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Intervista con Daniele Poletti

Diaforia – 23 settembre 2021

a cura di Gianluca Rizzo

 

     Questa prima intervista con Daniele Poletti, editore di [dia•foria, apre una serie di conversazioni, una micro inchiesta, se si vuole, sullo stato della eso-editoria, l’editoria piccola e minuscola, in Italia. Si cercherà di fare un censimento degli editori più attivi, più interessanti, più innovativi, più ostinati, più impenitenti, e trascorrere con loro una mezz’oretta per parlare del lavoro, degli affari, dello stato della professione. Nelle intenzioni, si tratta di una serie di conversazioni informali, come si terrebbero la sera tardi, in bottega, dietro una saracinesca abbassata, seduti sulle pile di libri. Per questo gli interventi editoriali, in fase di sbobinamento e revisione, sono stati minimi, per lasciare quanto più possibili vive le voci degli intervistati. Questo confabulare nel retrobottega richiama senz’altro un’ideale romantico, ce ne rendiamo conto. Eppure si vedrà come questi amatori (maniaci?) di libri sono inguaribili romantici loro stessi, cavalieri solitari lanciati all’assalto dei mulini a vento. Il tipo di gente che piace a noi, insomma! Per questa nostra vicinanza di vedute e di passioni mi sento di potergli chiedere, senza ironie o paternalismi, ma con la curiosità del compagno di viaggio: ma a te chi te la fa fare?!

Rizzo: Vorrei cominciare con una presentazione: Daniele Poletti, potresti dirci brevemente cosa fa [dia•foria, di cosa si occupa, da dove viene, qual è l’obiettivo della casa editrice?

Poletti: In Italia, in questo ultimo decennio, si sono sviluppate realtà piuttosto interessate, agguerrite, come dicevamo, nel senso che sono del tutto o quasi slegate dalle logiche di mercato. Producono cultura, letteratura e arte pro bono, per la sola passione e anche ambizione di lasciare un segno, seppur piccolo, contrario alla disgregazione in atto (continuo) del fatto culturale. [dia•foria fa parte di questa realtà, nasce nel 2010, ad opera del sottoscritto, e poi di vari collaboratori che si sono avvicendati nel corso del tempo. Nasce come reazione a livello personale a uno stato di cose che si era sviluppato nel mio percorso artistico. Anch’io scrivo di mio e nel corso degli anni, soprattutto prima del 2010, mi sono occupato di performance strutturate. Una reazione, dicevo, perché impostare un percorso editoriale significava gestire autonomamente i risultati e i percorsi, senza doversi affidare ad altre persone. Questa indipendenza mi permetteva inoltre di concentrarmi su un periodo della letteratura che ho sempre amato: il secondo Novecento. Il progetto viene definito come “rivista” aperiodica, ma non è mai stata né una vera e propria rivista, né un multiplo d’artista,  né un libro: all’inizio, infatti, si stampavano dei piccoli cartigli ripiegati in quattro. Dopo quattro anni c’è stato il passaggio, il salto, verso la pubblicazione di testi più ampi, in veri e propri volumi. Partiti con una linea modesta, di più basso profilo, mantenendo a un prametro di qualità, siamo arrivati a ciò che mi stava più a cuore, e cioè riproporre tutta una serie di testi che erano stati in qualche misura dimenticati o che meritavano di essere riscoperti, o che risultavano ingiustamente fuori catalogo e introvabili. Allo stesso tempo, mi interessava seguire anche tutto il flusso delle nuove scritture, e sviluppare un ragionamento specifico di carattere critico a latere. A oggi, nel 2021, questo è l’aspetto che più si è sviluppato, perché parallelamente al progetto editoriale, c’è una continua riflessione critica, un osservatorio sulle scritture contemporanee e sulle categorie da rivedere, ri-stimolare, e riconsiderare. Parlo in particolare della “sperimentazione”, della “ricerca”, dell’”avanguardia” come precedente, e, come ultima arrivata, di questa prospettiva critica che sto cercando di sviluppare e suggerire: la “scrittura complessa”, o “scrittura della complessità”. Questo è il percorso di [dia•foria. Si tratta di un lavoro editoriale che, per concezione, non è legato alle logiche di mercato e lo dimostra il fatto che per pubblicare ci appoggiamo a un editore di supporto. [dia•foria non è costituita in nessun modo. Il richiamo diretto è a quelle realtà assai diffuse negli anni Sessanta e Settanta, quando operazioni come quelle di «Geiger» di Adriano Spatola proliferavano in modo naturale. Oggi, invece, un lavoro come il nostro appare come una forma di guerriglia e di militanza, e in parte lo è, ma per me l’operazione letteraria ed editoriale costituisce sempre una forma di opposizione al mainstream, quindi è giusto e sano, credo, che esista questo tessuto ribollente di proposte e riflessione sul mezzo letterario. 

Rizzo: La parte dell’osservatorio, dove si fa la critica, avviene sulla rivista Container… è quello a cui ti riferivi?

Poletti: Esatto. Da due anni esiste CONTAINER – osservatorio intermodale, anche se la riflessione sulla “scrittura complessa” risale a quattro anni prima dell’uscita del primo numero della rivista. È servita e serve come laboratorio di riflessione su questa nuova prospettiva critica. Non si tratta di una “categoria”, è necessario non ricadere nelle solite pastoie di differenziazioni e tassonomie, che sono solo scolastiche, usate per comodità, ma poco efficaci per dare conto della complessità, appunto, che esiste nelle scritture.

 

Rizzo: La prospettiva di essere un’entità che pubblica senza essere un editore, come quei precedenti che mi dicevi, «Geiger», «TamTam», Scheiwiller – che era sì, un editore vero e proprio, ma si muoveva secondo logiche e canali che assomigliavano più a questa editoria da guerriglia che stiamo descrivendo, piuttosto che a una formula tradizionale – ecco questo modo di intendere l’editoria, è una cosa che stai vedendo prendere piede in Italia, o è piuttosto un’eccezione. In altre parole, ci sono altri come te, o la tua è più un’eccezione alla regola (fatti salvi i soliti “grandi”, naturalmente)?

Poletti: Stiamo parlando innanzitutto di eso-editoria, e quindi di quella parte del settore che non è neanche editoria piccola, ma minuscola. Perché quando si parla di una tiratura di cento copie stiamo quasi parlando di edizioni firmate e numerate dall’autore. Se prendiamo l’Opera di Adriano Spatola, che è uno dei libri più “importanti” che abbiamo stampato, sicuramente per la risonanza che ha avuto, ne abbiamo tirate solo trecento copie (sempre con la prospettiva di stamparne altre, naturalmente).

L’operazione che porta avanti [dia•foria da almeno dieci anni è un’operazione che fino a un certo punto, senza voler far torto a nessuno, è stata abbastanza unica, per la formula che ti ho descritto. Da qualche anno a questa parte invece si sono sviluppate delle situazioni molto simili a [dia•foria, dirette da colleghi e amici che stanno operando nella stessa maniera e stanno facendo cose veramente interessanti. Posso fare il nome di Tic Edizioni, piccolo editore di Roma, che ha cominciato stampando qualche manuale un po’ strano, qualche romanzo, e poi le parole magnetiche, per le quali sono abbastanza conosciuti. Poi hanno abbracciato il progetto di Michele Zaffarano, portando in seno alla casa editrice un afflato di grande novità, e quindi un percorso su scrittori soprattutto italiani, ma non solo, che portano avanti un tipo scrittura precisa, fuori dalle coordinate della tradizione. Michele è francofono, e ha traghettato in Italia autori come Christophe Tarkos, per esempio, in una bellissima edizione da lui tradotta. Dunque, formalmente, la modalità è praticamente identica a quella che fa [dia•foria: appoggiarsi a un editore, divenendo praticamente una collana al suo interno, ma mantenendo un’identità assolutamente autonoma, che permette di portare avanti un discorso, un progetto specifici su un certo tipo di scritture. C’è poi Ikona Liber, curata da Marco Giovenale, con le stesse caratteristiche, e che si concentra sulla scrittura da loro definita “di ricerca”, vicina al concetto di “poesia anassertiva” e di “postpoesia”, tutte definizioni e spunti ermeneutici da loro sostenuti. Da non dimenticare, poi,  Benway Series, di Mariangela Guatteri e Giulio Marzaioli, oggi sono loro che portano avanti l’operazione, nata sette o otto anni fa, se non sbaglio, insieme a Giovenale e Zaffarano, che poi lasciarono il progetto. Hanno pubblicato diverse cose interessanti, catalogo ottimo e edizioni molto curate. Anche loro adottano un meccanismo editoriale, identico al nostro,  secondo il quale stampano con un editore che gli fornisce l’ISBN. La distribuzione (almeno per  [dia•foria) è quasi pari a zero, perché dipende da tutto il lavoro che si fa attraverso la rete, attraverso una serie di contatti che si strutturano negli anni, grazie alla fidelizzazione rispetto al proprio progetto.

E quindi sì, per rispondere in modo chiaro alla domanda, certo, ci sono altre realtà anche estremamente interessanti, senza le quali non si potrebbero leggere alcuni autori. Vedo che la cosa vale anche per i giovani accademici, l’ho riscontrato sul campo. Senza queste realtà editoriali non avrebbero la possibilità di affrontare una quantità di testi e autori importanti.

Rizzo: Dal punto di vista della stampa e poi della distribuzione di questi libri mi sembra si seguono modalità quasi carbonare, da società segreta. Non per scelta, naturalmente, ma perché spesso si è in pochi ad interessarsi di queste cose. Ma c’è un pubblico? Questi libri che stampate, circolano? Sono letti? Sono disponibili? Si riscontra interesse?

Poletti: Limitatamente, proporzionalmente alle nostre tirature, ovviamente c'è un pubblico; ma sarebbe impensabile, almeno per quanto mi riguarda, stampare 1000 copie di un libro. Ecco, e dico una cifra che per un medio editore, o per un grande editore, figuriamoci, è una cifra abbastanza ridicola, credo. Quindi con le nostre tirature abbiamo un pubblico (ora mi permetto di parlare al plurale anche per gli amici che ho citato prima) che si è creato attraverso la rete, e attraverso anni di, diciamo così, sacrificio. Col tempo questa “identità” è stata recepita anche dagli addetti ai lavori, che hanno cominciato ad apprezzare la qualità e gli obiettivi del progetto.

Rizzo: Quali sono le scelte tecniche, stilistiche, materiali dei libri di [dia•foria?

Poletti: La caratteristica di [dia•foria è il fuori formato perenne; cioè ogni libro è diverso dall’altro, ma non per un provocatorio vezzo estetico, piuttosto perché il progetto letterario, editoriale e critico è un tutt’uno con la ricerca tipografica. Ogni libro ha un suo nerbo, una sua anima, che si sposa con un formato particolare. Questa è la mia filosofia. Possiamo pensare, per esempio, visto che parlavamo di Pagliarani, al suo Lezioni di fisica, che è il fuori formato per eccellenza, uno dei libri più estremi che la nostra storia abbia visto. Ed è stato concepito in quella veste precisa, così allungata, per un motivo specifico, perché il testo, con i suoi versi ipermetri, lì dentro si esprime al massimo. Sarebbe stato impossibile vedere un libro del genere in un formato 10x15. Oppure possiamo pensare a Romanzo storico di Vasio/Mari, anche se ci spostiamo più sul terreno del libro d’artista, assai fertile però per la sperimentazione tipografica. E quindi, per farla breve, ecco il motivo per cui io cambio sempre il formato, e anche il font per i miei libri.

Rizzo: Mi sembra senz'altro interessante questa idea che il contenuto e il contenitore si influenzano a vicenda, e quindi se uno è di ricerca, l’altro deve essere pure di ricerca… Ma tornando al discorso del pubblico, che mi interessa molto, volevo affrontare la questione delle presentazioni e delle letture di poesia. Mi sembra che soprattutto in questo ultimo anno, con la pandemia, c'è stato un rifiorire di eventi e incontri, anche online. Mi chiedo: la gente comune, i lettori, ci vanno, o si tratta di poeti che fanno presenza fra di loro? C’è un’interazione fisica fra lettore e scrittore al di fuori della rete, nella vita reale?

Poletti: È una domanda interessante. Su quello che capita fuori dalla rete ti posso rispondere poco e male anch'io, perché faccio un lavoro (e non è quello dell’editore) per cui non riesco ad essere così presente nei posti, nei gangli della cultura, dove si fanno presentazioni. La città dove abito, Viareggio, una cittadina costiera in Toscana, non si può considerare un punto di attrazione culturale.

Lo stesso vale per la rete. La mia presenza non è così frequente. In effetti non sono un buon comunicatore, in quel senso, neanche per i nostri libri. D’altronde quando sei un “one-man-band” c’è un limite a quello che si può fare.

Come impressione generale, anche se forse non aggiunge molto alla tua, posso dirti che ci sono stati negli ultimi tempi una miriade di eventi, che hanno dimostrato le possibilità, offerte da queste piattaforme, di coordinare una partecipazione a distanza. Mi pare, tuttavia, che in questi eventi siano coinvolti soprattutto coloro che sono all'interno della cerchia di riferimento, cioè poeti o accademici, e comunque addetti ai lavori.

Rizzo: Nel periodo che ci interessa, quello della poesia di “ricerca”, “sperimentale”, “complessa”, negli anni Sessanta e Settanta, si faceva dell'impegno e del rapporto col pubblico uno dei punti cruciali, che definivano le poetiche. La scrittura si giudicava anche in termini di efficacia. Efficacia di provocazione, diceva Pagliarani: era fondamentale incontrare il pubblico e ottenere una reazione. Ma se adesso gli unici interessati sono quelli che già si occupano di poesia, che facciamo? Va bene così? O è un problema che ci dà fastidio e dobbiamo risolvere? Ci siamo rassegnati? O è una cosa che cerchiamo di cambiare? Si prova a superare questa indifferenza del pubblico generalista?

Poletti: Si tratta di una questione importantissima per gli anni che hai citato. Il problema del pubblico non si può sottacere. Rispetto agli anni Sessanta e Settanta, ci troviamo di fronte ai risultati di un processo sotterraneo, di polverizzazione, di quelle basi culturali, letterarie e artistiche, che permettevano anche all'operaio e al piccolo borghese di avere un minimo di cognizione, anche di fronte a una provocazione. Rispetto alla società di allora, la nostra, per tornare al discorso sulla complessità, si è indirizzata verso una semplificazione semplificante, per cui l’interesse è solo per la comprensione immediata. Per quanto mi riguarda, mi trovo su posizioni piuttosto radicali: non sono interessato a un compromesso con il pubblico. Ho un progetto preciso e lo devo portare avanti, perché secondo me ci sono delle cose che vanno realizzate in questo momento storico, direi, ciclico ritorno della stasi. Una casa editrice come [dia•foria non si sognerebbe mai di pubblicare un “titolo di cassetta”, che sia condivisibile dal lettore medio. Per risolvere il problema del pubblico bisognerebbe lavorare a monte. Questo richiederà un tot di anni per ricostruire un’alfabetizzazione nei confronti di un certo tipo di espressività. Non si tratta di una scelta aristocratica. Dal mio punto di vista, l’arte, la letteratura, la musica hanno un aspetto differenziale rispetto a certi prodotti concepiti e strutturati apposta per l’intrattenimento leggero. Ci vuole una maggiore sensibilizzazione. A partire dalle basi, nelle scuole ci dovrebbe essere una riabilitazione di certo tipo di percorso, bisognerebbe insegnare a decodificare messaggi che non sia immediatamente comprensibili, e coltivare il senso critico, la curiosità, che porta anche al gusto della scoperta e al piacere della sorpresa.

Il lavoro che fanno anche piccoli e medi editori in Italia è fondamentale per chi studia la letteratura e per chi vuole leggerla. Se ci dovessimo affidare soltanto, per esempio, parlando di poesia, alla Bianca Einaudi faremmo dei pranzi ben magri. C'è stato un cambio di paradigma

all’altezza degli anni Ottanta. Negli anni Settanta anche i grandi editori facevano un certo tipo di scelte: pubblicavano titoli di largo consumo, per non dire best-seller, ma una parte del guadagno veniva destinata a operazioni di “ricerca letteraria”. Pensa a Mondadori che stampa il Manuale di poesia sperimentale di Pagliarani, per esempio. Oggi sarebbe impensabile. Nella situazione in cui ci troviamo la nostra è un po' la condizione dei resistenti, fuor di retorica. I ragazzi giovani delle Accademie sono affamati di questo tipo di cultura e non sanno dove trovarla. Ma vedi, è un cane che si morde la coda… bisognerebbe che ci fosse del movimento fra i curatori di collana dei grandi editori, bisognerebbe che agissero da intellettuali veri, scusami se uso questo termine, imponendo una visione trasversale, perché è necessario portare avanti un certo discorso culturale. Necessario per chi? Necessario per tutti, anche per coloro che se ne chiamano fuori, perché se esiste un tessuto di pensiero divergente tutti, direttamente o indirettamente, ne godranno. Invece oggi siamo nelle mani degli editor e di chi fa dell’editoria solo una questione di marketing. Tutti i libri devono far profitto. In [dia•foria tutti i libri vengono stampati per motivi lontani dal profitto, in ragione, prima di tutto, di un obiettivo di critica della realtà attraverso la letteratura: sviluppando un dialogo con l'autore un vero e proprio progetto condiviso, in cui non c'è alcun intervento edulcorante.

Il discorso del pubblico è anche legato al fatto che manca in qualche modo una critica. Cioè manca la funzione della critica nei confronti di chi si propone come scrittore. La rete ha portato a una sorta di perversione: dà l’illusione che ognuno possa essere poeta, artista e musicista, e che possa avere il suo piccolo spazio all'interno di questo mondo. È chiaro, ognuno ha il diritto di esprimersi, ma pare che oggi si pecchi di capacità autocritica. Anche nelle presentazioni, è qui che volevo arrivare, non c'è più né la capacità né la volontà o il coraggio di esprimere un punto di vista oppositivo, una critica nei confronti di quello che si vede e che si sente. Oggi sono tutti “bravi”, si applaude anche quando sarebbe d’obbligo fischiare, e manca quell’approccio che c'era negli anni di Spatola, di Costa, di Pagliarani. Allora, quando c'era una lettura pubblica, un intervento, non se le risparmiavano. Credo che si dovrebbe in qualche modo riattivare questa modalità dialettica, una modalità di confronto. Questa mancanza in Italia si patisce anche in tutte le testate giornalistiche. Ormai non si fa più critica, non si fa più scouting, ma si fanno recensioni. Un tempo, quando usciva un libro, a volte veniva anche stroncato. Non si vedono più stroncature su nessun inserto culturale (siano Robinson o il Sole 24 Ore, etc.), né tantomeno sui quotidiani. Allora la funzione della critica è finita, e si fanno solo bollettini aggettivati per la vendita. La stroncatura serve anche a innescare un dibattito, al limite.

Rizzo: Si, mi pare che spesso siamo di fronte a un ricatto che costringe al silenzio. Noi che ci interessiamo di poesia, siamo in fondo tutti nella stessa minoranza. Quando la poesia riceve una qualsiasi attenzione da parte del pubblico generalista si innesca questo ricatto per cui bisogna assolutamente mostrarsi entusiasti, apprezzare e sostenere senza qualificazioni, in modo da non sperperare in divisioni interne e parrocchiali quel poco di attenzione che viene rivolta alla poesia e ai poeti contemporanei. E allora la poesia contemporanea diventa, agli occhi del lettore distratto, tutta indistintamente uguale; per forza non riesce a raccapezzarcisi!

Poletti: Esatto: diventa tutta poesia indistintamente uguale. Servono le prospettive critiche di cui ti parlavo prima e che stiamo cercando un po' di affinare (poesia della complessità, per esempio). Serve un linguaggio specializzato quando si parla di letteratura sperimentale o di struttura complessa, anche se si finisce per parlare a una nicchia e non so in quanti riescano a seguire il discorso. A questo proposito, ci sono delle carenze anche all'interno delle Accademie. Quindi, a maggior ragione, non tutto va bene allo stesso modo, e bisogna tornare a esporsi, ecco.

Rizzo: In questo lavoro ci sono diverse fasi, tutte importanti: la scelta dei testi, la scelta del formato del libro, la stampa, e poi la vendita (e quindi di cercare di raggiungere il pubblico); qual è la difficoltà maggiore, dal tuo punto di vista? Cos’è la cosa più difficile, che dà più problemi?

Poletti: La cosa più difficile è la parte commerciale, anche se [dia•foria in questi anni ha coltivato un suo gruppo di persone affezionate, che comprano il libro anche non conoscendo l'autore. Ma purtroppo le mie doti commerciali sono assai scarse. Provo a fare tutta la promozione che posso, attraverso la rete: ho fatto non so quanti video, invitando una miriade di persone tra artisti, critici e poeti. Per ogni libro faccio sempre un book trailer. Ma manca la figura del marketer, preposta a una promozione più mirata e frequente. Questo per me è l'aspetto più spinoso, più difficile; il resto ovviamente comporta a volte delle ansie, delle tensioni, ma è una gioia contattare persone, cercare di strutturare eventi marginalmente all'uscita di un libro, etc. Mettermi a studiare una copertina, un formato, dialogare con l'autore, per me sono tutti momenti di apprendimento, di soddisfazione e di studio allo stesso tempo.

Rizzo: Nella mia esperienza è la distribuzione che crea grattacapi senza fine: mettere il libro prima sotto gli occhi del potenziale lettore, e poi nelle sue mani. Cioè prima informarli dell’esistenza di questo titolo, e poi, una volta che hanno deciso di comprarlo, faglielo arrivare. Questa mi sembra sempre la cosa più difficile. Qual è la tua esperienza a questo proposito?

Poletti: Negli ultimi due anni mi sono appoggiato a Stefano Mecenate, un piccolo editore di Pisa, che si chiama dreamBOOK edizioni. Diciamo che un po' di distribuzione c'è stata, perché il distributore (credo sia LibroCo) ha chiesto i libri, soprattutto quello di Spatola, ma anche gli ultimi che abbiamo pubblicato, quello di Mario Diacono e Augusto Blotto. E quindi un certo numero di copie sono state diffuse. Ma qual è il problema?, e qui lo dico fuori dai denti: è che un editore piccolo come [dia•foria, che dà in mano i suoi libri a un distributore nazionale, ne ottiene una rimessa, più che un guadagno. Si rischia di non rientrare neanche delle spese di produzione, e il nostro obiettivo è di andare sempre in pari, visto che non abbiamo fini di lucro. Su un titolo che ha un pezzo di copertina poniamo di €20 il distributore prende il 55%. Se stampare un libro mi è costato €800/€900, dipende dalla tipologia di libro, prima di recuperare la spesa ci vuole un sacco di tempo, e questo mette a rischio le attività di editori come noi che finanziano un titolo nuovo con le vendite del titolo precedente. È per questo che si cerca di fare vendita attraverso altri canali.

Rizzo: Mi sembra che ci sia lo stesso problema che incontro io quindi. Mi sembra che sia uno dei problemi principali della piccola editoria…

Poletti: Ci sono anche dei distributori indipendenti, che hanno altri costi molto più ragionevoli. In Italia ce ne sono almeno due o tre, ma non sempre funzionano bene, da quello che mi dicono. Ma questo dipende dall'editore al quale mi appoggio, quindi non è una scelta che posso fare io.

Rizzo: Ti chiedo un’ultima cosa, perché vorrei chiudere su una nota positiva. Abbiamo parlato delle difficoltà e dei problemi da risolvere… però ci deve anche essere qualcosa che ti motiva e ti dà soddisfazione. Insomma, a te chi te la fa fare di impegnare tutte queste energie per pubblicare libri?

Poletti: In tutti questi anni [dia•foria ha sempre mantenuto la sua indipendenza. E questa indipendenza, cioè pubblicare veramente quello che voglio, senza compromessi, mi ha portato a dei risultati importanti. Magari non hanno una larga eco, ma sono stati accolti bene, e questo per me è già remunerativo. La soddisfazione è stata quella di contattare e incontrare persone, autori, poeti che io ho sempre stimato in età più giovane. Purtroppo non sono riuscito a incontrare Spatola di persona, ma durante il percorso di questi dieci anni ho fatto la conoscenza di Giulia Niccolai, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti, Luigi Ballerini… Li ho anche intervistati, sul nostro sito e sul canale YouTube dedicato si possono vedere i video. Per me questa è una fonte di ricchezza, perché mi permette di continuare a strutturare il ragionamento sulle scritture di sperimentazione, di ricerca. Questo è, in ultima analisi, il progetto di [dia•foria: occuparsi di scrittura sperimentale, cercare di portare avanti e oltre la riflessione sulla letteratura, che rischia storicamente e periodicamente di essere offuscata dai facili risultati del consumo. Rendere “indisponibile”, differire, sottrarre dalla dittatura della sola “narrazione” è creare dinamismo verso l’oggetto del desiderio.
Poi c’è la soddisfazione di vedere stampato un libro che avresti voluto leggere… è impagabile avere in mano tutta l'opera poetica di Adriano Spatola.