«Ma io non so raccontare storie»: esseri fantastici e personaggi non antropomorfi in Centuria di Giorgio Manganelli
Andrea Gialloreto
Abstract
L’articolo esamina il sistema dei personaggi in Centuria di Giorgio Manganelli riservando particolare attenzione alle figure non antropomorfe; la classificazione di entità, fantasmi, oggetti inconsueti, assenze, dinosauri, animali fantastici e altre creature immaginarie – ciascuna indagata secondo la funzione di straniamento e di destrutturazione dei modelli narrativi assolta nel testo – rivela quanto le manganelliane cerimonie del nulla e dell’inesistenza celino una nuova concezione, seriale e antimimetica, del racconto.
The paper examines the system of characters in Giorgio Manganelli’s Centuria, paying particular attention to non-anthropomorphic figures. The classification of entities, ghosts, unusual objects, absences, dinosaurs, mythical animals and other imaginary creatures – each one investigated according to the function of estrangement and deconstruction of narrative models performed in the text – reveals how Manganelli’s ceremonies of nothingness and non-existence conceal a new, serial and antimimetic conception of narrative.
Keywords
Manganelli, Antropomorfismo, Personaggio, Forme brevi, Centuria
Manganelli, Anthropomorphism, Character, Short forms, Centuria
Tra le pagine capziose ed eleganti di Encomio del tiranno, travestimento manierista e cortese dell’eterna sfida tra lo scrittore e il lettore (una lotta nella quale non è mai chiaro chi assuma il ruolo del domino e chi del captivo) Giorgio Manganelli ha insinuato un gran numero di chiose, postille, teoremi e illazioni sull’arte del narrare. In un crescendo di verbigerazione iconoclasta, il buffone-letterato demolisce a nome dell’autore i capisaldi della concezione tradizionale del romanzo; prendendo l’abbrivio da una dichiarazione di inadeguatezza, inerente all’incapacità di raccontare storie, egli dispiega la ben nota argomentazione manganelliana circa il sacrificio delle possibilità di discorso provocato dal voler fissare la narrazione entro gli argini di una linearità consequenziale non meno cogente delle tre unità aristoteliche:
ma io non so raccontare storie. Amo leggere le storie, per puro sadismo. Non posso non ammirare la ferocia con cui il narratore di storie rinuncia a raccontare storie. […] Le storie distraggono dalle parole; le storie raccontano dei fatti, come se ci fossero fatti; le storie hanno perfino dei personaggi[1].
Il precipitato “ideologico” di questo assioma anti-romanzesco piega in direzione del riconoscimento della parola e dell’immagine come elementi autotelici – se non del tutto irrelati, dotati di sovrana autonomia e forza poietica – pietre angolari dell’erigendo edificio testuale. La scelta che lo scrittore deve operare tra i materiali della propria riserva inventiva condanna infatti all’inespresso miriadi di alternative, mentre la parola – specialmente se “morta”, arcaica, rara, retoricamente impostata – dischiude mondi possibili, orizzonti che sfuggono ai Significati per aprirsi alla sonda del linguaggio. Invece, tutto ciò che appare événementiel, schiavo di una fattualità rinsaldata da catene e obblighi viene rifiutato radicalmente: verosimiglianza, attendibilità dei tratti psicologici, vincoli di causa-effetto meccanici come riflessi fisiologici, effetti trompe-l’œil e primazia dello sguardo costituiscono dei pericolosi ostacoli per chi, come Manganelli, aspira a stadi complessi e polimorfi di narratività senza sbocco romanzesco.
L’intera produzione dell’autore milanese è un’opera aperta, in cui il non-finito, l’ellissi, la federazione rissosa degli Io, la metamorfosi e la plurivocità soppiantano le architetture chiuse, i milieux convenzionali, la staticità di corpi e anime. C’è sì racconto nei testi manganelliani, ma condotto con strumenti non logori e stereotipati quali quelli della letteratura ottocentesca o degli aggiornamenti in chiave introspettiva e neoavanguardistica. Manganelli si sottrae alla narrazione non per difetto ma per eccesso dei fondamenti della comunicazione espressiva e l’inclassificabilità dei suoi racconti deriva – come nel caso di una folta compagnia di maestri delle forme brevi – dalla volontà di adottare quel modello trattandolo da «antigenere» o «plurigenere», secondo l’arguta distinzione di Andrés Neuman[2]. L’unico mezzo coesivo tra gli emblemi, le immagini araldiche o fantastiche, gli echi, i rumori o voci che trapassano il velo del reale nelle pagine manganelliane è un fattore stilistico e pertanto perde importanza il ruolo del personaggio come veicolo di omogeneità e coerenza delle trame romanzesche. Dall’obsolescenza del personaggio, coacervo del più gretto realismo sul piano fisiognomico, sociale, comportamentale e psicologico, non si sfugge; nemmeno a volerne fare un prisma, un occhio-mente mobile e multifocale, come avviene nelle esperienze che corrono dal Nouveau roman al Gruppo 63:
Il personaggio è raccontato in guise scisse, che mi pare l’ultima astuzia per moltiplicare i personaggi senza perdere tempo a farli diversi fisicamente e moralmente; ecco, questo mi dà noia, che i personaggi debbano avere degli elaborati quadri connotativi. Ma grasso che cola se hanno un nome e cognome, che vanno cercando, di grazia?[3]
Manganelli, con la sua istanza neo-retorica e manierista si pone in continuità con le teorizzazioni dei formalisti e con l’estremismo strutturalista ben esemplificato dall’asserto di Roland Barthes leggibile in S/Z: «i personaggi sono dei tipi di discorso e inversamente il discorso è un personaggio come gli altri»[4]. Ancor più drastico nel liquidare lo statuto del personaggio era stato Boris Tomaševskij, persuaso che la narrazione consti di un fascio di motivi attivati da procedimenti di natura formale e retorica: «l’eroe non è affatto una componente indispensabile della fabula. Esso è il risultato dell’organizzazione del materiale in un intreccio, e rappresenta, da un lato, un mezzo per collegare in serie i motivi, dall’altro un’incarnazione e personificazione della motivazione del loro collegamento»[5]. Manganelli mira a “essenzializzare” i fenomeni letterari, a farne una sequenza di assoluti connessi secondo relazioni di affinità e contrasto indipendenti dal “ricatto” sentimentale, pedagogico e didascalico dei fini assegnati di consueto alla comunicazione letteraria.
Come salvare dunque la funzione che nel romanzo di stampo classico era assolta dal personaggio, traghettandola verso un ruolo più libero, privo di connotazioni anagrafiche? Per sciogliere questo nodo Manganelli guarda al passato e verso un lontano retaggio di affabulazioni e incanti: «Nelle Mille e una notte non esistono personaggi; si incontrano immagini dotate di nome»[6], scrive nella sua prefazione alla celebre raccolta orientale. La chiave del neo-fantastico novecentesco, che si nutre di astrazioni e ipotesi problematizzando il nostro paradigma di realtà, gli consente di attuare la tanto desiderata fuga dall’umano che perseguirà con accanita e devota fedeltà al Niente brulicante di forme: «esiste un mondo di immagini che si sottrae ad ogni tentativo di renderlo umano»[7]. Queste immagini che valgono da ipostasi del mondo andranno dunque catalogate, ricondotte a un ordine metafisico prima che terreno (si pensi allo straordinario esito de Le stelle fredde di Piovene); il repertorio, l’enciclopedia e il vocabolario, libro che sussume tutti i libri come una miniaturizzata Biblioteca di Babele, restituiscono consistenza alla realtà operando non in maniera estensiva – come accade nelle operazioni di mimesi – quanto per sintesi fulminee, ideogrammi, stemmi. La tela di queste interruzioni della trama del nulla sarà allora un indefesso poema in prosa, una parenesi dei cerimoniali della scrittura.
La serialità e l’intrico di nessi tra un racconto e l’altro si sostituiscono alla contiguità per lemmi e voci alfabetiche di altri manuali di zoologia fantastica o trattati sulle Cose Inesistenti. La compattezza delle componenti del libro è evocata fin dalla copertina che riproduce un dipinto di Hiroshige in cui sono raffigurate due colonne di uomini impegnati in una cerimonia che ricorda la disciplina delle operazioni militari. La scelta esotica fa probabilmente riferimento a La centuria poetica di Fujiwara Teika (1162-1241) che, teste Grazia Menechella, risulta presente nella biblioteca di Manganelli[8], ma i precursori per quanto riguarda l’opzione di una simile struttura sono innumerevoli, dalla novellistica trecentesca a Traiano Boccalini e Nostradamus. Anche nella tradizione occidentale contemporanea del microracconto non mancano esempi paragonabili all’esperimento manganelliano – che doveva risultare sorprendente solo agli occhi dei disavvezzi lettori italiani, presi al laccio in quello stesso 1979 dalle narrazioni en abîme del calviniano iper-romanzo combinatorio Se una notte d’inverno un viaggiatore. Per attenersi ad un unico esempio, singolarmente consonante con lo spirito di Centuria anche a livello dei contenuti manifesti, si potranno citare le Novelle da un minuto pubblicate nel 1968 dal magiaro István Örkény (1912-1979); il suo Pagina vuota, ad esempio, «parla di cose che non esistono, oppure di cose che esistono, ma sulle quali l’autore non ha niente da dire»[9]. -
Il corpus manganelliano successivo a Centuria sarà segnato da un orientamento teso alla disintegrazione del personaggio-uomo, perseguita ora in modalità astrattizzanti come in Amore, che «pone al centro un’assenza e la tratta da personaggio»[10], ora secondo strategie di decentramento ed evanescenza dello stesso consistere identitario del soggetto, attratto in un’orbita infera di denudamento e dissoluzione del sé in anatomie mutanti (si pensi a Dall’inferno e La palude definitiva); uno psichismo di natura nevrotica e solipsistica è evidente dietro questo processo di concentrazione e disseminazione il cui primo stadio consta della riduzione dell’intero universo (e di tutto il pensabile e l’immaginabile) nelle pareti della mente e del corpo del soggetto, mentre la fase successiva vede dispensare tratti e peculiarità umane ad animali ed esseri inanimati. Il signore che «sa di essere psicologicamente sferico»[11] del brano Quarantotto ben rappresenta la fenomenologia della datità che si traduce nell’esposizione dell’uomo, riscopertosi tolemaico, alle minacce di un cosmo ostile e sempre sul punto di annichilire ciò che gli resiste, seppure limitandosi a frapporre al vuoto una superficie ripiegata e compatta come la sfera («La sfera esige attenzione, come una domanda», si legge a pagina 177 del pezzo Ottantasei). Se di norma, nel romanzo, il personaggio agisce e di conseguenza modifica il mondo così come la fitta rete di relazioni tra gli enti, qui lo vediamo rattrappirsi in un nucleo di insignificanza e dispersione. La cattiva infinità operante in questo racconto è riscontrabile anche nel principio di successione seriale e vacua, di indistinzione e ripetitività, che governa il sistema dei personaggi appartenenti alla specie umana. Difatti, la gran parte delle storie introduce protagonisti tratteggiati grossolanamente, dei quali si fornisce una fisionomia non meno indeterminata delle sagome di Magritte; per di più, nella descrizione per difetto si insinuano dettagli incongrui che in circostanze normali dovrebbero caratterizzare degli individui ma, posti così, quali meri contrassegni, intensificano l’effetto derealizzante. Si veda, in sommaria rassegna, un campione del catalogo di attributi tanto precisi quanto sfocati allineati in apertura delle narrazioni:
«un signore di buoni studi e umori moderatamente malinconici» (Quattro); «un signore che sa il latino ma non più il greco» (Sei); «il signore vestito di lino, con scarpe a mocassino e calze corte» (Sedici); «il signore lievemente miope, con difetto di pronuncia, che fuma la pipa» (Ventidue); «un signore che possedeva un cavallo di rara eleganza, un abituro fortificato, tre famigli e una vigna» (Ventisette); «l’uomo vestito in modo più giovanile di quanto non gli si addica» (Trentasette); «un signore meticoloso ma un po’ astratto» (Sessanta); «un signore ingordo di sogni» (Novantasei).
Nel decennio Settanta Goffredo Parise ha sviluppato negli incipit dei Sillabari una articolata distribuzione di marche di riconoscibilità che sfuggono ai consueti meccanismi di profiling; tuttavia, in quel caso, l’obiettivo consisteva nello scardinare i nessi comportamentali e psicologici per liberare l’energia non convenzionale dei «sentimenti elementari». In Centuria si assiste invece al cerimoniale di congedo da un coerente sistema di segni (fisiognomici, behavioristi, psicologici) che possa trattenere in una qualche unità le schegge dell’umano che vorticosamente si proiettano nel nulla.
Manganelli rigetta le categorie attanziali codificate dal romanzo del xix secolo, ma per spiegare il suo pertinace allontanamento dalle radici del «cespo umano» bisognerà darsi ragione di un moto repulsivo di origine privata, del disprezzo ostentato nel libro d’esordio per la compagine «fusiforme verso i piedi» di arti disposti «a trivella» con vocazione abissale, con l’appendice risibile del «cavicchiolo del membro». La catena distorta dell’eredità genetica è messa alla berlina dal signore – un fratello minore di Zeno – che si ritiene in diritto di proclamarsi malato e «si domanda con severità perché non cerchi di vivere da “eroe positivo”. Sarà per colpa del padre: gli hanno detto che beveva. I padri che bevono hanno figli malaticci» (Ventiquattro, 54). A voler esplicitare la metafora, vengono liquidate in pari tempo la retorica del gesto, dell’esemplarità, e quella di una tradizione romanzesca tralignata per gli scompensi tra l’eccesso e la carenza di realtà narrabili. L’autore ha dichiarato di aver voluto impostare, in Centuria non meno che in Sconclusione, una struttura «basata sull’intenzione di dar luogo a documenti di universi mentali e linguistici non solo diversi l’uno dall’altro, ma anche probabilmente incompatibili»[12]. I criteri di veridizione pertinenti all’atto di plasmare personaggi attendibili vengono messi sotto stress mediante l’immissione nel nostro paradigma di realtà di livelli appunto incompatibili, abitati da entità inclassificabili la cui esistenza è garantita esclusivamente dall’appartenenza all’ambito letterario e artistico.
Manganelli rivendica uno spazio della narrazione tanto inclusivo da sfidare l’assurdo, e ciò in opposizione alle restrizioni di campo imposte dalla tradizione[13]; Silvia Zangrandi ha distinto quattro categorie in cui far confluire le creature inesistenti di Centuria (creature improbabili; creature del fantastico tradizionale; creature del fantastico mitologico; esseri immaginati). Per parte nostra, vorremmo stabilire una linea divisoria meno articolata ma di indubbio rilievo ermeneutico che distingua le entità non antropomorfe (la vera invenzione di questo Manganelli) dalle creature del fantastico e del mito. Tutte ricadono nel dominio di quelle Cose che non esistono di cui è esperto il protagonista del pezzo Novantacinque, che durante una passeggiata urbana si imbatte nell’ordine in un candido unicorno, in un basilisco con una testa di Medusa, in un traghèlafo, una fenice, una anfesibena, e poi in fate, elfi ed angeli custodi: l’eccedenza del sovrannaturale non produce l’irruzione dell’inspiegabile nel quotidiano propria del fantastico quanto piuttosto una più radicale crisi: il signore infatti, avulso dal suo ambiente a misura d’uomo, «ora comincia a chiedersi se anche il Mondo, appunto il Mondo, sia una Cosa che non esiste» (Novantacinque, 196).
Il catalogo dei personaggi di sdipana squadernando vari gradi di inesistenza; se l’acme di questa categoria è raggiunto dal ‘discreto’ inquilino del pezzo Cinquantuno («La persona che abita lì, al terzo piano, non esiste»[14]), tanto compito da ingenerare disagio nel vicinato, un’ampia teoria di spettri si affaccia da queste storie in bilico tra il tedio metafisico e l’assurdo quotidiano. Fantasmi che si fanno visita e si arrovellano per comprendere le complicate regole che li tengono legati al proprio castello, allucinazioni professionali, come l’ordinario signore che attraversa la strada («per essere esatti, sta attraversando un autobus fermo al semaforo»[15]), comparse sgradite nei sibillini sogni degli uomini come il vanitoso Sognato malefico (Settantadue), ectoplasmi annoiati e un po’ infantili («Un fantasma può meditare, leggere, camminare, e se è abbastanza stupido o annoiato, fare rumori e scuotere le tende; questo, naturalmente, se c’è qualcuno da spaventare»[16]) ed altri meditabondi e tormentati dall’incapacità di ricordare il groviglio di casi e destini che li ha condannati a quella condizione (Quarantasei).
Il racconto Sessantotto, dedicato al capitano del Vascello Fantasma, è forse il più riuscito e inquietante del libro, attraversato com’è dal soffio del nulla che aduna e dissolve forme ingannevoli, larve di morte che recano il fardello di orrori indicibili perché conoscono il volto diaccio del non essere e della desolazione, stati terminali che non possono essere detti e vanno celati dietro la favola avventurosa della finzione, elargita nelle taverne affollate di ignari viventi con un’ostentazione che suona falsa e consolatoria:
Il capitano racconta storie di pirati, di tesori nascosti che tutti cercano e nessuno trova, e anche storie di donne bellissime, per conquistare le quali qualunque impresa è una sciocchezza, e poi duelli, e dove si trova il buon vino e le balene che vanno in giro con un bosco sul dorso, e dentro il bosco abitano le sirene. Racconta anche storie di burle, di imbrogli, di astuzie di donne, e non sempre, bisogna pur dirlo, il suo linguaggio è castigato come dovrebbe; ma quella che ascolta non è gente da adontarsene. Alla fine si congeda con nuovi inchini e sventolio di mani, retrocedendo verso la porta; poi si volta, apre per uscire, e il primo vento della strada lo investe. Allora la compagnia vede, prima incredula poi inorridita, accartocciarsi i vestiti del capitano e del secondo, come non avessero corpo, anzi fossero affatto vuoti. Mentre i due vestiti fluttuando si allontanano, la brigata, fatta taciturna, ripensa le fole del capitano, e capisce che egli ha mentito, e che nessuno saprà mai da lui le tormentose storie della sua navigazione, le cose che hanno veramente visto quegli occhi inesistenti (Sessantotto, 142).
La finzione è la celebrazione suprema di Ciò che non esiste: ogni narratore si comporta come il capitano del Vascello Fantasma selezionando i propri materiali, eludendo e sviando, per intessere fregi all’arido vero e adornare di immagini il vuoto.
Altre creature liminari, ascrivibili ai territori rispettivamente del meraviglioso e del fantastico, sono le fate, i draghi e le statue dotate di vita propria. I casi più significativi riguardano i testi Sessantasei, Cinquantadue e Trentadue: una fata distratta che scende dal treno alla fermata sbagliata e si rivolge ai passanti in cerca di aiuto: «Alla fine scelse un signore dall’aria insieme calma ed eccessivamente pensosa; costui, di fatti, era lievemente incline ad allucinazioni, fantasie paranoiche, stati crepuscolari: insomma, aveva una idea del mondo estremamente realistica e articolata» (Sessantasei, 137); il dittico votato alla leggenda del cavaliere uccisore del drago trova il suo equilibrio nella accondiscendenza del “mostro” a un destino che lo vuole incompreso nella sua superiore dignità e che getta altresì nel discredito lo stolto cavaliere impegnato nel sacrificio rituale dell’Altro. Una rilettura grottesca del motivo della statua animata ci porta a familiarizzare con un Signore di gesso che svolge con solerzia il proprio compito di rappresentanza, anche se non gli è dato di sapere in onore di quale illustre pensatore sia stato eretto: la sua funzione primaria sembrerebbe però quella di dar svago ai piccioni e provocare l’ira della celebrità, insoddisfatta dalla modestia dell’omaggio di una statua fatta di gesso e non dell’austero marmo.
Inesistenti sono anche le specie estinte, come i dinosauri del brano Quarantasette impegnati in un sofistico dibattito sulla propria fine incombente imputata ad entità di ancor più incerta sussistenza come gli Dei sùperi, anch’essi messi a mal partito dallo scetticismo dei colossali animali preistorici, stanchi di credere nelle loro dubbie divinità: siamo di fronte a un circolo vizioso nel quale i remoti abitanti della Terra e gli “inquilini” della trascendenza necessitano gli uni degli altri per non sparire ricacciati nel nulla originario.
Il genio manganelliano brilla nella rappresentazione di personaggi che nulla condividono con la foggia, tanto vilipesa dallo scrittore hilarotragico, dell’essere umano; questi enti ne schivano le fattezze in maniera più estrema di quelli finora passati in rassegna, che appartenevano al bestiario fantastico oppure traghettavano la sostanza fisica e psicologica umana nell’incorporeo. Angelo Marchese ha isolato quattro isotopie valide quali marche identificative della natura finzionale del personaggio:
Si potrebbe studiare la fenomenologia del personaggio secondo quattro isotopie solo in astratto distinte ma interconnesse strettamente fra loro nella realtà narrativa: 1) l’essere, cioè le attribuzioni o qualità del personaggio; 2) il fare, cioè la sfera pragmatica in cui è coinvolto; 3) il vedere, cioè la prospettiva in senso lato; 4) il parlare, cioè gli eventi verbali, gli atti linguistici di cui il personaggio è emittente e ricevente[17].
Nessuna di queste prerogative passa indenne al vaglio dell’invenzione manganelliana: per quanto attiene all’essere, l’instabilità dello statuto dei personaggi non antropomorfi è costitutiva e si pone come un assoluto. Il pezzo numero Otto vede in primo piano addirittura un’assenza, da tener ben distinta da una semplice sottrazione di realtà (carenza o perdita di qualche cosa) perché, come esplicita l’uomo che non riesce a fare meno di questa interlocutrice di grado zero, «L’assenza, va da sé, non ha nulla a che fare con il vuoto» (Otto, 21). Un lacerto indecifrabile di qualcosa di assente (una città o una civiltà ventura oppure estinta) è il corpo celeste a forma di piazza quasi strappata via dal tessuto urbano di un ignoto insediamento spaziale. Riguardo al fare, emblematico è l’animale-giglio del racconto Quarantatré: questo ibrido ascrivibile tanto alla flora che alla fauna si distingue per la sua immobilità, una mancanza di azione che lo rende terribile in virtù della sua blandizie, del suo placido astenersi da una ferocia di cui pure reca traccia in una sorta di memoria ancestrale (l’ossimoro, figura retorica e schema concettuale, domina il sistema attraverso il quale Manganelli elabora i propri personaggi immaginari). D’altro canto, una sospetta iperattività si evince dai tentativi di “corteggiamento” di un passante da parte di una voragine che gli danza intorno: «Il signore di buoni studi aveva sentito parlare di Voragini Custodi che, nei tempi antichi, accompagnavano i monaci del deserto, dando loro il duplice senso di essere scortati e insidiati» (Settantaquattro, 153).
Gli esseri chiamati in causa nei cento romanzi «anamorfici» sono oggetti alla Odradek, luoghi dotati di personalità, astrazioni e ipostasi del pensiero; molti di essi sfuggono alle percezioni e alle categorie razionali cui l’uomo abitualmente ricorre. Se nel romanzo tradizionale il vedere offriva ampie garanzie a chi fosse impegnato nell’ardua opera di decifrazione dell’inspiegabile, consentendogli di sceverare l’ordinario dal soprannaturale, in questa dimensione fluida assai vicina agli assiomi del neofantastico ogni forma porge all’occhio di chi guarda superfici e prospettive cangianti. È il caso della bestia mutante che da preda si fa cacciatrice e sfugge alle classificazioni di Linneo per riprodurre l’ancestrale terrore dell’uomo di fronte alla natura (Sessantasette).
Infine, va riscontrato lo scarto fra questi personaggi e i loro precursori nell’impero di carta in merito alle modalità comunicative e di relazione. La donna che partorisce una sfera e la alleva amorevolmente come un figlio di cui andar fiera stabilisce con la creatura un legame che prescinde dalla parola ispirandosi piuttosto ai rapporti tra l’infante e colei che presiede alle sue funzioni corporee registrandone il calore, le variazioni di peso e di umore. Di contro, la sfera si rivela compos sui in ogni circostanza. Al silenzio si contrappone, nella carta Settantatré, la violenza di un grido dall’origine ignota che squassa la pace di un villaggio. Il mistero della sofferenza, la summa delle agonie, la protesta collettiva espressa tramite un segnale di allarme unico e molteplice colorano di rivolta nei confronti del non senso la trafittura sonora di un Weltschmerz apparentemente immotivato.
Il gusto satirico swiftiano per il paradosso e il rovesciamento delle attese del lettore trionfano nel cinquantatreesimo frammento, laddove prospera un popolo di extraterrestri ignari della specie umana; in quella società avanzata l’uomo è ritenuto un’invenzione da favole per bambini e diviene il modello di bambole e fantocci che danno la stura alle ipotesi più bizzarre sulla conformazione degli arti: «Queste maschere, e burattini, non possono naturalmente riprodurre le fattezze di un essere umano, che nessuno ha mai visto, e che forse non esiste. Si ricorre dunque alle tradizioni, a vecchi e assurdi libri illustrati, infine alla fantasia» (Cinquantatré, 111).
L’Ur personaggio non antropomorfo, l’informe corpaccione che si muove di pagina in pagina, è però quello sortito dalla incoercibile inclinazione manganelliana alla menzogna letteraria, ossia il testo stesso. Compagine in guerra contro i Significati acquisiti e il luogo comune, l’opera si fonda sulla concordia disarmonica delle parti, istituisce parallelismi per poi scompigliare numeri e sequenze, abbozza trame e vicende con l’intento di negarle o ribaltarle, intreccia liaisons tra signori e signore e le precipita nell’equivoco e nel fraintendimento. Il movimento della narrazione tende alla cancellazione di ogni traccia, di ogni indulgenza alla mimesi, perché emerga l’arbitrio di una scrittura che si vuole intarsio su sfondo vuoto, arabesco di bislacche (dis)apparizioni. Il sogno flaubertiano del libro sul Niente incrocia con Centuria gli esperimenti patafisici e grotteschi delle Avanguardie per produrre, come ha ben visto Guido Gugliemi, «delle piccole macchine inutili che non è detto custodiscano un segreto, ma se mai la simulazione di un segreto. […] Come le desertiche scatole metafisiche, i cento piccoli romanzi fiume di Manganelli trattengono un’eco della profondità del non senso; sono ricettacoli del niente, rivelazioni del non essere, ornamentazioni dell’inesistente»[18].
[1] G. Manganelli, Encomio del tiranno, Milano, Adelphi, 1990, p. 61.
[2] A. Neuman, Il sistema del minuto, in Id., Vite istantanee, Roma, SUR, 2018, pp. 139-140.
[3] G. Manganelli, Encomio del tiranno, cit., p. 6.
[4] R. Barthes, S/Z, Torino, Einaudi, 1973 citato in Mattia Cavadini, La luce nera. Teoria e prassi nella scrittura di Giorgio Manganelli, Milano, Bompiani, 1997, p. 115.
[5] B. Tomaševskij, in I formalisti russi, T. Todorov(a cura di), Torino, Einaudi, 1968, p. 340.
[6] G. Manganelli, Prefazione a Le mille e una notte, Milano, Rizzoli, 1989, p. 19.
[7] G. Manganelli, Terra estrema, in Id., L’isola Pianeta e altri settentrioni, A. Cortellessa(a cura di), Milano, Adelphi, 2006, 62.
[8] Cfr. G. Menechella, Il felice vanverare. Ironia e parodia nell’opera narrativa di Giorgio Manganelli, Ravenna, Longo, 2002, p. 147.
[9] Cit. in E. Rónaky, Il tempo minimo del racconto: le Novelle da un minuto di Örkény, in Le forme della brevità, M. Curcio (a cura di), Milano, Franco Angeli, 2014, p. 95.
[10] C. Marabini, Amore, in Nuova Antologia, fasc. 2139, luglio-settembre 1981, p. 133.
[11] G. Manganelli, Quarantotto, in Centuria. Cento piccoli romanzi fiume, Milano, Rizzoli, 1980 [1979], p. 101. D’ora in avanti per le citazioni tratte dal libro si farà seguire il solo numero di pagina al titolo in serie numerica di ciascun microromanzo.
[12]Cento brevi romanzi fiume, cit., p. 47.
[13] Cfr. S. Zangrandi, La fantasticheria visionaria di Giorgio Manganelli in Centuria, in Cuadernos de Filología Italiana, vol. 15, 2008.
[14]Cinquantuno, 107.
[15]Cinquantacinque, 115.
[16]Quarantuno, 87.
[17] A. Marchese, L’officina del racconto. Semiotica della narratività, Milano, Mondadori, 1983, p. 187.
[18] G. Guglielmi, Microromanzo e motto di spirito, in Id., La prosa italiana del Novecento. Umorismo. Metafisica. Grottesco, Torino, Einaudi, 1986.