Polesìa. Antologia di poeti italiani
a cura di Ferdinando Tricarico
Giuseppe Andrea Liberti
Rivista diretta da un profondo conoscitore della nostra contemporaneità quale Antonio Pietropaoli, e pubblicata dalla Oèdipus di Francesco Forte, quindi da una delle case editrici maggiormente attente alla ricerca poetica italiana, «Trivio» è una realtà abbastanza spregiudicata da non temere le scommesse ardite. Lo ha dimostrato col coraggioso numero 4 dell’anno 2017 curato da Ferdinando Tricarico, poeta e intellettuale sempre attento alla dimensione politica della scrittura in versi, come abbiamo già avuto modo di notare qualche tempo fa recensendo il suo volumetto Grand Tour («Rossocorpolingua», a. II, n. 2, 2019, pp. 40-42). Questo numero monografico è interamente dedicato al tema della democrazia; «Polesìa» è il nome dato al discorso collettivo che si instaura tra generazioni e stili diversi, frutto della combinazione tra ‘poesia’ e ‘polis’. Si può dire con tranquilla coscienza che l’argomento non rientra tra i più gettonati dalla poesia recente. Anzi, per essere ancor più espliciti: è impossibile trovare testi sulla democrazia in una fase storica nella quale può essere già difficile trovare intenzioni anche solo latamente politiche negli autori in attività, pur essendoci, com’è ovvio, qualche eccezione significativa come quella rappresentata da giovani poeti come Fabrizio Bajec o Pietro Cardelli. Eppure il sasso lanciato da Tricarico smuove le acque di uno stagno fin troppo tranquillo. Al di là degli effettivi risultati poetici, il tentativo è da apprezzare anche solo per questo tentativo di spingere la poesia italiana verso lidi poco o nulla battuti.
Certo restano tutti i problemi ‘tecnici’ legati alla discussione di un tema come quello democratico nella forma poetica. È il caso di rispolverare, come suggerisce Francesco Muzzioli, le «armi tradizionali» (p. 12) – e non si storca il naso davanti alla scelta terminologica; una poesia che affronti le condizioni dell’agire democratico, che problematizzi e interroghi i suoi istituti e, perché no, le sue mitologie, deve pensarsi come arma da adoperare con cauta precisione. Tra invettiva, satira e ironia, tra «uso del linguaggio come corpo contundente» (ibidem), demistificazione e ricorso alla disillusione, l’artiglieria classica della poesia civile attacca da plurime posizioni una parola-mondo che nella sua apparente sacralità cela tensioni tutte da far emergere.
Una cosa appare chiara dalla lettura di questa antologia: la democrazia non è in pericolo, come si sente spesso ripetere, perché è già da tempo, in quanto idea e progetto, in condizioni critiche. Anzi, come scrive Giso Amendola, il libro si configura come un autentico «trattato di decomposizione del corpo del sovrano democratico» (p. 143). È particolarmente interessante, come osserva anche Tricarico, il fatto che la partecipazione femminile all’antologia proponga la critica più aspra al mito democratico. È la conseguenza logica dell’esclusione delle donne operata dal «linguaggio dominante» e dalle «forme organizzate della politica», sì che le stesse «tendono a rinchiudersi, ad accentuare il distacco, a considerare la democrazia qualcosa di ipocrita e vuoto» (p. 18). La questione di genere è centrale per valutare il funzionamento dei processi democratici, da quello, ormai svalutato, parlamentare ai momenti di confronto e discussione delle realtà auto-organizzate; eppure, proprio tale questione viene continuamente mortificata nella prassi democratica. Lo afferma con grande chiarezza Nadia Cavalera in uno dei testi più lunghi e tesi della rivista: «Non indicava certo il popolo tutto. E le donne dov’erano? e i meteci? e gli schiavi? Va bene, ammettono | i capoccioni, non erano tutti, ma almeno hanno cominciato l’autodeterminazione. Ah deo gratias! E | gli uomini autodeterminandosi, autodeterminandosi continuamente, nei secoli dei secoli, sono finiti dove? | sotto i piedi del capitalismo, che elargisce falsa libertà, quel tanto per poter essere ligi consumatori e | permettere alla piovra di sopravvivere alla grande» (La crozza col cappellino e l’ombrello, p. 33). O si legga la voce assai disincantata di Anna Santoro, che nelle sue terzine libere denuncia la «vaghezza di significato» di questa idea in vero mai vista ma che pure i Paesi «predatori e prepotenti» ‘donano’ «a cocciuti popoli arretrati / già bastonati da dittature amiche» (A domanda rispondo, p. 116).
Il testo di Santoro si inserisce d’altronde in quella altrettanto ricca linea di poesie che denunciano l’ipocrisia di fondo degli Stati che si richiamano alla democrazia, trasformata in una bandiera di civiltà con la quale assoggettare altri Paesi, altre culture – e, in fondo, altre ricchezze. La riscrittura trumpiana del discorso di Pericle (già di per sé uno degli scritti più ambigui sulla democrazia) è il mezzo con cui Ferdinando Tricarico mette alla berlina la presunzione dei grandi potentati occidentali, sempre intenti a esportare gli stessi sistemi che mortificano e svuotano di significato: «Qui a Washington noi facciamo così», dice il Presidente di un Paese nel quale «Ci è stato insegnato a non rispettare i magistrati, e ci è stato | insegnato anche a non rispettare le leggi e di non ricordare di | proteggere coloro che ricevono offesa» (Discorso sullo stato dell’Unione, pp. 125-26). E non mancano, com’è ovvio, testi che si focalizzano sulle criticità del nostro sistema democratico italiano, che vanno dal desiderio di Franco Buffoni di continuare a vedere «il lampo negli occhi di Gobetti» nella Costituzione che non promette «di perseguire l’imperseguibile / – La felicità degli uomini» (Alla Costituzione italiana, p. 24) al riconoscimento, nella pin-up democratica, del «bordello come diceva Dante / su verifiche sulla sua pelle / di esule che mancia pane amaro / e sdegno di un paese assai corrotto / è questa ancora l’Italia bella / sotto tutela di democrazia / che plaude e irride alla democrazia» (Ugo Piscopo, Miss pin up girl la Democrazia, p. 102).
Tante altre le voci di questo samizdat poetico che andrebbero ricordate, tra le quali l’elegante componimento di Bruno Di Pietro, sempre attento al rapporto tra letteratura e storia, dedicato alla figura di Zenodoto che «sostenne necessario / mettere le leggi per iscritto» (ma «Forse lo sostenne con troppa veemenza / al punto che una maggioranza di cittadini stolti / gli indicarono la via della partenza / quando i papaveri erano già dissolti»; Zenodoto, p. 48), o ancora le tanto brevi quanto splendide Alluminio, cenere di Giovanna Marmo e Eldorado di Giulia Scuro. Non è, questo numero di «Trivio», una silloge di facile lettura né un esperimento accomodante; è bene che il lettore si prepari a quella che Luciano Canfora chiamerebbe una ‘critica della retorica democratica’ condotta attraverso uno strumento insolito ma, proprio per questo, in grado di sollevare con forza inedita problemi su cui si continua a non ragionare abbastanza, come il senso delle istituzioni o le forme della partecipazione alle decisioni collettive, anche al fine di migliorare la qualità della nostra pratica politica quotidiana.
Polesìa. Antologia di poeti italiani, a cura di Ferdinando Tricarico, numero monografico
di «Trivio», n. 4, a. 2017