«Interdisciplinare per caso» (e per ‘negazioni’)
Elio Pagliarani e le arti figurative (1954-1965)
Chiara Portesine
Abstract
Lo studio si propone di approfondire il rapporto tra le arti figurative e la produzione poetica di Pagliarani, in un arco cronologico compreso tra il 1954 e il 1965. Nella prima sezione l’analisi si concentrerà sulle prime due raccolte – Cronache e altre poesie (1954) e Inventario privato (1959) –, illustrate rispettivamente dagli artisti Giuseppe Migneco e Alberto Casarotti. Successivamente, esaminerò alcuni degli eventi culturali (pièces teatrali o iniziative editoriali) promossi a Roma da un gruppo di artisti sperimentali (tra cui Achille Perilli, Toti Scialoja e Gastone Novelli). In questo paragrafo cercherò di dimostrare il ruolo di Pagliarani come «operatore culturale», in uno profondo rapporto di interdipendenza tra testo letterario e contesto. Infine, l’attenzione verrà rivolta a uno specifico case study – ossia Dalle negazioni, testo raccolto nella Lezione di fisica e dedicato a Giò Pomodoro.
This study aims to investigate the relationship between visual art and Elio Pagliarani’s literature (from 1954 to 1965). I will firstly focus on the first two books – Cronache e altre poesie (1954) and Inventario privato (1959) –, whose illustrations have been created by Giuseppe Migneco and Alberto Casarotti. Secondly, I will try to highlight some of the cultural events (theatrical performances or editorial initiatives) promoted in Rome by experimental artists like Achille Perilli, Toti Scialoja and Gastone Novelli. In this paragraph I will demonstrate the role of Pagliarani as «operatore culturale», in a deep connection between literary text and context. Finally, the attention will be focus on a specific case study – Dalle negazioni, a poem from Lezione di fisica dedicated to Giò Pomodoro.
Keywords
Interdisciplinarità; Illustrazione; Interazioni verbo-visive; Gruppo 63.
Interdisciplinarity; Illustration; Verbo-visual interactions; Gruppo 63.
- La militanza illustrativa delle prime raccolte
Nell’ambito di quel fumoir[1] interdisciplinare rappresentato storicamente dal Gruppo 63, la figura di Elio Pagliarani sembra contaminarsi in forme apparentemente meno marcate con la ‘peste’ del figurativo. Se le interferenze verbo-visive campionabili nella produzione di Nanni Balestrini e, in misura quantitativamente più rilevante, di Edoardo Sanguineti sono state approfonditamente setacciate dalla critica, la poesia di Pagliarani tende ad essere confinata in un cantuccio immunitario rispetto alle sirene plastiche delle arti coeve. Soltanto nell’introduzione alla recente edizione di Tutte le poesie, Andrea Cortellessa riserverà alcune pagine fondamentali al «versante “per l’occhio” della sperimentazione di Pagliarani» (Cortellessa 2019: 37), offrendo al lettore un’attenta campionatura delle liriche legate a specifici pittori o scultori – dalle collaborazioni con gli artisti di «Corrente» (Giuseppe Migneco e Alberto Casarotti) ai più celebri versi dedicati ad Achille Perilli, Giò Pomodoro e Toti Scialoja[2]. A partire dal decisivo riconoscimento del ruolo esercitato dall’«occhio»/ecfrasi, tutt’altro che ancillare rispetto al dominio di pertinenza della «voce»/performance, il contributo si propone di mappare alcune di queste tangenze intermediali in un arco cronologico compreso tra il 1954 e il 1965, con una particolare attenzione per la «lettera» indirizzata a Pomodoro.
All’inizio della parabola iconografica di Pagliarani il rapporto con l’immagine si attesta sul crinale dell’illustrazione, come si può facilmente desumere consultando le prime raccolte licenziate in una fattura editoriale più simile al libro d’artista che alla tradizionale silloge di poesia – a cominciare da Cronache e altre poesie, che esce per Schwarz nell’estate del 1954 con tre disegni di Migneco. Pagliarani aveva originariamente indicato il nome di Casarotti[3], pittore veronese che illustrerà, invece, Inventario privato, pubblicato all’inizio del 1959 con quaranta disegni dell’artista (Cortellessa 2019: 489-490).
Trattandosi di casi di illustrazione e non propriamente di ecfrasi, occorre rovesciare la prospettiva ermeneutica chiedendosi su quali aspetti della poesia di Pagliarani si focalizzi lo sguardo dei commentatori visivi. Il primo dato empiricamente deducibile è che i versi inaugurali del poeta intercettano la sensibilità plastica di pittori ascrivibili grosso modo al filone del realismo espressionista, animato da una sete ideologica di verità e di denuncia sociale. Il movimento milanese di «Corrente», infatti, si era opposto fieramente al formalismo prospettando, tra la fine degli anni Trenta e la metà degli anni Quaranta, un ideale di pittura mediato dai modelli eterogeneamente militanti di Delacroix, Picasso e degli espressionisti tedeschi, e dando vita a un’estetica fortemente intrisa di partecipazione politico-morale.
I pittori della ‘scuderia Pagliarani’ non si muovono sul terreno del nuclearismo, dell’astrattismo o dell’informale[4]; alla «nuova figurazione» fiancheggiata dalla Neoavanguardia, Pagliarani sembra opporre, inizialmente, una ‘figurazione militante’ di area guttusiana. Il neo-avanguardismo autre di Pagliarani, insomma, disvela la propria alterità anche attraverso la costellazione di artisti con i quali si trova materialmente a condividere i supporti editoriali. A una differenza di poetiche e di registro letterario si accompagna una lateralità figurativa altrettanto caratterizzante – se si pensa, ad esempio, allo scandalo impaginativo dei versi di Laborintus, accostati l’anno precedente a Girl’s Adventure di Paul Klee (1922) e all’Élan tempéré di Vasilij Kandinsky (1944) sulle pagine della rivista della Galleria Numero (Sanguineti 1952 e 1953)[5].
Nelle cornici visive che perimetrano le raccolte di Pagliarani non si intuisce, al contrario, alcuna filiazione diretta dalle avanguardie storiche rivendicate ostensivamente dal Gruppo 63[6]. Se si sfogliano le pagine di Inventario privato, lo sguardo incontra una galleria di ritratti femminili in forma di bozzetti realistici confezionati da Casarotti.
La focalizzazione univoca sulla «milanese signorina», Musa borghesizzata e inurbata, enfatizza la pregnanza del tu lirico e l’argomento sentimental-descrittivo di quello che è stato definito più volte un «canzoniere moderno» (cfr. Cepollaro 2015 e Donaera 2018: 24). Un canzoniere illustrato, potremmo aggiungere, dal momento che le silhouettes di Casarotti contribuiscono senza dubbio ad accentuare l’impressione di una raccolta «quasi interamente, e quasi sempre intensamente, attratta dal tema dell’amore» (Pedullà 1999: 186) – obliterando il determinismo ambientale e di classe su cui è modulata, invece, la fisionomia ‘proletaria’ della signorina, con le mani «provate sopra i tasti» (Pagliarani 2019: 91[7]) e il «marchio del pallore» (tp 92) come lombrosiano stigma dell’habitat-ufficio.
In Cronache e altre poesie il registro iconografico delle tre tavole di Migneco[8] virava, invece, verso un espressionismo marcatamente politico, reso quasi ridondante dalla centralità epica riservata ai ceti più umili e dalla predilezione accordata al «tipo» lukacsiano[9] e alla contestazione sociale esplicita.
E forse il lettore immaginerà inconsciamente così i «quadri dei pittori» che Aldo Lavagnino mostra alla ragazza Carla tra un «comizio» e («più di rado») un film (tp 134)[10], in una modellizzazione dell’arte inscindibile dai ‘piani quinquennali’ della cultura. Un ethos figurativo, insomma, entro cui si realizza coerentemente quella «coincidenza di etica ed estetica» ravvisabile nelle prime prove di Pagliarani (Giorgino 2018: 110).
Ad attirare l’attenzione dei primi illustratori è, dunque, la dicibilità nel trattamento dei contenuti, una sorta di ossimorico ‘sperimentalismo realista’[11] veicolato da un lessico meno astratto e fumoso rispetto ai virtuosismi dei neoavanguardisti[12], ma, al contempo, aperto alle nuove strutture linguistiche della contemporaneità. A questo proposito, è interessante leggere un frammento di una lettera inviata dal pittore Ennio Calabria dopo una delle serate letterarie organizzate presso la «Casa della cultura», in cui vengono sintetizzate efficacemente alcune direttrici stilistiche denotative della prima fase:
Ciò che mi interessa della sua poesia è la capacità di condensare nella lettura “orizzontale” – per dirla con Giuliani – contenuti di densità “verticale”. La capacità di trovare la scorciatoia più rapida fra cultura e fenomeni della realtà. [...] La sua poesia mi pare urli (molto di più di altre poesie) per farsi sentire e quindi l’espressionismo non è un fine ma un mezzo. Così pure i contenuti [...] sono assunti dalla cronaca unicamente perché lei intuisce che occorre discutere sui temi che la gente ci commissiona e non sul “sesso degli angeli”. [...] Gentile Pagliarani perdoni l’approssimazione. Era per dirle la mia stima e che come pittore seguo una strada parallela[13].
Questo stralcio permette di individuare schematicamente i due vettori primari del coinvolgimento manifestato dagli artisti di fronte alle prime prove editoriali di Pagliarani – l’espressionismo e lo stile ‘medio’, ingredienti parimenti necessari a gettare un ponte diretto tra «cultura e fenomeni della realtà».
Si tratta di una postura visuale che conferma (se non, addirittura, esaspera) quella forma di neo-avanguardismo eccentrico e “moderato” entro cui la critica ha spesso collocato le prime raccolte di Pagliarani, etichettandolo come una sorta di ‘semi-novissimo’ non pienamente guarito dalla febbre neorealista[14]. Questo imprinting di sperimentalismo attenuato non può non passare anche dalla cornice illustrativa e visuale che ha accompagnato la divulgazione pubblica delle due sillogi, in una partigianeria figurativa destinata presto ad aggiornare la propria scommessa puntando sui giovani (e spregiudicati) pittori romani.
2. Achille Perilli e Toti Scialoja: un omaggio ‘grammaticale’ a Piazza del Popolo
Con il trasferimento a Roma, nel novembre del 1960, per lavorare presso la redazione centrale dell’«Avanti!», nel tracciato delle frequentazioni artistiche di Pagliarani si registra un’inversione repentina di rotta, che porterà il poeta a ‘tradire’ l’engagement di «Corrente» per avvicinarsi ad alcuni pittori più apertamente sperimentali. Come racconterà lo stesso Pagliarani trent’anni dopo, il gruppo che viene a costituirsi «aveva una ricchezza particolare: era misto, interdisciplinare per caso; c’era intanto un equilibrio fra pittori e scrittori, e chi coltivava gli interessi più vari, dall’architettura alla musica» (Pagliarani 1991a, cit. in Cortellessa 2019: 495).
Le intersezioni con gli artisti romani sono veicolate da due canali preferenziali: gli eventi teatrali e performativi[15], da un lato, e la rivista «Grammatica», dall’altro. Nel primo caso, è doveroso segnalare, naturalmente, Pelle d’asino – il «grottesco per musica» apparso sul «verri» nel 1963 (Giuliani, Pagliarani 1963) e pubblicato l’anno successivo per le edizioni All’insegna del pesce d’oro, con cinque disegni di Gastone Novelli (Giuliani, Pagliarani, 1964).

Pelle d’asino assumerà poi le sembianze di un copione teatrale presentato al pubblico nel febbraio del 1965, con materiali scenici di Novelli e regia di Mario Ricci[16]. Il teatro dei Novissimi si conferma il luogo in cui, oltre alle specifiche pièces, viene messo in scena il più generale spettacolo dell’interdisciplinarietà. Come si legge in un intervento di Giuliani, infatti, il comun denominatore delle esperienze teatrali neoavanguardiste «è che la funzione teatrale implica fin dalla concezione l’intervento del pittore e del musicista e del coreografo. Le corrispondenze tra i Novissimi e i loro amici pittori e musicisti sono anch’esse un frutto naturale della comunione di impulsi che oggi esiste in Italia tra gli artisti d’avanguardia»[17].
In questa triangolazione di testo, disegni e performance, tuttavia, il collante tra i diversi Media appare più congiunturale che effettivamente denotativo di un progetto plurale[18]. L’impressione è che, ad una sostanziale poligenesi dei materiali, corrisponda una comunanza di programmi culturali in grado di saldare, soltanto a posteriori, la coerenza del prodotto artistico[19]. I testi dedicati ai ‘co-operatori’ romani, pertanto, si muovono sul territorio di pertinenza dell’occasione, attestandosi come fenomeni di un dialogismo che non costituisce, per Pagliarani, una mera questione di genere narrativo, ma che viene a rappresentare en abîme l’approccio pluralista alle arti di un’intera generazione sperimentale. All’insegna di queste stesse confluenze extra-testuali si può interpretare l’inclusione dei versi di Oggetti e argomenti per una disperazione nello spazio miscellaneo di Che cosa si può dire, volume che raccoglie due lettere in versi di Giuliani e Pagliarani e quattro litografie di Novelli e Perilli (Giuliani, Novelli, Pagliarani, Perilli 1963)[20]. Nei casi qui menzionati le arti plastiche assumono importanza in qualità di ‘reagenti’ interdisciplinari che, assieme alla musica e alla recitazione, creano le premesse per qualsiasi manifestazione culturale che voglia dirsi absolument (post)moderne.
Una seconda forma di avvicinamento ai cantieri sperimentali della capitale si avrà con l’esperienza di «Grammatica»[21] – la rivista fondata nel 1964 da Alfredo Giuliani, Giorgio Manganelli, Gastone Novelli e Achille Perilli. Già nel primo numero fa capolino il nome di Pagliarani, con la poesia intitolata Come alla luna l’alone («Grammatica», 1, 1964, pp. 19-20; ora in tp 162-166) – dedicata ad Achille Perilli[22] e seguita, come ha evidenziato opportunamente Cortellessa, da «un singolarissimo “fumetto”» realizzato dall’artista stesso «sulle parole della poesia» (Cortellessa 2019: 498)[23]. I disegni perilliani si concentrano sui vv. 29-46 (tp 163-164), relativi alla repressione dei moti milanesi da parte di Bava Beccaris (1898) che «sperimentò gli effetti del cannone sulla gente».

A differenza di Dalle negazioni, in cui, come vedremo, il nome di Giò Pomodoro è invocato in qualità di pittore e a partire da una precisa occasione allestitiva, qui Perilli viene chiamato in causa come interlocutore politico («tu lo sapevi Achille che alla stessa data | ci fu da noi a Torino una Comune», tp 162, vv. 9-10). Perilli e Pagliarani sono nati entrambi nel 1927 e il pretesto anagrafico è funzionale a parlare di ciò che accadde a «Torino nel ’17» (ivi, p. 163, v. 21) – ossia, come recita l’incipit, «dieci anni prima che nascessimo» (ivi, p. 162, v. 1). I cosiddetti moti di Torino furono causati da un ritardo nell’approvvigionamento della farina che agì come innesco per la detonazione di un’insofferenza a lungo covata dagli strati sociali più poveri («chi dice | che chiedevano pane chi dice rivoluzione», ibidem, vv. 13-14). Pertanto, i tumulti milanesi e quelli torinesi sono affratellati da una medesima causa materiale (la mancanza di pane) e da un epilogo tragico – la sanguinosa repressione dei reparti polizieschi. Nei versi illustrati da Perilli si trova anche un riferimento alla figura dell’anarchico Gaetano Bresci che, dall’America (ivi, p. 163, v. 34), era tornato in Italia per uccidere il re Umberto I – omicidio per il quale «si prese l’ergastolo» nonché «molte canzoni dai cantastorie» (ivi, p. 164, vv. 45-46)[24]. L’apostrofe a Perilli si conclude significativamente con il motto «la tradizione anarchica è fresca», siglando una conversazione a due su temi prioritariamente politici. A una dedica apparentemente plastica non corrisponde, in questo caso, una scrittura ecfrastica o descrittiva ma piuttosto un’interrogazione dialogica sui destini del pensiero anarchico[25]. Il referente figurativo, tuttavia, non viene completamente obliterato, dal momento che Perilli non soltanto aveva firmato un lavoro intitolato Lacrime per l’anarchia (tecnica mista su carta, 42 x 54,5 cm, 1957), ma, soprattutto, realizzerà un’Allegoria per Bresci (collezione privata, 220 x 180 cm, 1965; Courtesy Archivio Achille Perilli, Orvieto).

Nelle opere offerte in questa fase agli artisti è come se Pagliarani rispondesse ad alcuni contenuti anche iconografici, ma trasferendoli subito sul piano di un colloquio scientifico-filosofico sui destini generali dell’ideologia[26].
A Toti Scialoja, artista parimenti legato alle vicende sperimentali dei Novissimi[27], è dedicata la seconda sezione del Dittico della merce (Certificato di sopravvivenza) composta nel 1965 (tp 185-187)[28]. In questo testo, come ha suggerito Gianluca Rizzo, Pagliarani «in an oblique and fragmented way discusses issues of poetics and its relation with politics» (Rizzo 2020: 401-402), in una prassi versificatoria estremamente simile a quella adottata nella prima sezione della Lezione. In questa ‘lettera ad honorem’, tuttavia, la politica intesa come cronaca e come puntuale appiglio storiografico viene sostituita da un meta-discorso sul rapporto tra l’arte e il presente. Alla militanza ideologica subentra un attivismo estetico altrettanto veemente, che consente di contestualizzare la lettera riportandola con i piedi nel dibattito culturale di quegli anni e mettendo in tensione gli scritti coevi di Scialoja con i versi di Pagliarani. In particolare, in un’intervista a Nello Ponente pubblicata su «Marcatrè» nel luglio del 1964, Scialoja affermava (bergsonianamente) che i propri quadri si basavano su «un’idea del tempo come fluenza interiore e soggettiva», un «tempo della coscienza»[29] che rifiuta assertivamente qualsiasi commercio con «il tempo del cronometro, il tempo meccanico» (Scialoja 1964: 250). Sarà più facile comprendere, pertanto, l’intimazione di Pagliarani a «non dire anche tu che l’arte non c’entra col tempo | quando è uno dei modi del tempo» (tp 185, vv. 13-14). Il parallelismo con questa intervista sembra confermato dal fatto che, nei versi immediatamente precedenti, Pagliarani asseriva che l’arte «è saltare è saltare è saltare» – laddove Scialoja aveva spiegato a Ponente come il significato del proprio «racconto» si affidasse «al salto tra una prima e una seconda, tra una seconda e una terza impronta, e alla durata di questo salto o pausa» (Scialoja 1964: 250; i corsivi sono miei). Setacciando con zelo documentario i cataloghi e le dichiarazioni rilasciate da Scialoja tra 1964 e 1965 si potrebbe, con ogni probabilità, proseguire il gioco di allusioni criptate e di micro-risposte serrate messo in campo da Pagliarani di fronte ai nomi della cultura italiana scelti come destinatari di questo canzoniere responsivo. Le «lettere», insomma, assolvono indubitabilmente la funzione di «poemi conversazione», ma una conversazione fortemente ancorata al dibattito che gli operatori culturali stavano portando parallelamente avanti, tra cataloghi e riviste militanti.
A conferma della felice congiuntura tra teatro e poesia, bisogna peraltro ricordare che, proprio nel giugno del 1965, al Teatro Parioli veniva messa in scena dalla compagnia «Teatro dei Novissimi» La merce esclusa, con scene e costumi ideati dallo stesso Scialoja (cfr. Pagliarani 2013: 263), in una corrispondenza quasi biunivoca tra calendario culturale e ‘rubrica’ dei dedicatari.
Oltre al teatro e a «Grammatica» non mancano, infine, gli incroci squisitamente pittorici – per quanto vincolati agli stessi circuiti romani. Si pensi, ad esempio, al catalogo della mostra 13 pittori a Roma, allestita alla Galleria La Tartaruga nel febbraio del 1963. Qui i versi di Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti, Antonio Porta, Alfredo Giuliani e Cesare Vivaldi e, per l’appunto, Pagliarani si alternano a opere di artisti come Giosetta Fioroni, Franco Angeli, Gastone Novelli, Achille Perilli e Cy Twombly, in una coabitazione tra poetiche novissime ed esiti figurativi che caratterizzerà anche altre iniziative editoriali coeve[30].
In veste di critico d’arte, inoltre, Pagliarani firmerà un intervento destinato a comparire sul catalogo della personale di Gastone Novelli ospitata nelle sale della Galleria Marlborough nel novembre del 1966 (Novelli 1966, s. n.). Le pagine confezionate per l’amico artista acquistano ulteriore rilievo se considerate da una prospettiva metapoetica. La mostra di Novelli diventa, infatti, un’occasione privilegiata per stilare un breve manifesto di estetica – come si può verificare, in particolare, leggendo la riflessione incipitaria sul rapporto (apparentemente ossimorico) tra gratuità dell’arte e mandato sociale dell’operatore culturale. Declinando il discorso al plurale, Pagliarani inaugura la presentazione sottolineando la necessità di fondare «un libero, non pedantesco, non precettistico ma insonne e divertente sperimentalismo», entro cui «valga più la fantasia della precettistica, l’errore della formula». La libertà dell’artista si traduce nel lusso di non far tornare i conti, giacché, mentre «i meccanici e i costruttori, protagonisti dell’attuale grandezza, non possono permettersi di sbagliare, noi giullari ai margini, sì». Il poeta costruisce l’argomentazione successiva adottando l’espediente combinatorio dell’iterazione alfabetica. Attorno alla lettera «G», infatti, vengono allineate una serie di parole chiave («gioco», «gratuito», «grazia» e «gioia») indagate nel loro continuo intrecciarsi con i temi dell’eversione politica. Pagliarani istituisce una dialettica tra felice «gratuità» del gesto estetico e urgenza di un impatto etico sulla collettività, in una modellizzazione teorica piuttosto simile ad alcune soluzioni adottate parallelamente dal poeta stesso in campo letterario. Nell’analizzare, ad esempio, Per una rivoluzione permanente (per Lev Trotzky) (tecnica mista su tela, 200,5 x 361,3 cm, 1965; Courtesy Archivio Gastone Novelli)

riprodotto nella pagina immediatamente successiva, Pagliarani registra come l’aspirazione alla gioia, implicita in tutti i disegni di Novelli, sia destinata a convivere con un’ombra tragica fino a quando incomberà sull’uomo questa (sveviana) «scienza delle esplosioni, fin che ci sarà un solo morto per fame o napalm nel mondo». Senza una rivoluzione della vita associata nessuno sperimentalismo potrà dirsi compiutamente libero – e dunque ‘gioioso’. L’arte rappresenta il bisogno di «progettare la gioia», che diventa tanto più improcrastinabile quanto più «premono i mostri» della storia e della sopraffazione di classe. In questa pagina di critica d’arte, Pagliarani incastona, infine, un riferimento ad Ascanio Sobrero, il chimico italiano che ha scoperto la nitroglicerina e la sua azione potentemente esplosiva. Dopo aver discusso di problemi plastici e ideologici, Pagliarani sembra inserire ex abrupto una sezione in cui racconta diffusamente di come lo scienziato avesse iniziato a «occuparsi della nitrazione dei composti organici nel laboratorio di Pelouze a Parigi», spiegando che Sobrero si era originariamente concentrato su tre polialcoli (zucchero, mannite e glicerina) e menzionando addirittura il primo studio intitolato Nota sullo zucchero fulminante. Sur la mannite nitrique et son emploi dans l’art de la guerre (1847). Il frammento acquisisce un significato strutturale nel parallelismo conclusivo tra scienziati e poeti («mentre progettavano le loro misure di luce, anche allora premevano dei mostri»), in una circuitazione tra arte e scienza che ci porterebbe a considerare il testo una sorta di lezione di fisica in prosa.
Per quanto sia fitta la rete dei contatti materiali con i pittori romani[31], le occorrenze campionate finora si rivelano più simili ad ‘accidenti’ contestuali che a collaborazioni fattivamente operative. Si potrebbe azzardare conclusivamente che l’interdisciplinarietà, per Pagliarani, sia stata quasi una conseguenza collaterale di quell’effetto Roma[32] sperimentato da diversi intellettuali confluiti in quello che Alberto Arbasino definirà, nel 1966, un «aeroporto intercontinentale della pittura» (Arbasino 1966), in cui l’ibridazione disciplinare funzionava come biglietto di sola andata per fuggire dal provincialismo delle periferie italiane.
3. Dalle negazioni: una «lezione» per Giò Pomodoro
Com’è noto, Lezione di fisica (tp 158-161) esce nel maggio del 1964 con copertina di Giò Pomodoro[33], all’interno della collana «Poesia novissima» – in cinquecento copie numerate da 1 a 500, più cinquanta copie numerate da i a l contenenti un’incisione originale firmata da Pomodoro. Per utilizzare la calzante definizione di Umberto Eco, la quarta raccolta di Pagliarani rappresenta un collage eterogeneo che assume «a materiale ed oggetto del discorso poetico [...] un magazzino di dati culturali, di riflessioni di lettura, problemi ideologici» (Eco 2017: 33-35). Una simile porosità interdisciplinare è agilmente dimostrabile anche soltanto elencando nominalmente i destinatari delle «lettere» – due poeti (Franco Fortini e Alfredo Giuliani), ma anche un critico musicale (Luigi Pestalozza) e ben due pittori, a cui sono dedicate, rispettivamente, Dalle negazioni («a Giò Pomodoro»; tp 158-161) e Come alla luna l’alone («ad Achille Perilli»; ivi, pp. 162-166), entrambe recanti la data d’autore del 1964. L’inventario professionale dei destinatari omaggiati da Pagliarani ricalca l’assetto disciplinarmente composito delle riviste-vetrina della Neoavanguardia (da «Marcatrè» alla già citata «Grammatica»), in un tentativo generazionale di proporre una novissima convergenza tra le arti (in particolare letteratura, musica e pittura) e le scienze sociali. Se si considera anche il summenzionato Certificato di sopravvivenza («a Toti Scialoja») confluito nell’edizione definitiva di Lezione di fisica & Fecaloro (Pagliarani 1968), si comprende ancora meglio il motivo (di ordine quantitativo ma anche propriamente poetologico) per cui Cortellessa ha definito questa silloge il «libro più “per l’occhio”» (Cortellessa 2019: 495) dell’intera produzione del poeta.
Per esaurire bibliograficamente il rapporto Pagliarani-Pomodoro, un’ulteriore traccia documentaria è attestata, l’anno successivo, in una plaquette (nuovamente a tiratura limitata – 24 esemplari numerati e firmati) che comprende Acqueforti di Giò Pomodoro, poesie di Gianni Novak e, per l’appunto, Casa serena di Pagliarani (Pomodoro 1965) – che verrà poi inclusa in Lezione di fisica & Fecaloro (Pagliarani, 1968). Difficile stabilire se si tratti di una versione trasformata e ridimensionata di una collaborazione proposta da Giò Pomodoro in una lettera del 15 febbraio 1965[34], in cui l’artista accennava a un «piccolo libretto» che avrebbe dovuto racchiudere 6 incisioni accompagnate da 6 poesie di Pagliarani, Novak, Giuliani, Gabriella Drudi e Gaetano Testa. Per il sesto nome, Pomodoro aveva chiesto un consiglio a Pagliarani – pur suggerendo una generica preferenza «per Tagliaferri». Il titolo previsto per le pagine della cartella (di dimensione rettangolare, 28 x 22 cm) era 24 lettere «come quelle dell’alfabeto», da stampare in 24 esemplari. La richiesta viene avanzata con impellenza da Pomodoro («ho grande urgenza dei testi, in quanto lo stampatore sta preparando il tutto»), con la promessa di una copia omaggio – «fuori commercio e straordinaria» – per tutti i poeti coinvolti. Di questa plaquette non è rimasta traccia, e soltanto il binomio Novak-Pagliarani potrebbe suggerire una parentela editoriale tra il libro fantasma e la plaquette collettanea del 1965.
Un ultimo progetto che prevedesse la partecipazione di Pomodoro si può congetturare sulla base di una lettera inviata da Gilberto Finzi il 9 giugno 1965, in cui l’intellettuale scriveva a Pagliarani:
Per una cartella di litografie di Giò Pomodoro sono state chieste all’amico Floreanini poesie inedite. Saranno presenti, con una poesia ciascuno – oltre a me – Cesarano e Raboni, e forse qualche altro. Mi farebbe piacere (cioè, non solo a me, a tutti quanti) che ci fossi anche tu. Se vuoi aderire, tieni presente che si preferiscono poesie ‘impegnate’ (naturalmente in un’accezione piuttosto aperta del termine) e che la cosa è parecchio urgente[35].
Anche di una simile edizione non si fa cenno in alcuna bibliografia ufficiale; la maggiore prossimità nominale si può istituire con la cartella d’arte intitolata Vicende dell’oro[36], stampata lo stesso anno in 54 esemplari da Dino Zuffi e comprendente poesie di Roberto Roversi, Vittorio Sereni e Marcello Pirro, oltre a quelle, per l’appunto, di Cesarano e Pagliarani (ma non di Finzi e Raboni). Le litografie, tuttavia, non furono realizzate da Pomodoro bensì da altri artisti – tra cui Vasco Bendini e Giuseppe Zigaina –, in un singolare remix nominale.
Esaurito il perimetro delle intersezioni risalenti agli anni 1963-1965, mi concentrerò precipuamente sul testo di Dalle negazioni, che, prima di comparire sul «verri» nell’ottobre del 1964 (a. viii, n. 13, pp. 55-58), verrà presentato alcuni prima in un’elegante cartella edita da Giorgio Upiglio e Vanni Scheiwiller con quindici acqueforti di Giò Pomodoro – per un totale di venti copie numerate in cifre arabe e cinque copie (da i a v) riservate all’autore e fuori commercio (Pagliarani, Pomodoro 1964).
Il commento in versi era stato richiesto dall’artista stesso, come apprendiamo dalla prima pagina della cartella in cui Pomodoro precisa di aver inciso le lastre per questa cartella a Firenze, la mia città d’elezione nella primavera del 1963, con l’assistenza tecnica del pittore Giulietti[37]. Il “recitativo” del poeta Elio Pagliarani è stato da questi composto, più tardi, a conferma del nostro “incontro” romano, nel Gennaio di quest’anno. Mi auguro che questo sodalizio abbia a durare e sia estendibile in futuro per una valida cooperazione fra gli artisti, intesa a costituire un “reale” gruppo di individui operanti.
Una simile dichiarazione sembra confermare l’impressione complessiva di un coinvolgimento esterno di Pagliarani nelle faccende visive, come se fossero le contingenze (teatrali, editoriali o espositive) a scandire la rassegna dei destinatari.
Per avvicinare i contenuti della «lettera» è opportuno interrogarsi, in primo luogo, sulla titolatura. È senz’altro vero, come ha sostenuto Vincenzo Frungillo, che con il tema della «negazione» Pagliarani cercasse di «rispondere ancora a Fortini sulla questione della “negazione radicale”», impostando il testo in bilico tra l’occasione ecfrastica e il quadro macrotestuale delle altre lettere (Frungillo 2016)[38]. Effettivamente lo spettro di Fortini, evocato al v. 14 («è provato mi ha detto Fortini che Kruscev ha pianto», tp 158), aleggia sull’atmosfera semantica dell’intero componimento. Per contestualizzare ulteriormente il titolo scelto da Pagliarani, si dovrebbe poi risalire genealogicamente, come ha suggerito Federico Fastelli, fino alla «negazione montaliana» allusa nel finale (Fastelli 2012: 464).
Oltre a queste indubitabili geniture letterarie, tuttavia, il rovello della «negazione» potrebbe in parte essere debitore dell’insistenza di Pomodoro sulla «tecnica del negativo» che a partire dal 1958, come riferirà in un’intervista a Luce Hoctin (Pomodoro 1964, s. n.), rappresentava ai suoi occhi lo strumento più adatto per giungere a «una stratificazione e a una strutturazione dei segni» in cui l’universo antropico e quello sensitivo trovassero una forma di coabitazione sub specie artis («Il mondo della tecnica e dell’uomo non solo lo amo, ma nemmeno lo contrappongo a quello della natura: sono due macchine che funzionano, anche se in modo diverso, e possono coesistere [...]. L’Apollo di Milo era già un astronauta»[39]).
La correlazione tra negazione e scienza si inserisce, a buon diritto, nell’ordine dei problemi generali isolati da Pagliarani nell’intera Lezione di fisica – anche se, nei «recitativi», gli inneschi non si escludono ma, al contrario, si correggono e si completano vicendevolmente. L’accostamento di suggestioni (disciplinari e citazionistiche) eterogenee nasce dall’urgenza di trasferire «nel discorso poetico le contraddizioni presenti nel linguaggio di classe, adoperando un materiale lessicale plurilinguistico» (cit. in tp 460). In questo senso, anche Dalle negazioni non si sottrae alla struttura formale delle «lezioni», costruite sulla giustapposizione di una serie di ‘ante’ gergali e specialistiche che vengono a comporre un’ideale pala intermediale. La poesia dedicata a Pomodoro presenta addirittura, come spiega lo stesso Pagliarani nelle Note d’autore, un segmento trascritto[40] da Sintassi logica del linguaggio di Rudolf Carnap (Carnap 1961: 266-267). A questo punto è lecito domandarsi (come, del resto, in tutte le altre «lettere» della raccolta) in quale misura – e, a livello statistico, con quale incidenza – il dedicatario diventi dirimente per comprendere il funzionamento del testo.
Partiamo dalla sezione immediatamente individuabile come ‘ecfrastica’; utilizzo l’aggettivo prudenzialmente virgolettato perché, in realtà, non si tratta di una descrizione o ri-creazione letteraria di specifici oggetti plastici[41]. Le opere di Pomodoro vengono, sì, menzionate in senso inventariale («Matrice uno, Matrice tre, Grande Bandiera | per Vladimiro, Folla, Folla, Frattura, Grande Frattura», tp 161, vv. 65-57),

ma le segnalazioni nominali funzionano alla stregua della porzione di testo prelevata dal volume carnappiano – ossia come forme di citazionismo e di testualità autre. Il segmento smaccatamente mimetico si rivela, pertanto, il più distante da un effettivo dialogo con lo stile plastico dello scultore – sebbene consenta di rintracciare uno degli spunti storiografici della poesia. La «mostra | nel nome dei costruttori» (vv. 64-65), infatti, allude con ogni probabilità all’esposizione allestita presso la Galleria Marlborough di Roma nel gennaio-febbraio del 1964 (Pomodoro 1964, s. n.).

Nel catalogo, oltre alla riproduzione puntuale di tutte le opere registrate da Pagliarani[42], si ritrova un’eloquente epigrafe in apertura dell’opuscolo, che recita «“Questa mia prima personale a Roma è dedicata ai Costruttori”. Giò Pomodoro – gennaio 1964».
Nel primo foglio della plaquette, peraltro, viene trascritto un frammento di Ordinanza n° 3 di Vladimir Majakovskij (Majakovskij 1963: 178) che si conclude con i seguenti versi:
Miei cari Nadson,
non è per gelosia,
che al di sopra della vostra schiera
alzo
questo
mio
edificio di parole
Io voglio mettermi
tra le file degli Edison,
con i Lenin in fila,
nelle file degli Einstein.
Il testo – che appartiene al poema La quinta internazionale (1922) – è un inno alla militanza (e alla poesia) tecnologica, in cui progresso e rivoluzione, Einstein e Lenin, rappresentano i due elementi essenziali per fabbricare un oggetto d’arte in grado di comunicare e provocare il presente. L’intersezione tra scienza ed estetica risuona decisamente familiare al lettore delle «lezioni»; qui infatti – come è stato più volte osservato dalla critica – i prestiti dal lessico e dall’immaginario della fisica svolgono una funzione dirompentemente sperimentale, in una declinazione originale del plurilinguismo neoavanguardista. Il modello majakovskijano era ben presente all’attenzione di Pagliarani, che lo nominerà accanto a Brecht in un fascicolo della «Fiera letteraria» dove, come puntualizza Cortellessa, il poeta rivendicherà la propria «genealogia» letteraria (Cortellessa 2019: 24)[43].
Il catalogo del 1964, pertanto, potrebbe essere stato scelto da Pagliarani all’insegna di una consonanza ideologica più ampia, che intercetta i presupposti stessi dell’operare artistico. Per proseguire con la campionatura delle affinità che legano catalogo e poesia, all’interno della già citata intervista a Hoctin pubblicata in questa sede, Pomodoro afferma di appartenere «alla schiera dei Lucrezio, Darwin, Leger, Majakovski, Marx, Galileo e dei Kennedy» – quest’ultimo, forse non casualmente, nominato anche da Pagliarani ai vv. 15-16 («[...] l’assassinio di Kennedy, e quanta luce su Kennedy | specchiato nella sua sorte», tp 158)[44]. Oltre al cenno riportato incidentalmente nell’intervista, presso la Galleria Marlborough era stata esposta un’opera intitolata Ken!... America, America! (tav. 20; bronzo, 65 x 61 cm, 1963),

con la precisazione didascalica che «questa scultura è stata eseguita in memoria di Kennedy».
Simili affioramenti possono forse aiutare a inquadrare il «recitativo» di Pagliarani – anche se, come vedremo a breve, sarà proprio una lettera (reale) a illuminare un ultimo tassello tematico della «lettera» (in versi). Presso l’Archivio Pagliarani, infatti, sono conservate quattro epistole e una cartolina inviate da Giò Pomodoro in un arco cronologico compreso tra l’inverno del 1964 e l’estate del 1967. Per ricostruire alcuni snodi concettuali della «lezione» pagliaraniana, si rivela di estrema importanza la lettera datata «24/2/64»[45] – antecedente, pertanto, all’uscita della Lezione di fisica, che vedrà la luce nel mese di maggio.
In particolare, l’epistola è utile a rischiarare alcune aree del testo, dal momento che si tratta, con ogni probabilità, dell’antefatto discorsivo o della risposta diretta ai versi inoltrati ‘in anteprima’ dal poeta[46]. A partire dalla terza riga, infatti, Pomodoro spiega in cinque brevi paragrafi il proprio «no su Michelangelo» – e, significativamente, l’incipit di Dalle negazioni reciterà, per l’appunto, «No a Michelangelo», ripreso circolarmente al penultimo verso (tp 158 e 161). La trattazione viene impostata come se si trattasse del prosieguo scritto di una conversazione orale – avvenuta, forse, in occasione di una visita di Pagliarani alla mostra della Galleria Marlborough, allestita proprio nei mesi di gennaio e febbraio. Al punto d), ad esempio, Pomodoro asserisce che Michelangelo «fu gran maestro di quella “retorica”[47] di cui ci siamo intesi a parlare», sottintendendo chiaramente un dibattito pregresso poi incanalato nello spazio della corrispondenza epistolare.
A metà della lettera si incontrano alcuni interrogativi di matrice scientifica vicini all’ossatura argomentativa della Lezione; a partire da un rovello esistenziale («io non so qual è il processo per cui si possa essere indispensabili, o diventarlo»), Pomodoro si chiede se il divenire necessario (di un’idea o di una poetica) non sia forse «una coincidenza sottoposta a leggi di probabilità» – e, nel caso, se la cibernetica possa «consolarci» oppure se esistano dei balestriniani «calcolatori» elettronici (novelle «PIZZIE») in grado di dissipare i dubbi. A conferma di questo incalzante botta e risposta si può citare anche l’insistenza di Pomodoro sulla frase «“un uomo solo vale poco”» – sulla cui validità l’artista si interroga nell’incipit dell’epistola e, nuovamente, nell’ambito di questa enumerazione di problemi a cavallo tra tecnologia, arte e società. La locuzione virgolettata sembrerebbe rispondere intertestualmente ai versi della «lezione» indirizzata a Fortini («e un essere solo | non è mai forte, né può amare o misurare l’intelletto. | Pensa che avevo scritto un uomo solo | poi con rigore ho cancellato l’uomo | per un essere», tp 146, vv. 68-72; i corsivi sono miei), uscita su «Nuova Corrente» nell’estate del 1961.
Per tornare al focus michelangiolesco, in alcuni luoghi della lettera Pomodoro imputa a Michelangelo il difetto di essere sfacciatamente moderno – come viene chiarito eloquentemente al punto c), laddove Pomodoro desume che il suo magistero «forse ci dà fastidio quel tanto di ritratto anticipato di quel che siamo noi oggi». Peraltro, proprio nel 1964 – in concomitanza con le celebrazioni per il centenario – erano state organizzate molteplici iniziative, la più discussa delle quali fu la mostra Michelangelo 1964, inaugurata il 23 febbraio nei saloni di Palazzo delle Esposizioni, con il coordinamento di Bruno Zevi e Paolo Portoghesi. L’allestimento e i variegati eventi parallelamente pianificati avevano infiammato una polemica capillare relativa all’attualità dell’arte di Michelangelo[48], che potrebbe costituire lo sfondo discorsivo implicito nella querelle di Pomodoro.
Del resto, il rapporto con l’odiosamato precursore («abbiamo iniziato dove lui aveva finito e ci apprestiamo a finire dove al contrario aveva iniziato») vena l’intera epistola, cadenzata da un’ossessiva scansione della propria «negazione», su cui l’artista insiste «per motivare il no, che non sia un no pistola e irrispettoso delle fatiche altrui, un no di noi che ancora porte non ne abbiamo fatte, e il farle sul non farle è assai più importante, e averle fatte non difende dal committente, No di certo»[49]. Pomodoro allude, naturalmente, al progetto di Porta Pia, affidato a Michelangelo da papa Pio IV nel 1561[50]. Non sarà casuale rilevare come Pagliarani faccia riferimento, nella propria epistola in versi, alla «follia puntuale di un artigiano senza committente» (ivi, v. 63), in una simmetria quasi interlineare con l’ipotesto della conversazione avuta con Pomodoro e parzialmente ricostruibile grazie alla lettera riprodotta in questa sede[51]. Il genere della «poesia come conversazione» (Curi 1968: 26) sembra qui estremizzarsi in una sorta di ‘conversazione come poesia’, inverando il proposito autoriale di essersi servito dell’impianto epistolare «perché postulando, in teoria, risposta, cioè un prosieguo di discorso, permette di lasciare impregiudicate quelle conclusioni che non so o non mi sembra possibile trarre ora» (tp 202)[52]. Nel rispondere all’interlocutore, Pagliarani ‘risponde’ simultaneamente al contesto culturale forse più intrinsecamente dialogico della contemporaneità letteraria italiana, assicurando alla Lezione di fisica un imprescindibile valore di documento per registrare la temperatura del dibattito coevo – legato alla specificità di uno scadenzario culturale pervasivo.
A mo’ di conclusione e, simultaneamente, di ipotesi per il futuro, si potrebbe asserire che la categoria di «visività» si rivela paradossalmente più operativa fuori dalla cornice delle poesie esplicitamente dedicate ad artisti – scaturite spesso da ‘una serie di fortunati eventi’ contestuali piuttosto che da una precisa volontà di appropriarsi ecfrasticamente di un determinato oggetto artistico o di una poetica figurativa percepita come affine. Nel campo squisitamente letterario della diegesi andrà dunque ricercato l’autentico filtro scopico della poesia di Pagliarani – e la storia di queste nature morte metropolitane è ancora tutta da scrivere[53].
Appendice
Si riproduce qui, per gentile concessione della Fondazione Giò Pomodoro, la lettera indirizzata dall’artista a Elio Pagliarani il giorno «24/2/64». Per facilitare la lettura, si è scelto di presentare in coda anche una trascrizione integrale del testo[54].
Trascrizione
24/2/64
Caro Elio,
sono ben felice per l’Annuncio.
E “un uomo solo vale poco” si fa friggere.
Ma quanto al no su Michelangelo:
a) nella Cappella Medici a S. Lorenzo c’è una “freddezza” che non è quella del marmo, caro Elio!
b) A piazza del Popolo c’è quella porta che si vede anche dall’alto di S. Trinità, e da molte altre parti, che non è più l’arco di trionfo dei Cesari, ma ogni romano con un po’ di immaginazione potrebbe anche sentirsi un piccolo cesare, andando verso la maremma e i grandi Pini marittimi, e verso la Toscana. È una bella porta per uscire di casa!
c) Tu pensi di poterlo odiare e poi scopri che per quel verso per cui lo odi lui ha fatto e disfatto. Forse ci dà fastidio quel tanto di ritratto anticipato di quel che siamo noi oggi.
d) Fu grande maestro di quella “retorica” di cui ci siamo intesi a parlare. Ed era piuttosto giovane quando fece il bruto. Senz’altro sapeva cosa fu la repubblica romana, almeno quanto Machiavelli.
e) Si può odiare per ciò che ha distrutto di quel che lui stesso assieme a altri avevano costruito. Ma non è sempre con costanza assai felice che noi oggi pensiamo come ieri o come sarà domani, all’uomo. Noi sappiamo che ci sono tante classi ma una specie, e siamo ormai abituati a pensare a noi e non ai modelli. Abbiamo iniziato dove lui aveva finito e ci apprestiamo a finire dove al contrario aveva iniziato. Magari noi a denti stretti, caro Elio.
ATTENZIONE: “Le donne vanno e vengono per la stanza parlando di Michelangelo”. Tutto questo per motivare il no, che non sia un no pistola e irrispettoso delle fatiche altrui, un no di noi che ancora porte non ne abbiamo ancora fatte, e il farle sul non farle è assai più importante, e averle fatte non difende dal committente. No di certo.
Io non so qual è il processo per cui si possa essere indispensabili, o diventarlo.
Implica un processo laborioso, o è una coincidenza sottoposta a leggi di probabilità?
Abbiamo calcolatori elettronici che potrebbero darci questa risposta se interpellati?
La cibernetica può consolarci?
Mass-media – “un uomo solo vale poco”: fumetto!
Roy Lichtenstein, e Pop-pope?
Io penso e mi attardo sul discorso del “popolare” che passa sotto la porta di Piazza del Popolo.
Noi abbiamo i distributori, 4 marce e una folle.
C’è corrispettivo e corrispondenza parallela?
La porta della piazza del Popolo non è un tempio!
Quali sono i termini da fornire alla calcolatrice per il responso? In che modo occorre fornire la domanda alle nostre pizzie caro Elio?
Perché quelle di Balestrini a me non mi sfagiolano. E se è già così difficile come all’oracolo razionale, già condizionato da questa nostra confusione e smarrimento, potremo mai noi sapere, prima di fare, come si diventa, come si è indispensabili?
“Un uomo solo vale poco”. È vero o non è vero?
O sono soltanto un passatista?! Ma io so di certo che certi paesaggi non mi piacciono, certi paesaggi urbani milanesi, o a Colonia. So che non posso pensarmi in una casa alveare di Milano. Che la porta di piazza del Popolo è altra cosa.
Ed altra cosa l’uomo che ci passa sotto, che la usa. } Non puoi dubitare che io sia uomo.
Io sono diverso quando la uso
Le necessità non sono sogni, e per me la porta è una necessità. E nello stesso tempo il mio è un sogno se confronto la realtà con i miei bisogni. E i miei bisogni sono diversi da quelli di un imprenditore di una grande società immobiliare o da quelli di un operaio della Fiat?
Ma è proprio vero che la porta della piazza del Popolo non va bene per l’operaio della Fiat?
Ma l’armonia non è forse naturale come il disarmonico?
Ma mi spingo troppo in là, forse. A scoprirmi i fianchi, quando invece desidero solo essere molto semplicemente, e in tutta semplicità godere di un bel pezzo di donna, con belle caviglie e bei capelli e ondosi seni e grandi occhi, e svegliarmi molto tranquillo senza sospetti di violenza, caro Elio, che non mi serve cari amici, come ideali mutili, altra cosa dallo stare a tavola fra amici e trovare anche un sonno molto tranquillo, con le membra che si riposano per essersi mosse. Membra pacificate e merli chiassosi, una nozione che non è un dato, ma uno scorrere violento o pacifico del sangue verso il fallo.
Con amicizia
Giò
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[1] Cito la suggestiva definizione confezionata da Eugenio Battisti per presentare la neonata rivista «Marcatrè», che ambiva programmaticamente a diventare «un po’ la tavolata durante i congressi, o il fumoir del teatro (ma non certo il salotto letterario, dove tutto giunge di seconda mano e adulterato)» (Battisti 1963: 2).
[2] Per una ricognizione storiografica relativa a questi artisti, rimando all’ausilio delle schede approntate da Federico Fastelli per la piattaforma digitale «Verba Picta» (http://www.verbapicta.it).
[3] Una testimonianza dell’iniziale coinvolgimento di Casarotti, oltre ai ricordi di Pro-memoria a Liarosa (Pagliarani 2011: 237-238), si ritrova in una lettera s. d. conservata presso l’Archivio Pagliarani (d’ora in poi «ap») in cui l’artista, ringraziando Pagliarani per averlo designato come illustratore, dichiara di essere «molto lieto che finalmente ti sia deciso per la pubblicazione delle tue poesie (e non poesiole come modestamente vorresti far credere)» – alludendo, pertanto, alla prima apparizione editoriale e non già a Inventario privato (ap, Corrispondenze, busta 13, fasc. 46).
[4] Non è secondario precisare che, proprio nel 1959 – anno di pubblicazione di Inventario privato –, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti e Antonio Porta (ancora Leo Paolazzi) firmeranno il Manifeste de Naples fiancheggiando ufficialmente pittori come Enrico Baj, Mario Persico, Luca e Guido Biasi.
[5] Per un approfondimento dei legami tra Sanguineti e la Galleria Numero di Fiamma Vigo, cfr. soprattutto Manghetti 2003. Sui rapporti tra Novissimi e mac (Movimento d’Arte Concreta), si veda, invece, l’essenziale contributo di Milone 2013.
[6] Un’eccezione significativa a questo assunto si ritrova in un’indimenticabile pagina di «Azimuth» (Pagliarani 1959, s. n.), in cui i Frammenti dal Narciso di Pagliarani vengono impaginati assieme a Monogram di Robert Rauschenberg (1955-1959).
[7] D’ora in poi, per ragioni di praticità, si ricorrerà alla sigla «TP».
[8] Le tre illustrazioni sono visibili nella scheda realizzata da Fastelli all’indirizzo: http://www.verbapicta.it/dati/opere/cronache-e-altre-poesie. Per l’invio della riproduzione ad alta risoluzione, ringrazio la disponibilità e la gentilezza di Gianluca Trofei.
[9] Cfr. soprattutto la definizione formulata in Lukács 1950: 15. Ancora per i personaggi della Ragazza Carla Adriano Spatola parlerà di «figurine ritagliate da un bozzetto» (Spatola 1966: 99)
[10] Ed effettivamente apparterranno proprio a un «pittore espressionista» quei «quadri colorati nelle sale | dove l’ingresso è libero» (tp 137), in una sezione del poemetto in cui la visione repulsiva del contenuto pittorico («la Coscienza che si guarda le Mani | orribili, vestita solo di Calze nere fino all’inguine») viene sovraesposta e accostata dialetticamente alla scena successiva in cui la ragazza Carla impara a mettere il rossetto e prova «un paio di calze di nylon, finissime» (ivi, pp. 137-138).
[11] Di «realismo» ha parlato, ad esempio, Muzzioli 2002: 26, definendo la Ragazza Carla un «poemetto “realistico”». Ancor più puntuale si rivela il saggio sui Realismi di Pagliarani di Patrizi 2009: 23-24.
[12] Come asserirà efficacemente Walter Siti, «in Pagliarani c’è una sensibilità molto maggiore per la forza della tradizione rifiutata, per il potere che alcune forze tradizionali hanno assunto; c’è la volontà di condurre la lotta anche dall’interno» (Siti 1975: 97).
[13] Ap, Corrispondenze, busta 13, fasc. 38 (s.d.). Ringrazio la gentilezza del maestro Ennio Calabria e di Rita Pedonesi per la trascrizione di questa lettera.
[14] La sostanziale difformità stilistica di Pagliarani rispetto agli altri poeti antologizzati nella silloge novissima trova una conferma empirica nei dubbi relativi alla sua inclusione nei diversi ‘spareggi’ nominali formalizzati da Giuliani, Porta e Balestrini – oggi ricostruibili attraverso il lavoro di Federico Milone (Giuliani, Porta, Balestrini, Sanguineti, Pagliarani 2016). Si veda anche il giudizio di Lamberto Pignotti che, nel recensire l’antologia dei Novissimi, etichettava Pagliarani come «il più singolare e il più compiuto fra questi suoi odierni compagni di antologia», al punto da definirlo «ad essi straniero» (Pignotti 1961: 20; il corsivo è mio).
[15] Sul teatro di Pagliarani, si veda Lo Monaco 2019 (soprattutto pp. 125-156 e 351-361), Rizzo 2013b e Rizzo 2020: 219-250.
[16] Sul sito del regista è possibile visualizzare alcune fotografie dell’allestimento: http://marioricci.net/spettacoli/pelle-dasino. Per un commento esaustivo alla pièce, cfr. Rizzo 2013a – mentre per un resoconto memoriale dei rapporti tra teatro, pittura e poesia che portarono alla realizzazione di Pelle d’asino, si veda Giuliani 2000.
[17] Cit. in Rizzo 2020: 257, dal Fondo Giuliani, Materiale Letterario, fasc. 206-9, stfasc. 207.
[18] Bisogna ricordare, peraltro, la ‘teatralizzazione’ della stessa Lezione di fisica, rappresentata la sera del 3 ottobre 1963 in occasione del primo incontro ufficiale del Gruppo 63 – nell’ambito degli spettacoli del Teatro Gruppo 63 (Hotel Zagarella, Sala Scarlatti, Palermo). Con ogni probabilità, come specifica Rizzo, si trattò di «un adattamento del testo poetico, a giudicare dalle testimonianze indirette che ci sono arrivate» (Pagliarani 2013: 39), per la regia di Ken Dewey. Alessandro Mastropietro aggiunge la preziosa informazione, tratta da una comunicazione personale di Alfredo Giuliani, che la Lezione sarebbe stata «cantata anziché ‘recitata’» (Mastropietro 2020: 114). Anche Fecaloro verrà messo in scena, per la prima volta, nel febbraio del 1967, al Dioniso Teatro di Roma, per la regia ‘combinatoria’ di Gian Carlo Celli (cfr. Celli 1979: 68-69). Nel giugno dello stesso anno, lo spettacolo verrà inscenato durante il Festival di Spoleto (nella rassegna «Spoleto-off»), a conferma di una continua circuitazione tra poesie ed eventi teatrali.
[19] Si possono individuare, invece, alcuni elementi intratestuali caratteristici di questa fase poetica, ad esempio la correlazione tra denaro ed escrementi che, ripresa in Fecaloro, già compariva all’inizio di Pelle d’asino – laddove veniva descritto un «merdoso rito» durante il quale i valletti regali eseguivano una «cerimonia-balletto» attorno al vaso da notte dell’asino, celebrandone la «merda dorata purissima. Venti carati» (Pagliarani 2013: 92).
[20] I versi erano precedentemente comparsi sul «verri» (Pagliarani 1962: 57-59). Una delle litografie perilliane pubblicate in Che cosa si può dire, peraltro, assomiglia significativamente alla tavola del fumetto riportata su «Grammatica» come commento visivo a Come alla luna l’alone (in corrispondenza del verso «che portano il nome del quale, Bava Beccaris») – in una singolare ricorsività illustrativa riservata alle tangenze letterarie di questa stagione.
[21] Per le informazioni intorno a «Grammatica», sono debitrice dei consigli e dell’esperienza di Maurizio Farina e Marco Rinaldi.
[22] Trent’anni più tardi, Perilli illustrerà i 7 epigrammi da Martin Lutero con altrettante acqueforti e acquetinte originali – in un libro d’arte stampato in 50 copie con numeri arabi e 10 copie con numeri romani destinate agli autori (Pagliarani 1991, s. n.).
[23] Il testo verrà riprodotto anche nel catalogo della mostra perilliana alla Galleria La Tartaruga di Roma, in cui verranno esposte opere del periodo 1961-1964 (s.d. [1965], s. n.). Per un’analisi esaustiva del fumetto e del contesto intermediale di «Grammatica», cfr. soprattutto Perna 2021: 47-54
[24] Il nome di Bresci verrà esplicitato ad alcuni versi di distanza («il mio Bresci non è che una sequenza: non so rappresentarlo | o non posso?», tp 165, vv. 65-66).
[25] Nella prima parte di Pro-memoria a Liarosa, lo stesso Pagliarani parlerà di «un mio autentico fondo anarchico di romagnolo» (Pagliarani 2011: 42).
[26] Non si può escludere, peraltro, che al v. 68 di Dalle negazioni il riferimento alla «grammatica epica di Achille» vada rapportato non soltanto all’«essenza dell’epica» insegnata dal novello «rapsodo» (Frungillo 2019), ma, ancora una volta, proprio ad Achille Perilli – dedicatario della lettera successiva nonché direttore, per l’appunto, di «Grammatica».
[27] Su Scialoja e le arti, cfr. i saggi di Donati 2014 e Morra 2019.
[28] La data è precisata dallo stesso Pagliarani. Dal momento che il testo non compare in altre sedi editoriali (prima di essere accolto in Pagliarani 1968), un riscontro documentario potrebbe individuarsi nell’unica cartolina di Scialoja conservata presso l’Archivio Pagliarani – risalente, per l’appunto, al 1965 (più precisamente, all’8 agosto). In questo divertente calembour inviato da Procida, inoltre, il carattere maiuscolo viene utilizzato per enfatizzare alcuni nomi, tra cui GASTONE (Novelli), TOTI (Scialoja) e MARISA (Volpi).
[29] A proposito della necessità, per una pittura, di trasformare la «dimensione tempo» in «sentimento tempo», l’artista si era già espresso, ad esempio, in Scialoja 1960: 145.
[30] È opportuno ricordare qui l’antologia Disegni e parole, curata da Luigi Carluccio, Ezio Gribaudo ed Edoardo Sanguineti per le Edizioni d’arte Fratelli Pozzi (Torino, 1963), in cui si ritrova la medesima impostazione ‘trivalente’ – una giustapposizione interdisciplinare di critica d’arte, poesie e riproduzioni di quadri o sculture. Un precedente è forse individuabile nell’Antologia del possibile confezionata da Gastone Novelli due anni prima (Novelli 1962, s. n.); per l’analisi di questo manufatto rimando, però, a Rinaldi 2011: 57 e Rinaldi 2012: 27-34. Sui rapporti tra i Novissimi e Novelli, invece, si veda il saggio di Lo Monaco 2020, nonché la tesi di dottorato di De Pirro 2012: 11-17.
[31] Per completare il quadro bibliografico, occorre menzionare, infine, un libro d’artista realizzato in sole tre copie da Franco Angeli ed Elio Pagliarani nel 1964, di cui si trova un cenno in Perna 2019. Del volume, pressoché introvabile, esiste una copia conservata presso l’Archivio Michielin – come è attestato in De Pirro 2012: 195-196, dove si riporta anche il titolo del testo autografo di Pagliarani («ma il sangue è vero che ha un ritmo»).
[32] Sull’effetto Roma, cfr. Cortellessa 2020, in particolare pp. 95-96. Mastropietro ha evidenziato il «problema storiografico dell’(auto)rappresentazione» che, attraverso le cronache mitizzanti di artisti e scrittori, sarebbe venuta a depositarsi nel discorso comune sugli anni Sessanta (cfr. Mastropietro 2020: 66-67).
[33] Sulla copertina della Lezione di fisica e, in generale, sulla grafica sperimentale delle collane di Vanni Scheiwiller (per il quale Giò Pomodoro realizzerà anche la copertina di Canto 90 di Ezra Pound, nel 1966), cfr. Agostino 2014 (specialmente pp. 126 e 131).
[34] Ap, Corrispondenze, busta 14, fasc. 25.
[35] AP, Corrispondenze, busta 13, fasc. 97, stfasc. 1.
[36] In questa sede viene pubblicata la poesia eponima della cartella – scritta, basandosi sulla datazione d’autore, nel 1956 – che verrà inclusa in Lezione di fisica & Fecaloro (tp 169-171).
[37] Pomodoro aveva probabilmente conosciuto Gustavo Giulietti nell’ambiente culturale fiorito attorno alla Galleria Numero di Fiamma Vigo a partire dalla metà degli anni Cinquanta. Entrambi gli artisti, inoltre, conoscevano Giovanni Carandente attraverso la frequentazione della stamperia d’arte fiorentina Il Bisonte, che pubblicherà diverse incisioni di Giò Pomodoro a cura di Giulietti e del suo maestro Rodolfo Margheri. Per queste informazioni ringrazio la generosa disponibilità di Loretta Dolcini.
[38] Sulla querelle Fortini-Pagliarani, cfr. Cortellessa 2007.
[39] Aggiungerà Pomodoro poco dopo, a proposito della nozione di «realtà»: «Ma forse è la continua contraffazione di essa e da parte di troppi, che obbliga alcuni a dover sempre rispiegare: e nel corso di questa ripetuta lezione ci si imbatte sempre in nuove avventure. [...] Non credo proprio che ci sia bisogno di altre “chiavi” che non siano, al massimo, delle buone chiavi inglesi» (Ibidem; il corsivo è mio).
[40] Sull’importanza della «trascrizione» all’interno della Lezione di fisica, cfr. Schiavone 2007: 126-136.
[41] Nella sterminata bibliografia definitoria sull’ecfrasi – costantemente aggiornata, in Italia, soprattutto grazie agli studi di Michele Cometa – mi limito a segnalare la definizione più immediata ed efficace confezionata da James A. W. Heffernan, che ne sintetizzava così il funzionamento retorico: «the verbal representation of a graphic representation» – dal momento che «ekphrasis uses one medium of representation to represent another» (Heffernan 1991: 299). Per l’altrettanto fondamentale distinzione tra actual e notional ekphrasis rimando all’ormai manualistico saggio di Hollander 1995.
[42] Si tratta, rispettivamente, di Matrice I (tav. 7; bronzo, 165 x 95 cm, 1962), Matrice III (tav. 3a; bronzo, 200 x 85 cm, 1962) e Grande frattura (tav. 20; bronzo, 67 x 30 cm, 1962). Per la Grande Bandiera per Vladimiro nel catalogo vengono riportate due opere omonime che presentano le stesse caratteristiche tecniche (tavv. 28 e 29; bronzo, 124 x 106 cm, 1963); lo stesso discorso vale per Frattura (tavv. 16 e 23; bronzo, 34 x 22 cm, 1962). Sotto il titolo di Folla, invece, vengono raggruppate in catalogo ben cinque opere: Folla V (tav. 6; bronzo, 95 x 50 cm, 1963), Folla III (tav. 10; bronzo, 150 x 50 cm, 1963), Folla I (tav. 12; bronzo, 136 x 72 cm, 1962), Studi per «Le Folle» (tav. 13; inchiostro su carta, 1963) e Folla IV (tav. 14; bronzo, 165 x 76 cm, 1963) – queste ultime tre didascalie compaiono affiancate nella stessa pagina. Nell’ultima pagina del catalogo, in coda all’Elenco delle opere esposte, si fa riferimento, inoltre, a una «cartella di 15 incisioni su rame, tirate a 25 esemplari di cui solo 20 saranno posti in vendita» che avrebbe dovuto essere stampata contestualmente alla mostra «per i torchi della stamperia Upiglio». Con ogni probabilità, il progetto prenderà materialmente forma nella già citata plaquette a quattro mani, uscita alcuni mesi più tardi con i versi di Pagliarani.
[43] Dell’influenza di alcuni moduli (retorici e tematici) di Majakovskij, Cortellessa parlerà anche alle pp. 28-29.
[44] Da un punto di vista storico, naturalmente, la triangolazione dei nomi di papa Giovanni XXIII, John F. Kennedy e Nikita Kruscev pertiene al ruolo centrale che essi rivestirono durante la crisi di Cuba (ottobre 1962). I tre, infatti, riuscirono a evitare una catastrofe geopolitica di portata mondiale, anche se la decisione di collaborare con il nemico, rinunciando alle rappresaglie manichee della Guerra Fredda, rappresentò probabilmente la causa politica dell’assassinio del presidente americano, il 22 novembre 1963.
[45] Ap, Corrispondenze, busta 14, fasc. 25.
[46] In assenza dello scambio epistolare completo non è possibile stabilire con sicurezza documentaria la successione cronologica delle diverse elaborazioni testuali. Tuttavia, la mancanza di citazioni esplicite di sintagmi o versi da parte di Pomodoro – in un contesto, al contrario, di continui e precisi rimandi testuali agli ‘antefatti’ della conversazione avuta con Pagliarani – mi porterebbe a congetturare che si tratti di una lettera scritta come corollario e amplificazione di un colloquio orale, che ancora non prevedeva la lettura specifica dei versi.
[47] E del «rischio calcolato | della retorica nei recitativi | non precettistica» parlerà proprio Pagliarani ai vv. 69-71 (il corsivo è mio).
[48] Per un’antologia del dibattito critico, cfr. Michelangelo Pop, «Marcatrè», a.ii, nn. 6-7, 1964, pp. 124-131.
[49] Questa trafila di negazioni, peraltro, è introdotta dalla citazione virgolettata di un verso («Le donne vanno e vengono per la stanza parlando di Michelangelo») tratto dall’eliotiano Canto d’amore di J. Alfred Prufrock.
[50] Il discorso di Pomodoro travalicherà il dominio artistico per entrare in quello politico nel passaggio in cui si domanderà se la porta di Piazza del Popolo «vada bene» anche per l’operaio della Fiat, in una declinazione ideologica (e smaccatamente generazionale) del concetto di modernità del canone artistico.
[51] Si ringrazia la Fondazione Giò Pomodoro per aver autorizzato la riproduzione di questa epistola.
[52] Marianna Marrucci ha giustamente rilevato come, anche a proposito della Ragazza Carla, «la verità nasca dal confronto interdialogico; si allude a un contesto sociale e culturale in cui si ha l’elaborazione collettiva di un sistema di valori comune. A creare questo effetto contribuisce anche il particolare statuto del narratore: egli [...] trasmette un racconto che si genera dai racconti altrui, dalle esperienze e dai ricordi personali ma comuni a una generazione o a un gruppo» (Marrucci 2000: 148).
[53] Sarebbe interessante indagare, ad esempio, il rimando a precisi referenti della tradizione pittorica adoperati per filtrare un volto o una situazione narrativa – come il personaggio di Lucia che, nella Pietà oggettiva, viene descritta nei termini di «un volto di Tiziano | con gli occhiali» (TP 148, vv. 31-32). Gli affioramenti figurativi andrebbero analizzati in parallelo a quelli fotografici e cinematografici, per individuare alcune costanti nella visuale dei narratori che spesso, avvicendandosi tra i versi di Pagliarani, guardano il mondo attraverso prospettive o inquadrature prese a prestito dalle arti sorelle.
[54] Si è intervenuto soltanto per sanare alcuni refusi di calamo o per attualizzare forme grammaticali in disuso – ad esempio, alla terza riga, si è sostituita alla formula «a il no su Michelangelo» (con la «a» aggiunta in un secondo momento, in obliquo rispetto all’andamento della frase) la preposizione articolata regolare («al no su Michelangelo»), così come si è modernizzato «à» in «ha» al punto e). Allo stesso modo, al punto c) si è proceduto alla correzione di «da fastidio» in «dà fastidio», di «constanza» in «costanza» al punto e), mentre, per quanto riguarda il verso della lettera, di «qual’è» in «qual è», di «Mas-media» in «Mass-media» e di «Roy Lichecestein» in «Roy Lichtenstein».