DPR 5 luglio 1995 n. 417, ‘Regolamento recante norme sulle biblioteche pubbliche statali’. Ad eccezione delle undici biblioteche annesse a complessi monumentali ecclesiastici (ad es. Subiaco, Montecassino, Farfa, ecc.) di particolare importanza storico-religiosa e che pur appartenendo al demanio statale sono dirette da ecclesiastici coadiuvati da dipendenti del Ministero della Cultura, le altre sono o biblioteche di stati preunitari (comprese le nazionali di Roma e Firenze) o biblioteche di atenei fondati prima dell’Unità d’Italia o biblioteche centrali di ordini religiosi pervenute a seguito delle soppressioni, a questi tre gruppi si sono aggiunte biblioteche di più recente istituzione, generalmente di impianto specialistico.

L’amministrazione statale possiede ovviamente altre biblioteche (scolastiche, ministeriali, di organi giudiziari, ecc.), ma quelle elencate nel DPR costituiscono l’asse portante del sistema bibliotecario italiano (al quale si sono poi collegate e uniformate biblioteche di diverse amministrazioni) oltre a rappresentare al più alto livello la storia stessa delle biblioteche, del libro e della cultura in generale.

L’Italia, negli ultimi decenni, si è distinta per una attenzione notevole dell’università al cd. settore dei Beni Culturali con l’istituzione di numerosi corsi di laurea dedicati e di cattedre di ruolo per le discipline bibliografiche (Catalogazione, Biblioteconomia, Bibliografia, Bibliologia, Storia del libro, dell’editoria e delle biblioteche), insegnamenti che prima venivano erogati ricorrendo esclusivamente a contratti esterni. Anche la produzione saggistica nel settore, prima limitata a manualistica concorsuale e a temi di bibliofilia, si è irrobustita con la nascita di riviste, di collane e pure di editori specializzati (fra tutti l’Editrice Bibliografica). A questo fervore di studi e di progetti, non è però riscontrato pari interesse della macchina burocratica che ha sempre lasciato le biblioteche in una sorta di limbo, dove non erano affatto chiari i fini, i compiti e i controlli, se non quelli contabili.

Se era abbastanza chiaro che nelle biblioteche lavorassero dei bibliotecari (ma con quali curricula?), non era però chiaro quale altro personale fosse occorrente e soprattutto in che misura. Mentre in altre branche della pubblica amministrazione (per es. Esercito, Finanze, ecc.) si è puntato ad avere impiegati di buona levatura, lasciando da parte tutto il concorso pittoresco di dipendenti con nulla o scarsissima preparazione scolastica (non dico accademica!), nelle biblioteche statali ma anche in quelle degli enti locali il personale è sempre stato di seconda o terza scelta. A questo proposito vale sempre il pamphlet di Umberto Eco, De bibliotheca (1982), che metteva alla berlina le biblioteche italiane, bersagliate da un nugolo di impiegati inabili a molti compiti, fra i quali quello di andare a prendere i libri nei magazzini (per non dire di altre amenità: consiglio la lettura, anche perché è comodamente scaricabile dalla Rete). Naturalmente personale così poco preparato, con difficili possibilità di carriera, era ostaggio di sindacalisti di pochi scrupoli e da qui lamentele continue, dispetti, ricatti, vessazioni di ogni tipo a cui andava incontro chi non voleva prestarsi al gioco e soprattutto i lettori, che appena possibile hanno optato per altre biblioteche (questo è avvenuto specialmente in campo accademico).

Quando parlo di personale per le biblioteche, mi riferisco da una parte ai bibliotecari, che devono godere di una posizione di rilievo nell’amministrazione bibliotecaria, e dall’altra al restante personale, compreso quello amministrativo, presente in numero fortemente maggiore e con competenze molto diluite e parcellizzate, fino a giungere agli incaricati di generica sorveglianza e di distribuzione dei libri (quelli presi di mira da Eco e che sono per ovvi motivi il primo impatto verso il pubblico). E’ chiaro che una errata valutazione dei numeri, porta ad organici pletorici, litigiosi, non motivati, difficilmente governabili dal bibliotecario-direttore. Ed è ciò che è avvenuto, per puro clientelismo, nelle biblioteche statali, dove il numero dei dipendenti non professionali è aumentato a dismisura (anche in virtù di fortunosi passaggi da una carriera all’altra), proprio quando il numero dei frequentatori stanchi delle disfunzioni è calato ed è invece aumentato sia il materiale documentario disponibile su internet (come la campagna di digitalizzazione promossa da Google ma non dal Ministero) sia, come già detto, la presenza di nuove biblioteche/centri di documentazione. Bisogna anche aggiungere che le biblioteche statali non hanno nemmeno brillato nel mantere fede alla loro missione principale, che è quella della conservazione e dello studio del proprio patrimonio. I motivi sono l’eccessiva disparità numerica fra le carriere e la conseguente impossibilità da parte dei bibliotecari di dedicarsi ai compiti istituzionali, visto che sono obbligati a “fare da badanti” agli altri dipendenti. Assunzioni sono continuate, anche oggi, specie per l’area della vigilanza (che può essere utilizzata in tutti gli istituti del Ministero), mentre invece quelli per bibliotecari si sono interrotti da molti anni, anche per l’improvvida scelta (ma fortemente voluta dai sindacati e non si capisce perché supinamente accettata dal Ministero) di far transitare dalla carriera di concetto, ora inesistente, a quella direttiva dei bibliotecari una buona fetta di dipendenti: così sono stati occupati dei posti che potevano essere più utilmente messi a concorso per nuove leve. Gli avanzamenti, mascherati da esamini, hanno interessato dipendenti già con parecchi anni di servizio che sarebbero andati presto in pensione ed il risultato sono molte biblioteche, da Torino a Bari, da Gorizia a Lucca e perfino a Roma (per non dire dell’Universitaria di Pisa chiusa con un pretesto dal 29 maggio 2011), che rischiano quasi la chiusura o l’immobilismo per l’assenza dei bibliotecari e non di altro generico personale (che potrebbe benissimo essere fornito da cooperative di servizi).

Tuttavia, per comprendere bene il perché si sia arrivati a questa incredibile situazione che penso sia unica nella Pubblica Amministrazione, bisogna riandare al 1977, quando fu emanata la legge n. 285 sull’occupazione giovanile, voluta dalla ministra del lavoro Tina Anselmi. Ebbene con quella legge sono entrati, fino alla metà circa degli anni Ottanta, la stragrande maggioranza dei bibliotecari (carriera direttiva) riempiendo e ingolfando i ruoli fino a non molto tempo fa, quando è venuto anche per loro il tempo della pensione. Nell’arco di pochi anni, ed era facile prevederlo, tutta la classe bibliotecaria se ne è andata e non è stata sostituita, dato che, successivamente all’immissione in ruolo della 285 (come era amichevolmente chiamata), solo due furono i concorsi per bibliotecari indetti dal Ministero, uno nel 1984-85 tramite corso-concorso della Scuola superiore della pubblica amministrazione (ora Scuola nazionale dell’amministrazione) e un altro alla fine degli anni Novanta. Qualche numero in più è saltato fuori dalla abolizione della carriera di concetto degli aiuto-bibliotecari, traslata come d’incanto nella direttiva, come detto in precedenza, ma si è trattato di abile artificio più che di vera sostanza. Simile percorso è stato compiuto dai dirigenti bibliotecari, che si sono visti diminuire progressivamente le sedi dirigenziali di biblioteca (ora limitate solo a sei, compreso ICCU) e diventare quindi irrilevanti nell’organigramma ministeriale.

Che fare, dunque? Prima di impostare nuovi concorsi, vanno totalmente riscritte le carriere all’interno delle biblioteche, limitando di molto il numero degli addetti alla vigilanza (molti dei loro compiti possono essere svolti in modo adeguato e decoroso da agenzie di servizi o da cooperative di studenti, come per esempio avviene in molte università – ne feci parte anch’io quando ero studente universitario a Trieste) e aprendo le porte a bibliotecari ‘veri’, cioè con competenze plurime e differenziate: nei campi dell’informatica documentale, della conservazione e del restauro, della catalogazione di tutti i supporti grafici, dell’assistenza alla ricerca, della valorizzazione e comunicazione, oltre che della gestione amministrativa dei siti (la separatezza che oggi persiste fra carriera amministrativa e carriera bibliotecaria va con il tempo cancellata o almeno attutita in favore di una maggiore osmosi fra i due modi di lavorare e di intendere la biblioteca). La carriera amministrativa deve essere infatti riservata all’amministrazione centrale e a quella regionale dei Segretariati, i quali devono farsi carico di molti dei compiti che ora sono svolti con difficoltà dalle biblioteche, in particolare quelli ripetitivi (gestione del personale, appalti annuali per pulizie e manutenzioni, ecc.). E’ chiaro che se si agisse in questo modo, il numero dei dipendenti effettivi, assunti cioè con contratto a tempo indeterminato, potrebbe essere anche inferiore dell’attuale ma con una qualità decisamente maggiore. La Scuola nazionale dell’amministrazione insieme alla Fondazione Scuola Beni Attività Culturali garantiranno l’accesso alla carriera dei bibliotecari statali, i quali comunque dovranno possedere un titolo di studio coerente con il lavoro cui saranno chiamati: laurea e dottorato in Biblioteconomia sono titoli obbligatori e non opzionali. Solo così le biblioteche statali italiane si riscatteranno da anni di melensa attività e di sperpero del tempo e del denaro pubblico, fuori da ogni logica produttiva e scientifica.