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«Musica parolabile, parole musicabili»:
echi e suggestioni letterarie nel canzoniere di Francesco Guccini

Nicola Ferrara

ABSTRACT

Poesia e canzone, parola scritta e parola cantata: «sorelle […] nate davvero da un unico parto», come voleva Edoardo Sanguineti, o rette parallele destinate ad incontrarsi solo nelle fantasie eretiche degli avanguardisti più incauti? Lo scopo del presente contributo non vuol essere quello di stabilire una scala di valori sulla quale collocare idealmente, in virtù di presunti legami di superiorità o subalternità, l’una o l’altra forma espressiva quanto piuttosto quello di rinvenire, nel perimetro della canzone cosiddetta “d’autore”, un gioco di rispondenze, riecheggiamenti, affinità tematico-ideologiche o stilistico-retoriche che la apparenterebbero con tanta parte del patrimonio letterario novecentesco, pur nella lucida consapevolezza di una netta distinzione ontologica tra le due arti. Spicca, per sensibilità artistica e ricchezza di “debiti” letterari, l’opera di Francesco Guccini: da L’isola non trovata e Autogrill (rifacimenti più o meno espliciti di alcune poesie del Gozzano) fino a Giorno d’estate, Canzone quasi d’amore, Gulliver e Incontro (che sembrano, a loro volta, riecheggiare alcuni versi di Montale), tutto il canzoniere dell’autore pavanese sembra configurarsi come un viaggio di matrice latamente “letteraria”.

Poetry and music, written word and lyric: «sisters born indeed at the same birth», as Edoardo Sanguineti said, or parallel lines that could meet each other only on the heretical fantasies of the avant-garde thinkers? The purpose of this contribution is not to establish a scale of values in order to ideally place the one or the other medium, according to alleged links of superiority or subordination; it is rather to discover, in the field of the so called “singer-songwriter music”, a pattern of links, echos, ideological and thematical analogies that would relate it with a considerable portion of the literaty heritage of the twentieth century, although the clear ontological distinction between the two arts is thoroughly acknowledged. Francesco Guccini’s work stands out for its artistic sensibility and richness in terms of literary influences: from L’isola non trovata to Autogrill (that remake some Gozzano’s poems) up to Giorno d’estate, Canzone quasi d’amore, Gulliver and Incontro (that could remind of some verses by Montale), the whole work of the italian songwriter could be read as a sort of literary journey.

Keywords

Francesco Guccini, canzone d’autore, poesia, riferimenti letterari, influenze letterarie

Francesco Guccini, songwriting, poetry, literary references, literary influences

 

Francesco_Guccini

 

«Però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni / si possa far poesia» tuonava, avvelenato, Francesco Guccini negli anni in cui si pretendeva dalla canzone d’autore ch’essa imbracciasse le armi della rivolta permanente contro una classe politica gretta e democristianamente democratica (il ’68, il ’77 e altri misfatti). E ancora: «Malinconie discrete che non sanno star segrete / le piccole modeste storie mie / che non si son mai messe addosso il nome di poesie», asseriva lo stesso qualche anno addietro, nel tentativo sommesso di chiarire l’autonomia intrinseca del fare canzone, la sua indipendenza assoluta rispetto ai modelli del verseggiare poetico-tradizionale. A canzoni far poesia – questi, in sintesi, i termini dell’annosa questione che ha tenuto banco a partire dagli anni Settanta del secolo scorso e continua a suscitare ancora oggi più di qualche ritrosia tra i puristi della letteratura tout court, strenui oppositori di ogni possibilità di ibridazione tra quelle che già Sanguineti non stentava a definire come «arti sorelle» – letteratura e musica – «nate davvero da un unico parto»[1]. Ora, se da un lato è evidente che poesia e canzone – ci soffermeremo qui su certa canzone, cosiddetta “d’autore” – intrattengano di fatto specifici legami di natura metrico-retorica (allitterazioni, analogie, metafore, sinestesie; uso insistito della rima o, al contrario, predilezione per il verso libero), dall’altro è però innegabile ch’esse, seppur nate da «un unico parto», nel corso dei secoli abbiano perseguito strade via via differenti, e che i tentativi di chi ai giorni nostri abbia voluto apparentarle si siano spesso isteriliti su posizioni gerarchiche e reazionarie (e latamente reazionarie proprio in quanto gerarchiche: il “consumo” di canzone d’autore ha superato quello di poesia? – si domanda Guido Mazzoni nel suo compendio Sulla poesia moderna).   

Convinti che ragionare in un’ottica di superiorità e subalternità di un genere sull’altro non possa condurre a considerazioni costruttive, cercheremo qui invece di mettere in luce i “debiti”, per così dire, che certa canzone intrattiene con tanta parte del patrimonio letterario otto-novecentesco, al fine di dimostrare che una parentela esiste ma che essa non implica, va da sé, una sovrapposizione tra due generi dotati di uno statuto autonomo e indipendente e di proprie, specifiche qualità intrinseche. Ciò che ci interessa scandagliare è, insomma, il cosiddetto “sostrato” letterario della canzone d’autore,  quel gioco di rimandi (talora espliciti, talora velati, altre volte addirittura inconsci) che il cantautore dissemina all’interno del testo, non tanto per puro gusto citazionistico né con la mera volontà di ostentare una forbita cultura enciclopedica, quanto piuttosto per porsi – per così dire – in un solco, su una comune linea di pensiero con i maestri della parola scritta, suoi  coevi o predecessori.

È all’interno di questo “solco” ideale che si fa strada, lucidissima, la poetica di Francesco Guccini. Agisce in essa e scorre sotterranea – forse più che in quella di certi suoi colleghi – una matrice “letteraria” (talvolta latente, talvolta orgogliosamente esibita) che è il frutto delle sterminate letture dell’autore, della sua instancabile curiosità e della volontà, non dichiarata ma effettiva, di concepire il testo come un intarsio di riferimenti letterari, di afflati ideali e prosaici in perfetta coesistenza. La citazione letteraria non è – di questo siamo convinti – finalizzata all’ostentazione sterile del proprio personale patrimonio di letture, né vuole essere un modo da parte dell’autore per garantirsi la corona d’alloro (che gli proverrà dall’esterno, con l’assegnazione del premio Librex Montale per poesia in musica – siamo nel 1992). Il riferimento colto nasce, invece, spontaneamente dalla penna dell’artista, sgorga per propensione naturale, è insito nella sua cifra espressiva, è quasi un vizio congenito, oltre che una tappa obbligatoria nel processo di rielaborazione in versi della realtà. Esso è funzionale, allora, a rifunzionalizzare (si perdoni il bisticcio) un concetto, un personaggio, un tema letterario caro all’autore nelle vesti a lui più congeniali della forma-canzone. Dal Leopardi delle Operette morali al Pascoli dei Poemi conviviali, passando per Guido Gozzano e i crepuscolari, Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda. E poi ancora – in territorio d’Oltralpe – una certa influenza dovettero esercitare François Villon, Charles Baudelaire e i maudits, Allen Ginsberg, James Joyce, Thomas Eliot. Non deve stupirci, allora, che già Umberto Eco – più integrato che apocalittico verso le pratiche di ibridazione– alle soglie degli anni Ottanta si sia spinto fino ad affermare che «Guccini è forse il più colto dei cantautori italiani in circolazione: la sua è poesia dotta, intarsio di riferimenti». Di fatto, Eco anticipò ciò che, in virtù di uno schematismo ideologico passatista e reazionario, qualcuno si ostinava ancora a negare: la parola musicabile – nella fattispecie, quella gucciniana – può effettivamente farsi riverbero di una molteplicità di echi intertestuali, finendo per rimettere in circolo idee, visioni, suggestioni più o meno letterarie per poi declinarle, plasmarle e destinarle a nuova vita.

Tale modalità di scrittura risponde senz’altro a una precisa visione del mondo, entro la quale si origina una altrettanto ben definita poetica, tutta propria dell’autore: la parola gucciniana, nella molteplicità di echi e rimandi cui si apre, sembra sempre portarsi addosso il sospetto dello scacco insito nel suo significato (e nella pretesa stessa di un significato); essa è incerta e precaria come incerta e precaria è, per l’autore, la realtà sensibile, sempre pronta a tradire significati inattesi e afferrabile solo a sprazzi, come «luci nel buio di case intraviste da un treno» – così dirà Guccini in Incontro, riecheggiando la lezione di Montale («la vita che dà barlumi / è quella che sola tu scorgi», Il balcone). Con i suoi scrittori di riferimento Guccini instaura, insomma, un dialogo, uno scambio costante, forse nel tentativo di giungere a qualche conclusione sull’ambiguità delle cose intorno e sulla precarietà dell’esistenza umana, salvo poi concludere che una risposta non v’è se non nella negazione stessa della domanda, nel perimetro di quella che già in Montale si qualificava come una conoscenza in negativo: se il poeta ligure asseriva che «Codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (Non chiederci la parola che squadri da ogni lato), il cantautore pavanese ribadisce, elevando la negazione al suo acme, che semplicemente «Non siamo, non siamo, non siamo» (Quello che non…), senza alcuna via di scampo.

Talvolta è la realtà più umile, dimessa e quotidiana a nascondere, in certi suoi anfratti, l’intima complessità delle cose – e qui l’influenza della poesia crepuscolare, e di Gozzano su tutti, si rende evidente. Il canzoniere gucciniano, in questo senso, non è altro che una raccolta di Cronache epafaniche (questo anche il titolo del primo romanzo edito dall’autore): le sue sono, a tutti gli effetti, tanto in canzone quanto in prosa, “cronache”, cioè resoconti di vita quotidiana, e però anche “epifaniche”, in quanto rivelatrici di verità ulteriori e inaspettate, sempre tese e pronte ad affiorare dietro il volto (ab)usato delle cose di tutti i giorni. Di più: è, spesso, proprio il dettaglio minimo e dimesso dell’esistenza a farsi foriero di una verità di carattere esistenziale (seppur sempre relativa, precaria, come relativistica è la visione del mondo dell’autore). In questa chiave, allora, appare ancor più evidente il debito che il dettato gucciniano intrattiene con la poetica crepuscolare: da un lato, l’amore per le piccole cose, per le realtà umili e marginali, spesso rievocate con impellente malinconia dalla viva voce di un “poeta” che – come Corazzini – non riconosce più d’esser poeta, arrivando a negare sé stesso attraverso il diniego della propria funzione elocutoria («Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire», asserisce Corazzini in Desolazione del povero poeta sentimentale; «Ma non ho scuse da portare, non dico più d'esser poeta / non ho utopie da realizzare: stare a letto il giorno dopo è forse l'unica mia meta» conclude, altrettanto desolato, il Guccini delle Osterie di fuori porta); dall’altro, una cifra espressiva aderente alle “cose”, alla realtà materica e materiale, spesso rievocata attraverso il filtro del ricordo e nei margini di una poetica che potremmo definire di “epicizzazione” del quotidiano[2]. Si pensi, a questo proposito, a un fatto minimo, la vita ripetitiva e sempre identica di un Pensionato vicino di casa del cantautore («fra i suoni usati e strani dei suoi riti quotidiani: / mangiare, sgomberare, poi lavare piatti e mani) e poi lo si trasponga sullo sfondo dei grandi rivolgimenti collettivi che hanno scosso il Paese nel corso dei decenni («Io ascolto e i miei pensieri corron dietro alla sua vita / […] a un’esistenza andata in tanti giorni uguali e duri / a come anche la storia sia passata fra quei muri…») – questo, in estrema sintesi, il nucleo del meccanismo compositivo gucciniano, che non solo procede dal particolare al generale ma che, nel suo incedere, crea l’occasione per una verifica esistenziale più profonda a partire sempre da un fatto apparentemente minimo e comune dell’esistenza. 

Non solo la scelta di puntare una luce su personaggi umili, dimessi e marginali ma anche e soprattutto la tendenza a rievocarne le gesta ponendo l’accento sul valore intimo del “ricordo” è ciò che contraddistingue la cifra gucciniana. Il ricordo, in Guccini, diviene il centro nevralgico del racconto, si avvinghia ai fatti e agli oggetti di una quotidianità stantia e consunta e finisce per trasporla su un piano epico e simil-eroico (popolato di eroi di tutti i giorni, s’intende: pensionati, operai, macchinisti ferrovieri, studenti e via dicendo). «La poetica consueta è dell’allora», avrebbe programmaticamente affermato l’autore in un testo di canzone tra i suoi meno noti (Non bisognerebbe). Anche i fatti della quotidianità più consunta possono però, talvolta, prestarsi a risvolti inattesi e traumatici – o, se non altro, percepiti come tali nell’immaginario di un Paese ancora (e da tempo immemore) ancorato a una morale conservatrice e bigotta. Le cronache di Guccini divengono allora, all’occasione, anche pagine, in senso lato, di cronaca nera ed anche in questo caso il retroterra poetico crepuscolare gioca la sua parte. Se Marino Moretti, poeta crepuscolare tra i meno antologizzati, già nei primi anni ’20 riferiva di un aborto nei termini di una Piccola storia scandalosa, Francesco Guccini, ancora a metà degli anni ’70, ne parla – per interposta voce – nei termini di una Piccola storia ignobile. Quella che in Moretti è una rievocazione tutta intima e privata, dolente ma ingenua (il poeta riporta alla memoria un ricordo d’infanzia), in Guccini si trasforma in una critica sottilissima, perpetrata con la consueta cifra di una mai sopita ironia antifrastica, ad una classe politica che si dimostra ancora ostile verso la liberalizzazione dell’aborto. Non una canzone politica però, nel senso “partigiano” del termine, a dispetto di quanto si possa pensare: il genio di Guccini sta, ancora una volta, nel trattare il tema nella sua ordinarietà, calandolo all’interno di una cronaca di vita quotidiana e comune, eventualmente, a tutti. E così l’autore regredisce al livello di una plebe indignata e giudicante nei confronti di una giovane rimasta incinta e poi ripudiata da un amore clandestino, in un pot-pourri di becero moralismo, maschilismo e perbenismo piccolo-borghese («Ma se tuo padre sapesse qual è stata la tua colpa / rimarrebbe sopraffatto dal dolore / uno che poteva dire: “Guardo tutti a testa alta” / immaginasse appena il disonore»).

Ma è a Gozzano, più che ad altri, che Guccini deve gran parte del proprio apprendistato letterario. Due casi paradigmatici: quello de L’isola non trovata, vera e propria parafrasi in forma-canzone de La più bella di Gozzano, e quello di Autogrill, brano tra i più celebri del cantautore, che potremmo in qualche modo accostare a Le due strade gozzaniane, con cui la canzone sembra intrattenere una consonanza tematica e spirituale. Nel caso de L’isola la ripresa è (quasi) pedissequa: qui Guccini tesaurizza la lezione dell’esotismo gozzaniano e ne traspone il risultato in forma-canzone. Un viaggio in India compiuto in giovane età dal poeta diviene l’occasione, per Gozzano, di fare i conti con un territorio (e, di riflesso, con un popolo) inquietante e meraviglioso, in grado di inaugurare, con le sue contraddizioni, un viaggio spaziale sì, ma anche temporale, un itinerario onirico realizzato in un tempo tutto interiore («exotique dans le temps» e «nostalgie d’un temps», chioserà Sanguineti a proposito dell’esperienza gozzaniana[3]). Ebbene, soltanto alla luce di queste premesse e considerato il carattere tutto peculiare – spirituale prima che materiale – dell’esotismo gozzaniano si potrà comprendere allora qualcosa in più dell’omaggio al poeta realizzato dal cantautore. Al netto di riprese testuali puntuali e insistite (identico l’esordio: «Ma bella più di tutte l’isola non trovata / quella che il Re di Spagna s’ebbe da suo cugino / il Re di Portogallo con firma sugellata / e bulla del Pontefice in gotico latino»), il tentativo di Guccini è quello di restituire, anche in canzone, la matrice onirica dell’esotismo gozzaniano che, com’è tipico di tanta letteratura di viaggio (dai romanzi di Jules Verne al robinsonismo di Defoe – di cui pure Gozzano dovette nutrirsi) si impernia sul motivo centrale della quête, della ricerca ossessiva e continuamente inappagata di un oggetto del desiderio tanto anelato quanto irraggiungibile. Nel caso specifico, l’oggetto del desiderio è un luogo, o meglio un non-luogo, che si suppone esistente ma che risulta inaccessibile; esso appare imprendibile come il fumo e impalpabile come un’idea (e dell’idea – come vedremo – conserva tutta la carica utopica). La suggestione poetica dell’Isola non trovata ma affannosamente ricercata, che si manifesta – ancora un topos letterario tra i più antichi – solo attraverso suoni occulti e profumi misteriosi («S’annuncia col profumo, come una cortigiana, l’isola non trovata... / Ma, se il pilota avanza, rapida si dilegua come parvenza vana»), assume allora una valenza tutta simbolica: è il tentativo, è il tendere verso…, il senso precipuo dell’esperienza umana nel mondo, pur nella consapevolezza che quell’«isola non c’era» (e non c’è), ch’essa è imprendibile e insondabile quanto il senso ultimo dell’esistenza. Come in Gozzano allora, anche in Guccini l’esperienza esotica si configura innanzitutto come viaggio interiore dell’uomo nei meandri della sua stessa esistenza; e tuttavia – lo  rilevava già Paolo Jachia – su di un unico punto l’itinerario gucciniano differisce da quello gozzaniano: salta all’occhio, nel testo di canzone – grande assente, invece, nella matrice poetica – l’«utopia» («Come una splendida utopia»), propria evidentemente di Guccini (ancora giovane, è bene ricordarlo) ma non di Gozzano, sul quale l’incontro col reale ha già prodotto l’amara disillusione.

Ancora a Gozzano, seppur vagamente, potrebbe rimandare Autogrill, testo tra i più fortunati del cantautore. Ancora un itinerario, tra l’altro, e ancora una volta immaginifico, sebbene a partire da un dato di realtà. Il viaggio prende il via, qui, paradossalmente, proprio dal (non) luogo postmoderno per eccellenza, simbolo di ogni sosta dal viaggio, e un Autogrill diventa dunque, nell’immaginario del cantautore, il punto esatto in cui l’itinerario “reale” si interrompe per dar spazio a un tragitto tutto interiore, anche questa volta declinato in chiave onirica. Celebre l’incipit: la visione di una giovane «bella d’una sua bellezza acerba / bionda senza averne l’aria» e al tempo stesso «triste come i fiori e l’erba / di scarpata ferroviaria­» innesca nell’autore la fantasia tardiva di una fuga dall’ordinario, il desiderio istintivo di spezzare la sterile ripetitività del quotidiano in cui lui, come lei d’altronde, si ritrova invischiato. Basterebbero un gesto o una parola per aprire una breccia nello scorrere consueto delle cose e imprimere una nuova direzione agli eventi e invece, giunto al suo acme, l’itinerario onirico è bruscamente interrotto da un progressione sonora («Terminò in un cigolio il mio disco d’atmosfera / si sentì uno sgocciolio in quell’aria al neon e pesa / sovrastò l’acciottolio quella mia frase sospesa») e da uno “choc” visivo (l’irruzione di una coppia di innamorati: «ed io… ma poi arrivò una coppia di sorpresa»), come a sancire l’inevitabile ritorno alla realtà fisica-materiale. La realtà, dunque, con procedimento caro a Gozzano (di cui l’«acciottolio» rappresenta un chiaro omaggio – si consideri La signorina Felicita ovvero la Felicità) mortifica sistematicamente il sogno, il quale non può che realizzarsi che in un altrove spazio-temporale. «E in un attimo, ma come accade spesso, cambiò il volto d’ogni cosa» conclude amaramente Guccini; ed è quell’«attimo» – quello che separa inderogabilmente la realtà dalla sua proiezione immaginaria – il nucleo sul quale si impernia il bivio esistenziale posto da Gozzano ne Le due strade. Anche qui, l’“occasione” è del tutto casuale: durante una passeggiata in montagna il poeta e la sua «Signora» si imbattono in una «Signorina» (sulla contrapposizione anagrafica e, di riflesso, esistenziale tra le due donne è giocato tutto il componimento), che scende a valle in sella alla sua bicicletta. L’inaspettata visione funge anche qui, come poi in Autogrill, da chiave di volta verso una più rosea condizione esistenziale: l’«aroma di quell’adolescenza» emanato dalla «Signorina» condensa in sé, in realtà, l’agrodolce speranza di poter un giorno spezzare la sterile monotonia del quotidiano e approdare a una dimensione più autentica dell’esistenza. Una dimensione tanto autentica quanto illusoria e irraggiungibile, ancora una volta, com’è tipico di Gozzano: «Non mi parlò. D’un balzo salì, prese l’avvio; / […] Amica! E non m’ha detta una parola sola!» conclude il poeta, a rimarcare – come, di riflesso, in Guccini – l’assoluta assenza di un contatto reale tra il protagonista e la donna oggetto dei suoi vagheggiamenti; e poi ancora, di conseguenza, l’isterilirsi dell’itinerario onirico su di un binario di realtà, l’inevitabile resa al piatto meccanismo del quotidiano da cui non è concesso scampo.

Da Gozzano a Montale il passo è breve, e non potrebbe essere altrimenti considerando i debiti che la stessa poesia montaliana intrattiene con il dettato gozzaniano. In questo caso le riprese testuali si fanno più scarne o addirittura latitano per lasciare il posto, però, a non meno rilevanti consonanze tematiche e ideali. Proprio Autogrill potrebbe fungere da punto di snodo del nostro discorso: cosa rappresenta l’epifanica visione della ragazza dietro al bancone se non la reificazione del tentativo simil-montaliano di aprire un «varco» verso una realtà “altra” rispetto a quella consumata e consunta del mero presente spazio-temporale? La ricerca di un «varco», di una «maglia rotta nella rete / che ci stringe» (In limine), di quell’«anello che non tiene» (I limoni) è, d’altronde, uno dei motivi cardine della riflessione esistenziale del poeta e Guccini sembra fare tesoro – consciamente o meno – della lezione montaliana, la cui eco risuona più o meno acuta lungo una certa linea dell’opera del Nostro. Latamente montaliana può apparire, ad esempio, Giorno d’estate, che di fatto riprende, seppur declinandoli, alcuni topoi tipici dell’arido e scabro paesaggio montaliano: centrale, su tutti, il motivo dell’«orto», oltre che una comune, ripetuta insistenza sul «sole che abbaglia», già celebre ne I limoni. Al di là dei possibili rimandi testuali, risulta comune ai due componimenti il tentativo di restituire un clima di sospensione quasi assoluto dalla vita, perseguito nelle forme di un dialogo muto tra il soggetto e gli elementi della natura tutt’attorno. Anche in Guccini, a ben vedere, l’elencazione “oggettuale” degli elementi del paesaggio contribuisce a restituire l’intima disposizione esistenziale dell’autore: essa funge, di fatto, nella sua progressione, da correlativo oggettivo dell’intima indolenza dell’autore, del suo irrisolvibile torpore esistenziale (suoi sono dunque i «grappoli d’ozio»; sua la «religiosa sonnolenza» attribuita all’«orto»).

Come lo spazio, così il tempo: un tempo routinario e senza sussulti, incastrato nella sua fissità ineluttabile appare comune, con le dovute differenze, alla poetica dei due autori. Se Guccini dipinge il quadro sconfortante di giornate che sfumano, senza alcun principio finalistico, nel loro eterno ripetersi («Giornate senza senso / come un mare senza vento / come perle di collane di tristezza», Un altro giorno è andato), Montale, dal canto suo, insiste su quelle «giostre d’ore tutte uguali» (Quasi una fantasia), su quei «minuti eguali e fissi / come i giri di ruota della pompa» (Casa sul mare), su quelle «ore uguali strette in trama» (Arsenio) che pure inchiodano l’io lirico alla sua aporia, rendendolo prigioniero – oggetto sacrificale, non più soggetto – della sua stanca esistenza. La fissità ripetitiva del tempo – e dei tempi, quelli moderni, che costringono l’individuo-macchina all’alienazione – finisce per assumere, in Guccini, i connotati claustrofobici e infernali di un Lager, nello scenario di un intero disco (Metropolis) incentrato sulla resa del disagio esistenziale correlato alla moderna civiltà di stampo cittadino-industriale. “Lager” non è, allora, solo l’infame marchingegno partorito dalla Germania nazista nell’ambito della cosiddetta soluzione finale ma è anche, in senso lato, l’“inferno” quotidiano generato dalla frenesia dei consumi e dalle leggi della produttività ad ogni costo nel perimetro di una società che non può – neanch’essa – fare a meno di ricorrere ad una dialettica di tipo oppresso-oppressore. Alla luce di queste premesse, il Lager di Guccini potrebbe allora essere letto in filigrana con il Sogno del prigioniero montaliano[4]: se Montale, a proposito del prigioniero (che è prigioniero politico sì, ma anche esistenziale) afferma che «la purga dura da sempre, senza un perché», Guccini ribadisce l’idea del lager come «millenaria idea, gran purga d’occidente»; e se Montale – ancora – conclude, per bocca del suo prigioniero, domandandosi «se sarò, al festino, farcitore o farcito», Guccini rovescia il dubbio implicito in interrogativa diretta, domandando «Chi fra voi kapò, chi vittima sarà / in un lager?». D’altronde, lo stesso Montale delineava già, mutatis mutandis, i luoghi cittadini – e, di riflesso, i meccanismi della società moderna – a tinte fosche, quasi infernali («un vuoto risonante di lamenti / soffocati», «una sola / ghiacciata moltitudine di morti», tratteggiava in Arsenio).

Al netto di un’autentica vocazione al dubbio (che non solo avvicina Guccini a Montale, ma anche al Leopardi delle Operette morali, delle cui suggestioni l’intero album Stanze di vita quotidiana è intriso) risulta, infine, comune ai due autori, in virtù di una parentela tutta tematico-ideale, anche un’analoga concezione della conoscenza in termini sostanzialmente negativi, come inevitabile risultato di un’inguaribile attitudine al dubbio, al domandare e domandarsi sempre. «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (Non chiederci la parola), chiosa perentorio Montale come a tracciare il perimetro di una conoscenza che può definirsi solo in negativo; e nel segno della negazione – perfino esistenziale – si conclude il testo gucciniano di Quello che non…, non dichiaratamente montaliano nelle intenzioni ma tutto sommato tale negli effetti se si considera che il brano, dopo la lunga elencazione di una serie di elementi che pure potrebbero fungere da correlativo oggettivo di una disposizione interiore negativa dell’autore («strade deserte», «periferie misteriose», «sedili di un’ex terza classe»), si scioglie poi in una triplice, assoluta negazione finale («Non siamo, non siamo, non siamo»). Alla luce di quanto appena detto, anche la parola risulta inevitabilmente svuotata del suo significato, quasi de-semantizzata nel suo tentativo di “inquadrare” il reale. Se al poeta è bene che non si chieda «la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe» perché vano è il tentativo di esprimere qualsivoglia certezza positiva, così a Gulliver – eroe swiftiano, come altri, imprestato dal patrimonio letterario alla penna di Guccini – è superfluo domandare il resoconto delle sue avventure per terra e per mare perché la parola, mero surrogato dell’esperienza reale, risulterebbe inadatta a restituirne il valore autentico. In questo senso, allora, «di tutte le sue vite vagabondate al sole / restavan vuoti gusci di parole»: la parola, ridotta a guscio svuotato di contenuto intrinseco, permane sotto forma di entità residuale – detrito – significante non significato. D’altronde – sembra qui profilarsi un’altra coincidenza con Montale – l’intima lezione di Gulliver è che «da tempo e mare non s’impara niente»; che l’esperienza sensibile, cioè, sia essa declinata in chiave spaziale o temporale, non è foriera di conoscenza alcuna. Si pone, dunque, un problema gnoseologico di non poco conto; e se «la Storia non è magistra / di niente che ci riguardi», come affermava il Montale de La Storia nell’ultima fase della sua esperienza poetica, inevitabilmente «da essa non s’impara», sembra chiosare Guccini, altrettanto disincantato circa la tendenza a intravedere nello scorrere degli eventi un qualche principio superiore di carattere finalistico-provvidenziale.

Ciò che resta, allora, a conti fatti con l’esperienza, è solo il valore conoscitivo dell’“attimo”: sono «le impressioni di un momento», come «luci nel buio di case intraviste da un treno» (Incontro), gli anfratti entro i quali si annida forse, per il cantautore, il senso autentico dell’esistenza. E se Montale asseriva che «La vita che dà barlumi / è quella che sola tu scorgi» (Il balcone), Guccini pure finisce per guardare al reale con la consapevolezza di poterne appena percepire – mai afferrare – il senso solo a lampi, a sprazzi fugaci. «Siamo qualcosa che non resta / frasi vuote nella testa» (ancora Incontro), espressioni di «un’equazione senza risultato» (Argentina), e risiede tutta qui – nell’impossibilità di risultato – la risposta al quesito atavico sull’esistenza.

 

 

[1] Edoardo Sanguineti, Rap e poesia, in «Bollettino ‘900», 4-5 maggio 1996, pp. 9-11.

[2] Paolo Jachia, Francesco Guccini, 40 anni di storie, romanzi, canzoni, Roma, Editori Riuniti, 2002, p. 237.

[3] Edoardo Sanguineti, Guido Gozzano. Indagini e letture, Torino, Einaudi, 1966, p. 137.

[4] Si ringrazia qui per l’intuizione il giornalista e critico musicale Paolo Talanca.