Bambine che rispondono: le riscritture e lo slittamento dello stereotipo nella poesia di Berta García Faet
Juan Pedro Sánchez López
Traduzione di Francesca Anna Crispo
ABSTRACT
La poesia di Berta García Faet è una delle proposte più originali, audaci e affilate degli ultimi anni. Nei versi della poeta valenziana l’amore, il pop e il kitsch sono intervallati da sperimentazioni formali, citazioni classiche e meta riflessioni. La voce lirica di García Faet contesta gli stereotipi di genere, svelandoli in parte nella loro menzogna e assumendoli dialetticamente a volte come portatori di una qualche verità, facendoli così ricadere su se stessi. Il presente articolo analizza e svela i meccanismi di ampliamento intertestuale e spostamento stereotipato usati ne Los salmos fosforitos, ‘I salmi fosforescenti’, una riscrittura dell’opera Trilce del poeta peruviano César Vallejo.
Berta García Faet’s poetry is one of the most original, risky and overwhelming from the past years. Love, pop and cursilería intermingle with formal experimentation, traditional citation and meta-reflexivity in the Valencian poet’s verses. From gender stereotypes, García Faet’s lyrical voices retort to the same stereotypes, showing them false, but true, and making them fall again. This article analyzes and presents the intertextual widening mechanisms and stereotypical displacement that takes place in Los salmos fosforitos, a rewriting of César Vallejo’s Trilce, as an approach to Berta García Faet’s poetry.
KEYWORDS
García Faet, Poesia, riscrittura, stereotipi, César Vallejo
García Faet, Poetry, rewriting, stereotypes, César Vallejo
Scrivere di ciò che è considerato letterariamente e socialmente femminile è un’istanza poetica e politica per Berta García Faet (Valencia, 1988). In primo luogo, attraverso la messa in discussione delle dinamiche di potere del sistema letterario e sociale, sempre che sia lecito differenziarle come tali. In secondo luogo, perché si occupa del fatto che “la letteratura viene dalla vita e va alla vita”, come avrebbe detto Paul Ricoeur e come sostiene la stessa García Faet, parafrasando le sue parole[1]. In terzo luogo, perché si tratta di analizzare il ruolo della voce poetica e i discorsi che sono stati erroneamente classificati come confessionali e che hanno spinto (e continuano a spingere) le voci delle donne in una dimensione di subalternità nella letteratura. Scrivere di ciò che può isolarti e relegarti in secondo piano non è solo necessario, a volte è inevitabile.
A tal proposito, Monique Wittig ha sottolineato ne Il pensiero eterosessuale che “scrivere un testo che ha tra i suoi temi l’omosessualità è una scommessa, è assumere il rischio che in qualsiasi momento l’elemento formale che è il soggetto determini il significato”, che finisca per essere ciò per cui si legge, allontanandolo da ogni funzione letteraria, e diventi, infine, un testo di tematica sociale (Wittig, 2006: 88)[2]. La stessa questione potrebbe essere posta in quella che viene erroneamente chiamata “letteratura femminile”, una categoria che racchiude e subordina la scrittura delle autrici a un secondo piano, sottostante al discorso egemonico della Letteratura. Seguendo il ragionamento di Wittig, scrivere di questioni socialmente considerate femminili è un rischio, ma un rischio che bisogna assumere per cambiare le dinamiche del sistema letterario. Ed è proprio questo uno dei tanti rischi che corre con successo l’opera poetica di Berta García Faet, già molto vasta, con sei titoli pubblicati e diversi premi[3] che le sono stati conferiti per essere “una delle voci che raccontano la storia della poesia spagnola contemporanea” (Bagué Quilez, 2017). Servendosi degli stereotipi di genere come spazio di genesi poetica, il lavoro di García Faet può essere considerato un luogo di riflessione, riscrittura, consapevolezza di sé e contestazione[4]. Individuare e delineare i meccanismi che lo caratterizzano è l’obiettivo principale di questo articolo.
Nella poesia di García Faet emozioni e sentimentalismo coesistono in un equilibrio riconciliatore con la messa in discussione linguistico-artistica e la preoccupazione formale. Al di là di ogni solennità, le voci di García Faet sono celebrative, auto-ironiche e riflessive, ma (anche) affettuose, enfatiche ed emotive. Le voci, i temi e i riferimenti alla tradizione letteraria, musicale e popolare presenti nella produzione dell’autrice valenziana sono plurali. Ne La edad de merecer, ‘L’età da marito’ (2015), ci sono citazioni, menzioni e riscritture di Ludwig Wittgenstein, Margarita Gautier, Rosa Parks o Beethoven, tra gli altri. Ne Los salmos fosforitos (2017), opera che nel 2018 le è valso il Premio Nazionale di Poesia Giovane “Miguel Hernández” (uno dei più prestigiosi riconoscimenti spagnoli), il ricorso all’intertestualità è portato al limite e la voce poetica si mostra continuamente in un amalgama, come un mosaico esplicito di cui talvolta non resta alcuna traccia. In quest’ultima raccolta di poesie, alla quale fa particolare riferimento il presente studio, viene presentato un io poetico che, pur prendendo spunto dalla dimensione autobiografica, non può essere concepito come confessionale, chiarendo l’inutilità e l’inefficienza di questa categoria negli studi letterari.
Per parlare di Berta García Faet bisogna parlare di passato - dei continui riferimenti e riscritture delle tradizioni artistiche e dell’attenzione alle diverse teorie e critiche letterarie -, di futuro - perché la portata e l’impatto che la sua poetica ha e avrà nei prossimi anni sono ancora da determinare (sebbene mi senta già di dire che saranno notevoli) - ma, soprattutto, di presente. La poesia di García Faet non potrebbe esistere in un altro tempo o luogo che non sia qui e ora, in un momento di effervescenza poetica e agitazione politica, dove si tendono sempre più ponti tra la poesia iberica e quella latino-americana (penso a poete come Ángela Segovia o María Salgado, ad esempio) e dove i femminismi, in convergenza con altri discorsi critici sociali, rappresentano inevitabilmente un ulteriore intreccio all’interno di tutto il panorama poetico. Se è una coincidenza o una casualità che Berta García Faet scriva “sono io, qui, ora, e ti accarezzo i capelli con le labbra” (García Faet, 2015: 42), celebriamo una coincidenza così preziosa. Cogliamola e godiamone perché siamo di fronte a una delle grandi voci contemporanee.
1. Los salmos fosforitos: i movimenti di riscrittura e il dialogo con Trilce
Alcune bambine giocano nei parchi dei viali. Alcune bambine rispondono ai loro genitori nei parchi dei viali. Alcune bambine parlano strano, mettono insieme parole in modo stravagante, geniale, giocando e rispondendo ai loro genitori nei parchi dei viali de Los salmos fosforitos (2017). La raccolta di poesie di Berta García Faet si apre facendo rumore. Il "Chi fa tanto chiasso e non lascia neppure / provare le isole che rimangono" (I)[5] con cui si apre Trilce (1922) di César Vallejo e che colloca il soggetto dell'azione - del "trambusto" - in un terreno ambiguo, si trasforma ne Los salmos fosforitos in certezza: è la voce lirica di García Faet, contestataria e chiassosa. Poesia dopo poesia, strofa dopo strofa, Los salmos fosforitos riscrive Trilce, una delle grandi opere dell'avanguardia poetica del XX secolo. "Chi fa finta di fischiare? Chi c'è lì? Alle 11 di sera, / abbastanza sensualmente / rimani ti concedi?". Fin dai primi versi, la voce poetica sembra aggrapparsi anche al tempo e allo spazio. Nel corso dell’opera, alcuni dei principali strumenti utilizzati come elementi di riscrittura compariranno per rompere questo legame: "Cancelli testamenti aggiudichi teste / scrivi / fischi / fili d’erba?”. Tra i vari meccanismi poetici, il ricorso a parole barrate a cui seguono altre, come appunti, scritte in un colore diverso, diluito in un grigio-quasi-bianco, fa de Los salmos fosforitos un luogo di pluralità temporale, spaziale e identitaria. Sin dalle prime righe, la sensazione è che ci sia qualcosa in agguato che, in qualche modo, ci insegue; qualcosa che si è liberato e comincia a correre, a scappare[6], a scrivere o, come dice la stessa poeta valenziana, a fischiare.
Los salmos fosforitos può essere letto come un’opera a sé stante o in dialogo con Trilce, come spiega la nota-avvertimento finale (García Faet, 2017: 179). La prima modalità, tuttavia, comporterebbe anche aprirla al dialogo con altre opere, secondo una prospettiva intertestuale[7]. Affiancarla a Trilce, allo stesso tempo, richiederebbe di analizzarla da un punto di vista ipertestuale, sebbene non in maniera riduttiva. Al contrario, le letture plurali che si possono fare de Los salmos fosforitos si arricchiscono se si tiene il testo di Vallejo accanto, contrassegnando parole, suoni, materialità, figure retoriche, motivi, temi, forme e giochi poetici diversi che evidenziano una relazione intrinseca nella genesi di un’opera rispetto all’altra. Trilce, in un certo senso, è imprigionata ne Los salmos fosforitos ma questa contenzione non è negativa perché produce una tensione che ne determina la rottura: dai margini dell'ipotesto il soggetto si libera, dai margini Trilce si espande nel gioco del fare versi - che non è poi così tanto un gioco, come scrive Jaime Gil de Biedma – nelle pagine de Los salmos fosforitos.
La relazione ipertestuale tra le due opere crea un legame non solo tra le posizioni di scrittura e le modalità di lettura, ma anche tra il percorso critico dedicato a Trilce e quello, ancora da percorrere, de Los salmos fosforitos. Gran parte della critica rivolta alla raccolta di poesie del 1922 servirà, seppur in modo limitato, a far luce sulla poetica, le voci liriche, i meccanismi di esplorazione poetica e i personaggi che saranno allungati, ampliati e contestati nell’opera del 2017. Los salmos fosforitos, d’altro canto, pur mantenendo una relazione ipertestuale e di parallelismo con il testo di Vallejo, possiede un’inclinazione a un certo ermetismo. Nelle sue pagine si creano rapporti di tensione tra il lettore e le voci liriche che, insieme a una tendenza alla scrittura frammentaria e alla continua rottura sintattica, rendono evidente la necessità dell'azione della lettura, del resto sempre imprescindibile. Attraverso un dialogo quasi forzato, il lettore viene coinvolto in un'attività esplicita: riempire spazi e stabilire legami tra significanti e significati che sembrano andati persi o, almeno, rimandati.
Come accade per Trilce, ne Los salmos fosforitos la spina dorsale è rappresentata dalla sfera conversazionale. L’incipit in media res catapulta il lettore nel mezzo di un dialogo già avviato al quale, quasi in modo poliziesco, non può sottrarsi. Gli enunciati cessano di essere autoconclusivi, con un unico parlante, e lasciano il posto, come afferma Michelle Clayton - una delle massime esperte dell'opera di Vallejo - alle "voci del mondo", che implodono, pertanto, in infiniti atti di parola frammentati di una poesia che ha origine nella moltitudine stessa (2011: 18). Tuttavia, proprio come sottolinea Clayton, Trilce non è solo l'incorporazione della molteplicità di voci nella poesia, ma è essa stessa la piena installazione del corpo nella poesia, un ricongiungimento del linguaggio con l'esperienza sensoriale (idem). Lo stesso vale per Los salmos fosforitos, dove il legame diretto con la lingua e le figure retoriche colloca in primo piano il corpo, nucleo - talvolta centrato, talvolta decentrato - dello spazio poetico, come in "Mi gettai a terra in tutta la mia lunghezza / Un pomeriggio dopo l’altro infilai ciuffi d’erba" (IV), o in “Quando i viali sono completamente bui / cammino fischiando con i miei leucociti / perché sono in piedi perché non tocco terra” (VII).
Il corpo, vertice principale delle poesie, è allo stesso tempo anche vortice e trascina nello spazio poetico tutto ciò che individua, ascolta, tocca, vede, fiuta, ingerisce ed espelle. Il corpo (della voce poetica e, a sua volta, quello testuale) diventa un turbine che raccoglie e mescola ogni sorta di oggetto e azione: dalla deiezione ("prima o poi tutto viene / e tutto va, / anche le feci / come una sintesi di vino bianco / e vino rosso" [I]) alle riflessioni metafisiche ("«Ho indagato me stesso»", disse Eraclito; / "«e non mi fa male»", / dissi io, "«e anche io / dico bugie»" [LI]). C'è qualcosa, in questo senso, che si annida, che ci trascina in quel vortice, che ci perseguita, sia in Trilce che ne Los salmos fosforitos. A differenza della raccolta di Vallejo, però, in quella di García Faet il corpo al centro, che viene esposto in una sorta di "striptease", è quello di una donna. Anzi, è il corpo di una pluralità di donne diverse che si moltiplicano, andando in ogni direzione; donne che diventano bambine, bambine che diventano soggetti, soggetti che diventano corpi, corpi che diventano linguaggio e viceversa.
Nonostante seguano la numerazione romana come in Trilce, le poesie de Los salmos fosforitos sembrano non rispettare un ordine interno o una linea narrativa che restituisca un senso unico dell'opera. Come fa notare Clayton a proposito dell’opera di Vallejo, si possono individuare continuità di tono, stile o tematica, ma sono tutte eccezionali e sembrano pensate apposta per dare una falsa sensazione di sicurezza (2011: 105). Quando ne Los salmos fosforitos cerchiamo di afferrare qualcosa con una certa sicurezza, di aggrapparci con determinazione alla voce, allo spazio, al tempo o anche alle immagini, tutto crolla. Non appena si avverte un minimo di stabilità, ecco che questa inizia a cedere. Come acqua fra i pugni, scorre via per bagnare tutto quello che c’è intorno. I simboli, infatti, sfuggono per andare alla deriva in spazi contigui, fondendosi in metonimie.
Tutto ciò che ha la minima pretesa di fungere da simbolo ne Los salmos fosforitos implode, individuando ciò che è contiguo e sconfinando. C'è, così come in Trilce, un impulso dell’esercizio metonimico che sposta la metafora, collocandola al centro della genesi poetica, e relega la dimensione figurativa dopo quella letterale (ibidem: 103). Oltre a preferire la metonimia alla metafora, Clayton individua in Trilce altre due modalità di rappresentazione che, analogamente, riscontriamo ne Los salmos fosforitos: da un lato, il già anticipato insediamento nelle poetiche dell'obliquo, del misto e del frammentario; dall'altro, l'incorporazione dello spreco, dello scarto (“waste”), dell'assenza e della negatività in un ripensamento lirico della presenza e della possibilità (ibidem: 103-104). Nelle raccolte di poesie queste tre modalità di rappresentazione danno vita a un complesso marchingegno il cui funzionamento ha come scopo l’annientamento del simbolo.
Per introdurre i meccanismi di riscrittura e i presupposti poetici e politici di contestazione degli stereotipi nell'opera di García Faet, propongo una suddivisione essenziale e approssimativa della sua ultima raccolta di poesie. Nella prima parte, dalla poesia I alla X, vengono presentati e introdotti, tra le altre cose, i meccanismi poetico-retorici del libro. Questi dieci componimenti, inoltre, sono quelli che più si avvicinano al testo di Vallejo, dove la struttura, le figure retoriche e i temi della raccolta originale di poesie sono rispettati con più precisione. La seconda parte, che comprende le poesie dalla XI alla XL, riguarda la comparsa e la trasformazione del personaggio della "bambina" o "cugina" di Vallejo nella neo-bambina, sdoppiamento della voce lirica, che funge da ancora per l'elaborazione del discorso poetico e da figura centrale da cui si origina l'ampliamento dello stereotipo. Questa seconda parte si allontana in misura maggiore dall'ipotesto, il più delle volte lasciando solo come traccia le modifiche dei primi versi e una struttura strofica simile, sebbene aumentata (o allungata) da un punto di vista dei versi. In essi emerge una predominanza dell'astrazione che prevale nel testo di Vallejo. Inoltre, si riscontra una certa inclinazione a stabilire e individuare la relazione tra il corpo della voce lirica e ciò che è esterno ad esso, il che rende questo secondo gruppo di componimenti più orientati verso la critica sociale e la riflessione sul privilegio di classe.
Infine, la terza parte va dal poema XLI all’ultimo, il LXXVII. È qui che si rivelano due morti - quella di Dio e del nonno della voce poetica – sebbene fossero già state anticipate più o meno esplicitamente nei versi precedenti. In quest'ultima parte, come conseguenza delle perdite del nonno e di Dio, rispettivamente, emerge una certa tendenza all'introspezione nel corpo della voce lirica, dando luogo a uno spazio marcatamente autobiografico[8]. E in questo spazio dell'autobiografia, García Faet fa uso di una memoria che guarda al passato e contemporaneamente si protrae verso il futuro, creando un impulso di attrazione-repulsione in un terreno dell'«io» che, seguendo la regola poetica della frammentazione e dell'obliquità descritta sopra, non arriverà mai a configurarsi del tutto. Questo perché, nelle poesie, Berta García Faet non è mai veramente Berta García Faet. Inoltre, in quest'ultima parte, si assiste a una proliferazione di personaggi familiari e a un ancoraggio ai luoghi legati all'infanzia come Valencia, terra natale della poeta, che appare esplicitamente nelle poesie LXI, "mi vestivano da neo-bambino fallero"[9] e LXXII, “Via Pirotecnia Brunchú nº 87", per esempio.
Questa divisione in tre parti serve a delimitare, come è stato sottolineato, tre momenti diversi ne Los salmos fosforitos. Il primo gioca un ruolo chiave nella raccolta, poiché le dieci poesie iniziali gettano le basi per il funzionamento sia della riscrittura che delle principali figure retoriche impiegate per metterla in pratica. Ogni esercizio fondamentale ne Los salmos fosforitos è un esercizio di allungamento. I suoi versi prendono forma dal movimento e dall'assenza di qualunque appiglio. Il loro impulso è rappresentato dallo sdoppiamento. Spesso questi stiramenti - movimenti predominanti anche nella raccolta di poesie di Vallejo – vengono messi in atto con tono comico, come accade all'inizio della poesia IV: il testo di Vallejo – "Cigolano due carri contro i martelli / fino ai lacrimali triforchi / eppure non gli abbiamo mai fatto niente” – si trasforma nella raccolta di García Faet in “Pseudo-asiatico ancora il mio / cuore / maschera o pozza o tiglio (sto scherzando, mi dispiace / mi dispiace per la tempesta) / piagnucola abbondantemente, consuma risse tripartite / con grande ingiustizia, batte e cigola”. Altre volte, servono ad amplificare i riferimenti intertestuali e, contemporaneamente, a modificare il tempo e lo spazio di partenza come nell'apertura del poema III, dove “Gli anziani / a che ora torneranno? / Il cielo delle sei di Santiago, / ed è già così buio” diventa “Le scure rondini le scure persone le scure / albe sessuali torneranno? / Molto molto molto tardi / sono quasi le 11 di sera in 5 o 6 città. / sono le 11:03 di sera / secondo i miei 5 o 6 / funghi”.
Il barrato, le dislocazioni, gli allungamenti, la derivazione metonimica ma anche quella tonale su carta sono gli elementi principali con cui si porta a compimento la riscrittura nella raccolta di poesie di García Faet. Le parole sono sospese mentre vengono attraversate da linee che le fendono. Dopo il barrato appaiono commenti, appunti che rappresentano la poesia stessa. E la poesia si allunga, i significati vengono rimandati, tutto viene spinto oltre i loro confini[10]. Anche l'epigrafe, che è un'altra citazione di Vallejo, punta in questa direzione (o, meglio, in queste direzioni): "Mia amata, andiamo al limite”. In questo senso, la "strada" (singolare) - spazio urbano essenziale nello sviluppo della voce poetica di Vallejo - viene rivista e riformulata non appena appare nella poesia VII sotto forma di "viali" (plurale). Tale trasformazione comporta non solo un ampliamento spaziale, ma anche un'estensione dell'intenzione comunicativa dei componimenti. Le strade, per definizione, tendono ad essere a senso unico e più strette; i viali, invece, di maggior rilevanza in un progetto urbanistico, sono più grandi, a doppio senso e tendono a comunicare punti nevralgici della città, basta guardare le mappe di Parigi, Buenos Aires o New York. Questa tendenza all'espansione e all'allargamento presuppone, dunque, un orientamento spaziale determinato ne Los salmos fosforitos verso la dimensione comunicativa, verso cioè che è plurale, aperto, riprendendo così la quarta proposizione che Roland Barthes dà nella definizione di "Testo" all’interno del suo saggio "Dall'opera al testo":
Il testo è plurale. Il che non equivale solo a dire che ha diversi significati, ma che realizza la pluralità stessa del significato: una pluralità irriducibile (e non solo accettabile). Il Testo non è coesistenza di significati, ma un passaggio, un attraversamento; non può quindi dipendere da un'interpretazione, nemmeno da un'interpretazione liberale, ma da un'esplosione, una diffusione. La pluralità del Testo, infatti, si basa, non sull'ambiguità dei contenuti, ma su quella che si potrebbe definire pluralità stereografica dei significanti che lo tessono (etimologicamente, il testo è un tessuto) (1994: 77)[11].
Se il testo è tessuto, la voce lirica di García Faet agisce come il ragno che - come descrive lo stesso Barthes in un altro dei suoi famosi articoli, "Il piacere del testo" - si dissolve nelle segregazioni costruttive della sua tela (1993: 104). Come un ragno, la voce lirica si arrampica e scivola liberamente sul tessuto e se questo non è abbastanza grande, lo allarga in modo che tutto il suo perimetro possa occupare quanto più spazio possibile e aumentino le possibilità di movimento. Viene così eretta un'architettura appiccicosa, impossibile da spostare e replicare, orientata sempre verso l'esterno: le poesie de Los Salmos fosforitos. In esse, ciò che in Trilce è stagnante e chiuso - "sono rimasti nel pozzo dell'acqua, pronti, / carichi di dolci per domani" (III) – si libera, si apre e si espande: "nel fiume si immergono - come verità oggettiva - / molteplici pezzi di papaia di mango di loto / e io viaggio in aerei che sembrano navi o / rondini scure" (III).
2. L'ampliamento e la pluralizzazione degli spazi e dei corpi: analisi delle poesie X e XI.
Tra tutti gli elementi che si ampliano ne Los salmos fosforitos, il discorso patriarcale presente nel testo di partenza è quello che si sviluppa con maggiore intensità. Nella raccolta di poesie di García Faet, le figure femminili e tutto ciò che le riguarda - voci, corpi, materialità, temi –, investite dai femminismi e dalle teorie queer, sperimentano molteplici stiramenti nella scrittura poetica, indispensabili per la collocazione della voce lirica negli spazi creati all’interno delle poesie. In questo senso, singolare è la riscrittura della poesia X, in cui Vallejo riprende la morte di una donna incinta come asse tematico per la poesia – "Pristina e ultima pietra di infondata / ventura è appena morta / con l’anima e tutto il resto, ottobre stanza e incinta”. La reificazione, e persino l'animalizzazione della figura femminile da parte dello sguardo maschile ("Come scolmano le balene a colombe. / Come queste a loro volta lasciano il becco / cubato in terza ala"), sono adottate come punto di partenza nella poesia di García Faet, ricolma di toni ironici e di un distanziamento quasi sarcastico:
Di tutta la vita di Dio in questo oroscopo / di lettere e numeri e semi di 1.000 / colori riferiti / sera dopo sera muoiono (perché non toccano terra, / insomma ipotizzo, / a freddo) / i fiori gravidi / In autunno considerando / (...) / ammuffisce il dulce de leche[12] (il bambino pesa / 2,6 eoni o unghie) Vedi? / C'è sangue / e dulce de leche e tarme (García Faet, 2017: 28).
Il sangue che appare come segno di violenza - ma che assumerà molte altre accezioni e significati metonimici in tutta la raccolta di poesie di García Faet con la ripetizione di "Vedi? / C'è sangue" (come nei componimenti XXIV, XXVI o LIX, ad esempio) - colloca la poesia nello spazio della critica. Il sangue, in diretta unione con il corpo, si trova in condizioni normali al suo interno ma quando la pelle viene perforata o qualcosa si altera nel corpo, ecco che il sangue fuoriesce. Il fluido cessa di essere endovenoso e diventa così un segno della contiguità del corpo stesso, i cui limiti, come sottolinea Donna Haraway, non devono essere costretti in ciò che racchiude la pelle (1991: 75). Nella poesia il sangue, associato al corpo, sta a rappresentare inoltre e in maniera contigua le mestruazioni e l'utero ("donne / come un seguito di calici"). In questo senso, lo sguardo maschile reificante della poesia di Vallejo propizia l'inizio della collocazione della voce lirica nello stereotipo, la donna contemplata, la donna-oggetto, il corpo trascinato nella dimensione del non-umano:
Il regno animale è curioso. Sono confusa / (cos'è una balena? sono una / colomba? una?), / da 1000 secoli le donne vengono trattate / come trattati di fiori, cioè senza / ali / senza lettere senza numeri, cioè come numeri / Dite / che non ragioniamo, / che il nostro cervello è un arpione o una tarma, puro latte (García Faet, 2017: 29).
Il grado di astrazione diminuisce mentre la dislocazione del verso e la rottura sintattica aumentano in questi momenti di chiarezza dove la voce di García Faet si annida, pungente, per versare ancora più sangue in alcuni punti. È qui che si stabiliscono le coordinate del corpo come vertice-vortice, la cui collocazione funge da luogo per la critica sociale della reificazione della donna. Questa incisione nel sangue, nel corpo e nella gravidanza è inoltre fondamentale, poiché si tratta di elementi che rimandano alla figura materna.
In tal senso, la perdita della madre caratterizza, da un punto di vista sentimentale, tematico e ritmico, la voce poetica di Trilce. In questa dichiarazione di orfanezza della voce lirica si riscontra un rapporto diretto con le poetiche d'avanguardia, poiché implica la dichiarazione di se stessi come punto di origine storica (Clayton, 2011: 110). In queste prime dieci poesie - dove in Trilce la madre era una presenza assente, un ricordo riecheggiante e riecheggiato - la voce di García Faet si traspone nella figura materna stessa, si proietta in forze future, facendosi anche eco di un discorso eteropatriarcale che trascina la figura femminile nello stereotipo della madre. Tuttavia, ne Los salmos fosforitos, le potenzialità non finiscono mai per concretizzarsi davvero, dissolvendosi in domande: “Una curiosità, / sarai una mamma che non arriva mai in ritardo?" (III) diventa un elemento che sarà ripetuto in maniera costante e anaforica, simulando un pensiero invadente, un discorso esterno, in un certo senso opprimente, che riappare solo tre poesie dopo: "Sarò capace? Azzurra / o grigia? Sarò / una mamma che non arriva mai in ritardo, / che è sempre al tuo fianco / sempre al tuo fianco, bambino mio?" (VI). La voce sdoppiata di García Faet, che è sia figlia che madre ipotetica, contesta il discorso stereotipato: "Cosa farebbe / mia madre? Rifiuterò la dottrina / dell'anima grigia o blu" (VI); perché "le madri / (...) / sono un miscuglio / di balene e, sì, sì, / di colombe" (X), perché l'unicità scivola via come la possibilità di stabilirsi, tutto si amplia ne Los salmos fosforitos. Come in un gioco infantile, come nel linguaggio delle bambine, i versi e i sintagmi si allungano come corde. La forza-madre scompare - "[c]hi finge di fischiare? (I) - perché la neo-bambina è arrivata.
All'inizio del poema XI, punto di svolta verso la seconda parte del libro, la voce lirica di García Faet si imbatte in "una neo-bambina/ lungo i viali (della memoria, si capisce)", che viene direttamente da Trilce: "Ho trovato una bambina/ per strada". La donna infantilizzata di Vallejo abbraccia, come indica il testo, il soggetto poetico mentre la neo-bambina di García-Faet si sottrae a quest’azione - " si noti come ometto ogni / allusione mitologica" -. Partendo dalla riscrittura femminista e dalla derivazione morfologica, García Faet introduce un neologismo e allo stesso tempo presenta il personaggio principale de Los salmos fosforitos. Questa "bambina" - che "è mia cugina", scrive Vallejo; "la [m]ia neo-bambina" che "non è niente di mio", risponde García Faet - sarà evocata più di venti volte nelle quasi duecento pagine della raccolta, facendo di lei un asse centrale della genesi poetica che servirà allo sdoppiamento - sul piano della memoria fittizia, s'intende - della voce poetica. La figura della bambina di Vallejo, come quella della donna incinta nella poesia precedente, è presentata in maniera oggettivata e infantilizzata; il suo fisico sembra un elemento di giudizio: "X, dissertata, chi la trovò e la troverà, / non la ricorderà" (XI).
Quando in Trilce la voce poetica tocca "il girovita [della bambina, di sua cugina]" e le sue mani entrano "nella sua età / come in due sepolcri mal intonacati", si crea una relazione soggetto-oggetto che spinge il personaggio della cugina a un maggior grado di abiezione e subalternità se si considera, in primis, il suo genere. Il quadro descrittivo e attuativo del personaggio della cugina si riduce a un discorso di stereotipi: è la donna infantilizzata, relegata quindi a un grado di maturità irraggiungibile per il genere stesso di "donna": la donna incompleta, la donna negata. Questa "bambina", inoltre, si sessualizza, ricordando quei "[t]ardi anni latitudinali, / (...) / giocando ai tori, con i gioghi". L'unione corporea implicita nell'introduzione dei "gioghi" tra gli "amanti" ("tori") si espande, come tutti gli elementi riscritti, ne Los salmos fosforitos. La riduzione dell'atto sessuale a un'animalizzazione nel poema trilciano si trasforma in una sella ("che voglia di sedermi a cavalcioni / su una poltrona") e, allo stesso modo, il toro-singolare, uno degli animali simbolo della mascolinità, della terra, dell'inamovibile e della forza, diventa animali-plurali definiti dal movimento, dalle ali, dal cielo, da ciò che migra, vale a dire dagli "uccelli".
Parallelamente, l'introduzione delle mani del soggetto di Vallejo nell'"età" della "bambina" dà luogo all'acclamazione che trascina e contesta il discorso della reificazione: "i miei artigli solitari celebrarono la sua esistenza / (rapidamente) / nell'età / dell'oro della letteratura spagnola (L. de Góngora, / guastafeste, / apprezzi la bellezza / come morte, addio! Allontanati da lei! La mia neo-bambina/ si sta già allontanando, da brava.)". L'"età", punto di partenza dell'ipotesto, finisce per essere un punto di fuga che indica diverse direzioni nell'ipertesto. Perché García Faet ribalta il discorso introducendo Góngora, seguendo una linea precisa nel disegno di una costellazione intertestuale di autori canonici che vengono menzionati, citati e contestati - così come succede per Vallejo - ne Los salmos fosforitos[13].
A questi ampliamenti delle figure poetiche corrispondono, a loro volta, ampliamenti comunicativi. Dove c’è una presenza quasi univoca nel poema XI di Vallejo, in quello di García Faet troviamo una polifonia esplicita. In questo senso, la voce della "bambina" di Vallejo si sente solo per annunciare il suo matrimonio ("«Mi sono sposata»", / mi dice. Quando quello che facemmo da bambini / nella casa della zia defunta"), notizia che il soggetto poetico trilciano sembra digerire difficilmente, dal momento che l'informazione viene poi subito ripresa su un piano interno di coscienza discorsiva: "Si è sposata. / Si è sposata". Al contrario, l'annuncio dell'evento nuziale ne Los salmos fosforitos innesca una conversazione tra la voce lirica e il personaggio della neo-bambina, un dialogo che si svolge anche su un piano della coscienza individuale discorsiva, poiché non bisogna dimenticare che la neo-bambina è uno sdoppiamento pseudo-mnemonico della voce di García Faet:
«Mi sono sposata», mi dice. «Con chi?», le dico. / «Con te no», mi dice, da brava. / Il mio ragazzo adolescente (di Salisburgo) / ha sposato una ragazza cinese, / ci sono già passata. «Mi sono sposata», mi dice. / «Ci sono già passata», le confesso. / «Congratulazioni, non sei sola, ti confesso che / non puoi andartene» (García Faet, 2017: 32).
Se la poesia X può considerarsi come l'inizio dell'insediamento nello stereotipo come spazio di genesi poetica - dal momento che appare la figura materna riscritta e si colloca al centro un corpo femminile reificato nel testo originale - la poesia XI dovrebbe essere intesa come l'ancoraggio della voce lirica in quel discorso stereotipato. Uno stereotipo che, da una prospettiva ipertestuale, cerca di esplorare, allungare e ampliare o, in altre parole, rispondere. La "bambina" di Vallejo, dunque, è sulla falsariga di Lévi-Strauss ne "L'uomo nudo", quarto volume di Mitologica, lo "spazio semantico negativo". Un soggetto-altro subordinato al soggetto che si considera come origine e che viene visto, quindi, come "componente o contrappunto sessuale del soggetto generico (maschile)”[14](Lévi-Strauss in De Lauretis, 1992: 256). La neo-bambina di García Faet implica, al contrario, uno spazio di spostamento di questa relazione subordinante e subordinata. Prendendo in prestito le parole con cui Teresa de Lauretis si riferisce al movimento di riscrittura di Luce Irigaray[15], García Faet introduce "la propria voce critica all'interno di quell'argomentazione superbamente tessuta e creando un effetto di distanza, come un'eco discordante, (...) rompe la coerenza del suo pubblico di riferimento e sposta il significato" (1992: 17). Mette in primo piano il corpo della donna in modo contestatario e ciò che è socialmente e letterariamente inteso come femminile diventa elemento di genesi poetico-soggettiva.
L'apparizione della neo-bambina presuppone, dunque, la prova della collocazione della voce poetica in un discorso di origine che si cerca di spostare, dislocare, trasgredire. Los salmos fosforitos è uno spazio poetico di ampliamento degli stereotipi prodotto mediante il cortocircuito dei sistemi che naturalizzano il suo funzionamento. Infantilismi, kitsch, dolcezza – ciò che ci si aspetta per la voce infantilizzata della donna - convergono in un corpo che si espande continuamente attraverso elementi che da lui fuoriescono: sangue, lacrime e voce - rivolti alla critica sociale e a riflessioni più fisiche che metafisiche, così come alla riflessione meta poetica ("le poesie sono inutili / quindi smetterò di scrivere / questa poesia questo libro di poesie" [XLVIII]) - sono elementi che toccano e debordano il corpo. E, sebbene ci sia un continuo fallimento o un costante dubitare della funzione della poesia, ne Los salmos fosforitos non vi è spazio per la rinuncia. Al contrario, si assiste a un’assidua ricerca di ciò che causa il fallimento. Per questo motivo, la neo-bambina non viene mai abbandonata. Viene accompagnata per mano lungo i viali della memoria e percorre, insieme alla voce lirica, la scrittura poetica, i fischi, gli ampliamenti spaziali e degli stereotipi. "Cosa ne pensi? Tutto crolla?", chiede la voce poetica alla fine della poesia XXXIII. Ne Los salmos fosforitos, naturalmente, tutto crolla: i discorsi appassionanti, i sintagmi che si allungano, gli spazi che si allargano. Crollano corpi, simboli, morti, significati. Tutto crolla tranne la neo-bambina, che è quella che fa crollare tutto il resto perché risponde. E intanto Berta García Faet sale, sempre più in alto.
Bibliografia
Barthes, R. (1993): “El placer del texto”, in El placer del texto y Lección inaugural, Madrid, Siglo Veintiuno.
— — (1994): “De la obra al texto”, in El susurro del lenguaje. Más allá de la palabra y la escritura, Barcelona, Paidós.
Bagué Quílez, L. (2017): “Versos impuros”, in El País, Disponibile al link: https://elpais.com/cultura/2017/05/31/babelia/1496243267_163759.html [Ultima consultazione: 30 giugno 2021].
Clayton, M. (2011): Poetry in pieces, Berkeley and Los Angeles, University of California Press.
De Diego, E. (2011): No soy yo, Madrid, Siruela.
De Lauretis, T. (1992): Alicia ya no. Feminismo, Semiótica, Cine, Madrid, Cátedra.
García Faet, B. (2015): La edad de merecer, La Bella Varsovia, Madrid.
— — (2017): Los salmos fosforitos, La Bella Varsovia, Madrid
— — (2018a): “Berta García Faet: «La literatura viene de la vida y va a la vida»” [intervista realizzata da L. Márquez], in Culturplaza. Disponibile al link: https://valenciaplaza.com/berta-garcia-faet-la-literatura-viene-de-la-vida-y-va-a-la-vida [Ultima consultazione: 30 giugno 2021].
— — (2018b): “Otra vuelta de tuerca al estereotipo de la poesía femenina” [intervista realizzata da A. Lara], in Literal. Disponibile al link: https://literalmagazine.com/otra-vuelta-de-tuerca-al-estereotipo-de-la-poesia-femenina/ [Ultima consultazione: 30 giugno 2021].
Genette, G. (1989): Palimpsestos: La literatura en segundo grado, Madrid, Taurus.
Haraway, D. (1991): A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, New York, Routledge.
Vallejo, César (2018): Trilce, Girona/Málaga, Luces de Gálibo.
Wittig, M. (2006): El pensamiento heterosexual y otros ensayos, Egalés, Madrid.
[2] NdT. Tutte le citazioni nella versione originale sono in spagnolo e fanno riferimento alle edizioni in tale lingua usate dall’autore. Non avendo, invece, chi traduce le edizioni italiane a disposizione, si trascrive qui una traduzione di servizio.
[3] Berta García Faet ha pubblicato finora Manojo de abominaciones, ‘Branco di abomini’ (Premio di Poesia “Ana de Valle”, 2008), Night club para alumnas aplicadas, ‘Night club per alunne diligenti’ (Premio Nazionale di Poesia “Ciega de Manzanares”, 2009), Introducción a todo, ‘Introduzione a tutto’ (Premio di Poesia Giovane “Pablo Baena”, 2011), Corazón tradicionalista, ‘Cuore tradizionalista’ (La Bella Varsovia, 2018), che è una raccolta delle opere precedenti, La edad de merecer, ‘L’età da marito’ (La Bella Varsovia, 2015), tradotto in inglese con il titolo The Eligible Age (Song Bridge Press, 2018), e Los salmos fosforitos, ‘I salmi fosforescenti’ (La Bella Varsovia, 2017).
[4] La stessa autrice ne ha parlato in diverse interviste, esprimendosi chiaramente su questa consapevolezza dello stereotipo e del suo posto nella scrittura: "Nelle mie prime raccolte il sentimentalismo «femminile» è intenso ma non completamente cieco, non è un automatismo. Man mano che cresco, e cresco anche nei miei libri, accettare i «copioni sociali», gli stereotipi di genere, è allo stesso tempo impulso e meta-coscienza, vizio e autocritica e critica ideologica. È una scelta, una scelta contraddittoria, forse tragicomica (...) Concepisco l'emotività come un altro giro di vite nei confronti dello stereotipo letterario-ideologico della poesia femminile intesa come «confessionale» e «sdolcinata»” (García Faet, 2018b).
[5] Faccio ricorso a questo tipo di citazione, indicando la poesia e non la pagina del libro, per due motivi. Innanzitutto, perché la posizione di ogni poesia cambia a seconda delle edizioni di Trilce, che sono molte e diverse fra loro. Ma soprattutto perché nel realizzare uno studio sulla riscrittura di Trilce da parte di García Faet risulta molto più utile il numero della poesia che è stata riscritta piuttosto che la pagina nella quale si trova. Affidarsi a uno stile di citazioni basato sulla numerazione delle pagine, pertanto, comprometterebbe la relazione fra le singole poesie e, di conseguenza, la lettura della presente analisi. Ad ogni modo, d’ora in avanti l’edizione a cui si farà riferimento, come indicato anche nella bibliografia, sarà quella di Trice di Luces de Galibo (2018).
[6] Come scrive Berta García Faet in un’annotazione finale a mo’ di avvertimento: “Questo libro dovrebbe (mi dispiace dire «dovrebbe» ma è così) essere letto in ordine. Ha uno spirito di sestina e, se fosse musica, sarebbe una fuga. Ma poi tornerebbe” (2017: 179).
[7] Qui mi riferisco alle tesi sostenute da Gérard Genette in Palinsesti. La letteratura al secondo grado (1962). Nelle prime pagine dell'opera vengono fornite le definizioni di transtestualità, in cui si inquadrano l'intertestualità – "una relazione di copresenza fra due o più testi, vale a dire, eideticamente e come avviene nella maggior parte dei casi, la presenza effettiva di un testo in un altro" (1989: 11-13) - e l’ipertestualità - "ogni relazione che lega un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo A precedente (che chiamerò ipotesto) all'interno del quale si colloca in un modo che è diverso dal commento" (ibidem: 14-17). Sono queste le due definizioni di cui mi avvalgo per spiegare i legami che si creano tra Los salmos fosforitos e Trilce.
[8] Per «autobiografia» intendo, come dice Regine Hampel, non solo la scrittura sul soggetto ma anche la scrittura del soggetto stesso. In questo senso, "[u]n testo autobiografico non può essere visto come una rappresentazione letterale, basata sui fatti, del soggetto la cui identità e storia sono fissate una volta per tutte, ma come una creazione letteraria che produce una versione fittizia di un soggetto piuttosto sfuggente il cui significato si evolve solo nel processo di scrittura" (Hampel in De Diego, 2011: 128).
[9] NdT. Partecipante alla festa de las Fallas di Valencia.
[10] Questo commento è una modifica di una nota fatta da Ángela Segovia nella sua critica a Los salmos fosforitos intitolata "Mecanismos de ensanchamiento en Los salmos fosforitos de Berta García Faet", “Meccanismi di ampliamento ne Los Salmos fosforitos di Berta García Faet”, pubblicata online da Oculta Lit ma non più consultabile dopo la chiusura del sito.
[11] NdT. La traduzione in italiano è della traduttrice dell’articolo.
[12] NdT. Dessert di origine sudamericana a base di latte e zucchero.
[14] Questa idea, come indicato nella citazione, viene sviluppata nel sesto saggio di Alicia ya no (Alice non più), di Teresa de Lauretis, "Semiótica y experiencia" (Semiotica ed esperienza), che si apre sottolineando la necessità di vedere il soggetto femminile non in un rapporto verticale, cioè di subordinazione, rispetto a quello maschile ma che per essere capito deve prestare attenzione alle esperienze femminili che non comprendano tale rapporto con il genere maschile in modo originario.
[15] Teresa de Lauretis si riferisce alla riscrittura da parte di Luce Irigaray del testo di Freud "Femminilità" in Espéculo de otra mujer (Speculum di un'altra donna). Analogamente, si possono apprezzare alcuni parallelismi negli approcci femministi se notiamo che anche il testo di García Faet riscrive un testo canonico redatto da un uomo.
Testo originale di Juan Pedro Sánchez López
ABSTRACT
La poesía de Berta García Faet es una de las propuestas más originales, arriesgadas y contundentes de los últimos años. El amor, el pop y la cursilería se entremezclan con la experimentación formal, la citación tradicional y la metarreflexión en los versos de la poeta valenciana. Desde los estereotipos de género, las voces líricas de García Faet contestan a los mismos estereotipos, haciendo ver que son mentira, y un poco verdad, y haciéndolos caer de nuevo. En este artículo se analiza y muestran los mecanismos de ensanchamiento intertextual y de desplazamiento estereotípico que se llevan a cabo en Los salmos fosforitos, una reescritura de Trilce de César Vallejo, como un acercamiento a la poesía de Berta García Faet.
KEYWORDS
García Faet, Poesía, Reescritura, Estereotipos, Vallejo
Escribir sobre aquello considerado literaria y socialmente como femenino es una cuestión poética y política para Berta García Faet (València, 1988). Primero, porque se cuestionan las dinámicas de poder del sistema literario y social —si pudiesen separarse como tal—. Segundo, porque supone atender a la cuestión de que “la literatura viene de la vida y va a la vida”, como bien apuntaría Paul Ricoeur y la propia Berta García Faet, prestándose de sus palabras[1]. Tercero, porque implica discutir el lugar de la voz poética y los discursos que se han malcategorizado como confesionales y que empujaban (y siguen empujando) a las voces de las mujeres a un lugar secundario en la literatura. Escribir sobre lo que te puede apartar y relegar a un segundo plano no solo es necesario, a veces es inevitable.
Apuntaba Monique Wittig a este respecto en El pensamiento heterosexual que “escribir un texto que tenga entre sus temas la homosexualidad es una apuesta, es asumir el riesgo de que en cualquier momento el elemento formal que es el tema sobredetermine el sentido”, que acabe siendo aquello por lo que se lea, apartándolo de toda función literaria y se convierta, finalmente, en un texto de temática social (Wittig, 2006: 88). La misma cuestión podría extrapolarse a aquello maldenominado «literatura de mujeres», una categoría que encierra y subordina la escritura de las autoras a un segundo plano que discurre por debajo del discurso hegemónico de la Literatura. Siguiendo el apunte de Wittig, escribir sobre cuestiones socialmente consideradas como femeninas supone un riesgo, pero un riesgo que hemos de asumir para cambiar las dinámicas del sistema literario. Este es, de hecho, uno de los tantos riesgos que toma felizmente toda la obra poética de Berta García Faet, ya anchísima, con seis títulos publicados y varios premios[2] que la sitúan como “una de las voces que cuentan el relato de la poesía española reciente” (Bagué Quilez, 2017). Utilizando los estereotipos de género como espacio de génesis poética, la obra de García Faet podría considerarse como un espacio de reflexión, reescritura, autoconsciencia y contestación[3]. Señalar y dibujar los mecanismos que se llevan a cabo para ello, proponiendo un acercamiento a la poesía de la autora, es el objetivo principal de este texto.
En la poesía de Berta García Faet coexiste un equilibrio reconciliatorio entre la emoción y la cursilería con el cuestionamiento lingüístico-artístico y la preocupación formal. Fuera de toda solemnidad, las voces de García Faet son celebratorias y auto-irónicas y reflexivas, pero (también) apegadas y enfáticas y emotivas. Son plurales las voces, los temas y las referencias a la tradición literaria, musical y popular que atraviesan los libros de la valenciana. En La edad de merecer (2015) conviven citas, menciones y reescrituras a Ludwig Wittgenstein, Margarita Gautier, Rosa Parks o Beethoven, entre otros. En Los salmos fosforitos (2017), obra por la que ganaría el Premio Nacional de Poesía Joven “Miguel Hernández” en 2018 (uno de los mayores reconocimientos en el Estado español), esta intertextualidad se explota y se lleva al límite; y la voz poética se enseña continuamente en amalgama, en un carácter de mosaico explícito que a veces incluso llega a ser irrastreable. En este último poemario, al que esta investigación se acerca, se ofrece un yo poético que, derivándose de lo autobiográfico, nunca podría ser tratado como confesional —dejando clara la inutilidad e ineficiencia de esta categoría en los estudios literarios—.
Para hablar de Berta García Faet se ha de hablar de pasado —de las continuas referencias y reescrituras a las tradiciones artísticas y a la atención a las distintas teorías y críticas literarias—, de futuro —pues todavía está por determinar todo el alcance e impacto que su poética tiene ahora y tendrá en los próximos años (que, me aventuro a decir, será mucho)— pero, sobre todo, de presente. La poesía de García Faet no podría tener cabida en otro tiempo ni en otro lugar que aquí y ahora, en un momento de efervescencia poética y de agitación política, en un momento donde se están tendiendo (más) puentes entre la poesía ibérica y la poesía latinoamericana (me refiero a poetas como Ángela Segovia o María Salgado, entre otras) y donde los feminismos, en convergencia con otros discursos críticos sociales, no pueden sino ser un entrelazado más dentro de toda la mira poética. Si es una coincidencia, si es una casualidad que Berta García Faet escriba “soy yo, aquí, ahora, y te acaricio el pelo con los labios” (García Faet, 2015: 42), celebremos tal casualidad preciosa. Agarrémosla, disfrutémosla: porque estamos ante una de las grandes voces contemporáneas.
1. Los salmos fosforitos: movimientos reescriturales y el diálogo con Trilce
Algunas niñas juegan en los parques de las avenidas. Algunas niñas contestan a sus padres en los parques de las avenidas. Algunas niñas hablan raro, conectan palabras con palabras de forma extraña, genial, jugando y contestando a sus padres, en los parques de las avenidas de Los salmos fosforitos (2017). El poemario de Berta García Faet abre provocando ruido. El “Quién hace tanta bulla y ni deja / testar las islas que van quedando” (I)[4] que inaugura Trilce (1922) de César Vallejo y que deja en un terreno ambiguo al sujeto agente de la acción —de la “bulla”— se transforma en Los salmos fosforitos en certeza: es la voz lírica de Berta García Faet, contestataria y bulliciosa. Poema por poema, estrofa por estrofa, en Los salmos fosforitos se reescribe Trilce, una de las grandes obras de la vanguardia poética del siglo xx. “Quién hace como que silba? Quién anda ahí? A las 11 pm, / bastante sensualmente / te quedas te das?” (I) parece anclar a la voz poética, desde los versos iniciales, incluso en el tiempo y el espacio. Seguidamente, algunas de las principales herramientas que se utilizarán en el poemario como elementos de reescritura aparecen para renunciar a ese anclaje: “Tachas testamentos adjudicas cabezas / escribes / silbas / hojas de hierba?”. El tachado y su consecuente comentario en un color alterado y diluido a un gris-casi-blanco hacen, entre otros mecanismos poéticos, de Los salmos fosforitos un lugar de pluralidad temporal, espacial e identitaria. Hay algo que acecha desde sus primeras líneas, algo que, de alguna manera, nos persigue; algo que ha sido desatado y empieza a correr, a fugarse[5], a escribir o, en palabras de la poeta valenciana, a silbar.
Los salmos fosforitos puede leerse de forma aislada como obra singular o en diálogo con Trilce, se advierte en la nota-advertencia final (García Faet, 2017: 179). Sin embargo, leerlo de la primera de las maneras también implicaría, por supuesto, abrirlo al diálogo con otras obras de forma intertextual[6]. Ponerlo al lado de Trilce, asimismo, requiere mirarlo desde una óptica hipertextual, aunque no de forma restrictiva. Todo lo contrario. Las lecturas plurales que se pueden realizar de Los salmos fosforitos se enriquecen al situar el texto de Vallejo en un lateral, marcando palabras, sonidos, materialidades, figuras retóricas, motivos, temas, formas y distintos juegos poéticos que evidencian una relación intrínseca en la génesis de uno con respecto al otro. Trilce, de alguna forma, está contenido en Los salmos fosforitos. No obstante, esta contención no es negativa, sino que permite una tensión que produce la quiebra de la propia continencia: por los bordes del hipotexto se libera lo/el sujeto. Por los márgenes se ensancha Trilce en el juego de hacer versos —que no es tanto un juego, como escribe Jaime Gil de Biedma— de Los salmos fosforitos.
La relación hipertextual entre los poemarios crea un nexo no solo entre las posiciones de escritura y las formas de lectura sino también entre el recorrido crítico dedicado a Trilce y el camino —todavía por recorrer— de Los salmos fosforitos. Gran parte de la crítica centrada en el poemario de 1922 servirá, aunque por supuesto de forma insuficiente, para arrojar luz sobre las poéticas, las voces líricas, los mecanismos de exploración poética y los personajes que serán estirados, ensanchados y contestados en el de 2017. Los salmos fosforitos, por otro lado y aun manteniendo una relación hipertextual y de paralelismo con el texto vallejiano, posee una tendencia a cierto hermetismo. Dentro de sus páginas se crean relaciones de tensión entre lector y voces líricas que, junto a la orientación hacia el fragmento y la continua ruptura sintáctica, hacen explícita la necesidad de acción lectora —aunque, por otro lado, esta sea siempre imprescindible—. Creando un diálogo casi forzado, el lector se ve arrastrado a una actividad explícita: rellenando huecos, estableciendo conexiones entre significantes y significados que aparecen perdidas o, al menos, aplazadas.
Como ocurre con Trilce, Los salmos fosforitos toma lo conversacional como eje vertebrador. Su apertura in media res instala al lector en una interlocución ya iniciada de la que, casi de forma detectivesca, no puede dejar de ser partícipe. Las afirmaciones dejan de estar contenidas en sí mismas a través de un hablante individual y se da paso, como señala Michelle Clayton —una de las mayores expertas en la obra de Vallejo— a una apertura a las “voces del mundo”, que implosionan, por tanto, en infinidades de actos de habla fragmentados de una poesía generada en la propia multitud (2011: 18). Sin embargo, de igual forma que especifica Clayton, Trilce no solo supone la incorporación de la multiplicidad vocal a la poesía; es, en sí mismo, la completa instalación del cuerpo en la propia poesía, una reconexión del lenguaje con la experiencia sensorial (ídem). Lo mismo ocurre con Los salmos fosforitos, cuya relación directa con el lenguaje y las figuras retóricas permiten al cuerpo ponerse en el primer plano, siendo el núcleo —a veces, lo centrado y, otras, lo descentrado— del espacio poético, como en “Me eché en la amplia hierba cuan larga soy. / De tarde en tarde inserté hierbecitas” (IV), o en “Cuando las avenidas están completamente a oscuras / voy con mis leucocitos silbando / porque estoy de pie porque no hago pie” (VII).
Si el cuerpo es el vértice principal de los poemas, también funciona como vórtice: arrastrando todo lo que señala, oye, toca, ve, huele, ingiere y excreta al espacio poético. El cuerpo (de la voz poética y, a su vez, el textual) se convierte en un torbellino que recoge y entremezcla todo tipo de objetos y acciones: desde la defecación (“más tarde o más temprano todo llega / y todo se va, / incluso las heces / como una síntesis de vino blanco / y vino tinto” [I]) hasta las reflexiones metafísicas (“«me he investigado a mí mismo», dijo Heráclito; / «y no me duele», / dije yo, «y yo también / digo mentiras»” [LI]). Hay algo, en este sentido, que acecha, que nos arrastra a ese torbellino; que nos persigue, tanto en Trilce como en Los salmos fosforitos. A diferencia del poemario de Vallejo, en el de García Faet el cuerpo que se emplaza en el centro, aquel que se expone haciendo un “striptease”, es el de una mujer. Más incluso, es el cuerpo de varias mujeres plurales que se desdoblan, que se crean en todas direcciones; mujeres que devienen niñas; niñas que devienen sujetos; sujetos que devienen cuerpos; cuerpos que devienen lenguaje; y viceversa.
Los poemas de Los salmos fosforitos, a pesar de seguir la numeración romana tal y como ocurre con los de Trilce, no parecen obedecer un orden interno ni una línea narrativa que revele un sentido único de la obra. Como señala Clayton de la obra vallejiana, se pueden trazar continuidades de tono, estilo o temática, pero son todas ellas excepcionales y parecen diseñadas para dar una falsa sensación de seguridad (2011: 105). Cuando, del mismo modo, en Los salmos fosforitos intentamos asir algo con cierta seguridad, anclarnos con cierta determinación en la voz, en el espacio, en el tiempo o, incluso, en las imágenes, todo se desmorona. Tan pronto existe algún tipo de estatismo, este resbala. Como agua en puños, se escurre hacia afuera. Y, tras ello, moja lo inmediatamente contiguo. Los símbolos, de hecho, se escurren y derivan en contigüidades; se fulminan en metonimias.
Todo lo que tiene una mínima pretensión de simbolizar en Los salmos fosforitos, implosiona y señala lo colindante; desborda el límite. Hay, de forma análoga a Trilce, un impulso del ejercicio metonímico que desplaza a la metáfora como centro de la génesis poética y relega lo figurativo en pos de lo literal (ibídem: 103). Junto a este favorecimiento de la metonimia frente a la metáfora, Clayton encuentra otros dos modos de representación en Trilce que, del mismo modo, se pueden extrapolar al caso de Los salmos fosforitos: por un lado, el ya anticipado asentamiento en poéticas de lo oblicuo, de lo mezclado y fragmentario; por otro, la incorporación del desperdicio, del desecho (“waste”), de la ausencia y negatividad en una reconsideración lírica de la presencia y de la posibilidad (ibídem: 103-104). Estos tres modos de representación en los poemarios son los que forman una maquinaria compleja que funciona para llevar a cabo la aniquilación del símbolo.
Para introducir los mecanismos de reescritura y los presupuestos poéticos y políticos de contestación estereotípica de la obra de García Faet, propongo una subdivisión primaria y superficial de su último poemario. Un primer tramo, desde el poema I al X, , se presentan e insertan, entre otras cosas, las dinámicas poético-retóricas del libro. Son estos diez poemas, además, los más apegados al texto vallejiano, donde se respeta con mayor precisión la estructura, las figuras retóricas y la temática del poemario de partida. Una segunda sección, que abarca de los poemas XI al XL, supone la aparición y transformación del personaje de la «niña» o «prima» vallejiana en la neo-niña. Esta neo-niña, desdoblamiento de la voz lírica, sirve como anclaje para elaborar el discurso poético y como figura central desde la que iniciar el ensanchamiento estereotípico. Esta segunda parte se aleja, en mayor medida, del hipotexto: muchas veces tan solo dejando como huella modificaciones de los primeros versos y una estructura estrófica similar —aunque aumentada (o estirada) versalmente—. En ellos hay una predominancia a la abstracción que prevalece del texto vallejiano. Además, existe cierta inclinación a establecer e identificar la relación entre el cuerpo de la voz lírica con lo externo a él, lo que permite que esta sección tenga una preponderancia a la crítica social y a la reflexión sobre el privilegio de clase.
Finalmente, el tercer tramo estaría comprendido desde el poema XLI al último, el LXXVII. Es aquí donde se revelan dos muertes —la de Dios y la del abuelo de la voz poética— aunque ya se hubiesen estado anticipando antes de forma más o menos explícita a lo largo de los anteriores poemas. En esta última parte, a raíz de las pérdidas del abuelo y de Dios respectivamente, se produce cierta tendencia a la introspección en el cuerpo de la voz lírica, dando lugar a un espacio marcadamente autobiográfico[7]. Y en este espacio de la autobiografía, García Faet hace uso de una memoria que simultáneamente se retrotrae al pasado y se expande hacia el futuro, creando un impulso de atracción-repulsión en un terreno del «yo» que, siguiendo con la regla poética de la fragmentación y la oblicuidad antes expuesta, nunca terminará de configurarse. Pues Berta García Faet nunca termina de ser Berta García Faet en los poemas. Además, hay una proliferación de los personajes familiares y un anclaje en espacios ligados a la infancia en esta última parte. Valencia, tierra natal de la poeta, aparece explícitamente, por ejemplo, en los poemas LXI, “a mí me vestían de neo-niño fallero”, y LXXII, “C/ Pirotecnia Brunchú nº 87”.
Esta diferenciación en tres tramos sirve para delimitar, como se ha señalado, tres momentos diferentes en Los salmos fosforitos. El primer tramo desempeña una función clave en el poemario, puesto que en estos diez poemas iniciales se asientan las bases de funcionamiento tanto de la reescritura como de las principales figuras retóricas que se emplean para la realización de la misma. Todo ejercicio fundante en Los salmos fosforitos es de alargamiento. Del movimiento y la ausencia de anclaje toman forma sus versos. Su impulso es el despliegue. Muchas veces, estos estiramientos —movimiento predominante también en el poemario de Vallejo— se realizan con carácter cómico, como ocurre en el inicio del poema IV: el texto vallejiano —“Rechinan dos carretas contra los martillos / hasta los lagrimales trifurcas, / cuando nunca las hicimos nada”— se transforma en el garciafaetiano como “Pseudo-asiático otra vez mi / corazón / tapujo o charco o tilo / (es broma, perdón / perdón por la tormenta) / lloriquea ampliamente, consuma trifulcas tripartitas / con amplia injusticia, late y cruje”. Otras veces, sirven para amplificar las referencias intertextuales a la par que para modificar el tiempo y el espacio de partida. Como en la apertura de III, donde “Las personas mayores / ¿a qué hora volverán? / Da las seis el cielo de Santiago, / y ya está muy oscuro” se convierte en “Las oscuras golondrinas las oscuras personas las oscuras / madrugadas sexuales volverán? / Muy muy muy tarde / más o menos son las 11 pm en 5 o 6 ciudades. / son las 11.03 pm / según mis 5 o 6 / hongos”.
El tachado, las dislocaciones, los estiramientos y la derivación metonímica pero también la derivación tonal en la materialidad tipográfica se presentan como los elementos principales con los que se lleva a cabo la reescritura en el poemario de García Faet. Las palabras se suspenden siendo atravesadas por líneas que las cortan. A estas tachaduras le suceden comentarios, que son acotaciones, que son el propio poema. Y el mismo poema se estira, los significados se postergan, se empuja todo hacia fuera de sus bordes[8]. Hasta el epígrafe, que es otra cita de Vallejo, apunta en esa dirección (o, mejor, en esas direcciones): “Amada, vamos al borde”. En este sentido, la “calle” (singular) —espacio urbano esencial del desarrollo de la voz poética vallejiana— se reforma y reformula, tan pronto como aparece en VII, como “avenidas” (plural). Tal transformación no solo implica ensanchamientos espaciales sino también estiramientos en la intención comunicativa de los poemas. Las calles, por definición, suelen ser de sentido único, más estrechas; las avenidas, en cambio, con más importancia en el proyecto urbanístico, son de mayor tamaño, de doble sentido y acostumbran a comunicar puntos clave de la ciudad. Basta con ver los mapas de grandes urbes como París, Buenos Aires o Nueva York. Esta tendencia a la expansión y al ensanchamiento supone, por tanto, una orientación espacial determinada en Los salmos fosforitos hacia lo comunicativo, hacia lo plural, lo abierto, acercándose, entonces, a la cuarta proposición que Roland Barthes da en la definición de «Texto» en su ensayo “De la obra al texto”:
El Texto es plural. Lo cual no se limita a querer decir que tiene varios sentidos, sino que realiza la misma pluralidad del sentido: una pluralidad irreductible (y no solamente aceptable). El Texto no es coexistencia de sentidos, sino paso, travesía; no puede por tanto depender de una interpretación, ni siquiera de una interpretación liberal, sino de una explosión, una diseminación. La pluralidad del Texto, en efecto, se basa, no en la ambigüedad de los contenidos, sino en lo que podría llamarse la pluralidad estereográfica de los significantes que lo tejen (etimológicamente, el texto es un tejido) (1994: 77).
Si el texto es tejido, la voz lírica de García Faet actúa como la araña que —como también Barthes describe en otro de sus famosos artículos, “El placer del texto”— se disuelve en las segregaciones constructivas de su tela (1993: 104). Como araña, la voz lírica trepa y se desliza libremente por el tejido. Y si no es lo suficientemente grande, se encarga de ampliarlo para que todo su perímetro pueda acoger el mayor área posible, aumentando las posibilidades de movimiento. Se erige, entonces, una arquitectura pegajosa —imposible de trasladar y duplicar— orientada siempre hacia el exterior: los poemas de Los salmos fosforitos. En ellos, lo estancado y cerrado de Trilce —“han quedado en el pozo de agua, listos, / fletados de dulces para mañana” (III)— aparece liberado, abierto y expandido: “en el río bucean —como verdad objetiva— / múltiples pedazos de papaya de mango de loto / y viajo en aviones que parecen barcos o / golondrinas oscuras” (III).
2. El ensanchamiento y la pluralización de los espacios y los cuerpos: análisis de los poemas X y XI
Entre todos los elementos que se se ensanchan, el discurso patriarcal alojado en el texto de origen es lo que se estira con mayor fuerza en Los salmos fosforitos. En el poemario de García Faet, las figuras femeninas y todo lo relacionado con ellas —voces, cuerpos, materialidades, temas— sufren, atravesadas por los feminismos y las teorías queer, diversos estiramientos en la escritura poética. Son acciones necesarias (las del estiramiento) para el emplazamiento de la voz lírica en los espacios creados en los poemas. Y es singular, a este respecto, la reescritura del poema X, en el que Vallejo toma el fallecimiento de una mujer embarazada —“Prístina y última piedra de infundada / ventura acaba de morir / con alma y todo, octubre habitación y encinta”— como eje temático para el poema. La objetualización, e incluso la animalización de la figura de la mujer por la mirada masculina (“Cómo escotan las ballenas a palomas. / Cómo a su vez éstas dejan el pico / cubicado en tercera ala”), son adoptadas como posición de partida en el poema garciafaetiano, inundado de tonos irónicos, de distanciamiento incluso sarcástico:
De toda la vida de Dios en este horóscopo / de letras y números y semillas de 1.000 / colores referidos / de tarde en tarde mueren (pues no hacen pie, / en resumen hipotetizo, / en frío) / las flores embarazadas / En otoño considerando / (…) / enmohece el dulce de leche (el bebé pesa / 2.6 eones o uñas) Ves? / Hay sangre / y dulce de leche y polillas (García Faet, 2017: 28).
La aparición de la sangre como signo de violencia —pero que recogerá a lo largo del poemario de García Faet otras muchas acepciones y significaciones metonímicas con la repetición de “Ves? / Hay sangre” (como en XXIV, XXVI, LIX, entre otros)— inserta el poema en el espacio de la crítica. La sangre, relacionada directamente con el cuerpo, se encontraría, en una situación normal, dentro del mismo. Pero cuando la piel se perfora y algo se altera en el cuerpo, la sangre se libera. El líquido deja de ser intravenoso y se convierte, por tanto, en signo de contigüidad del propio cuerpo, cuyos límites —como apunta Donna Haraway— no deben ser comprendidos en lo que encapsula la propia piel (1991: 75). La sangre, que se asocia al cuerpo, señala en el poema, además y de forma contigua, a la menstruación y al útero (“mujeres / cual séquitos de cálices”). En este sentido, la mirada masculina objetualizadora del poema vallejiano propicia el inicio de la colocación de la voz lírica en el estereotipo, la mujer contemplada, la mujer-objeto, el cuerpo arrastrado a aquello no-humano:
El reino animal es curioso. Estoy confundida / (qué es una ballena? soy una / paloma? una?), / desde hace 1.000 siglos las mujeres son tratadas / como tratados de flores, i.e. sin / alas / sin letras sin números, i.e. como cifras. / Decís / que no razonamos, / que nuestro seso es un arpón o una polilla, leche simple (García Faet, 2017: 29).
El grado de abstracción disminuye, la dislocación versal y la ruptura sintáctica aumentan en estos momentos de claridad donde la voz garciafaetiana acecha, punzante, para derramar incluso más sangre en ciertos puntos. En estos puntos es donde se establecen las coordenadas del cuerpo vértice-vórtice, cuyo emplazamiento funciona como lugar para la crítica social a la objetualización de la mujer. Es clave, además, esta incisión en la sangre, en el cuerpo y el embarazo, pues son elementos que apuntan a la figura materna.
En este sentido, la pérdida de la madre marca —sentimental, temática y rítmicamente— la voz poética de Trilce. Existe en esta declaración de orfandad de la voz lírica una relación directa con las poéticas de vanguardia, pues supone la declaración de uno mismo como punto de origen histórico (Clayton, 2011: 110). En estos primeros diez poemas —donde en Trilce la madre era presencia ausente, recuerdo resona(n)do— la voz de García Faet se traspone en la figura maternal misma. Se proyecta en potencias futuras, haciendo ecos también de un discurso heteropatriarcal que arrastra a la mujer al estereotipo de la madre. Sin embargo, en Los salmos fosforitos, las potencialidades nunca llegan a materializarse, se disuelven en preguntas: “Una curiosidad, / serás una mamá que nunca llega tarde?” (III) se convierte en un elemento que se repetirá de forma constante y anafórica simulando un pensamiento intrusivo, un discurso externo que, de alguna forma, oprime. Tan solo tres poemas después, se reincide en el mismo: “Seré buena? Azul / o gris? Seré / una mamá que nunca llega tarde, / que siempre está a tu lado / siempre a tu lado, niño?” (VI). Desdoblándose en multiplicidades —siendo a la vez hija y potencial madre—, la voz de García Faet contesta al discurso estereotípico: “Qué haría / mi mamá? Rechazaré la doctrina / del alma gris o azul” (VI); porque “las madres / (…) / son un mix / de ballenas y, sí, sí, / de palomas” (X), porque la unicidad se escurre como la posibilidad de asentarse, todo se ensancha en Los salmos fosforitos. Como en un juego infantil, como en el lenguaje de las niñas, los versos y sintagmas se estiran como cuerdas. La potencia-madre desaparece —“[q]uién hace como que silba?” (I)— porque ha llegado la neo-niña.
En la apertura del poema XI, el punto de inflexión hacia el segundo tramo del libro, la voz lírica de García Faet se topa con “una neo-niña / por las avenidas (de la memoria, se entiende)”, que proviene directamente de Trilce: “He encontrado a una niña / en la calle”. La mujer infantilizada en Vallejo abraza, según indica el texto, al sujeto poético. A la neo-niña garciafaetiana, en cambio, le es eludida esa acción —“me ha cosquillado el talón. / nótese cómo omito toda / alusión mitológica”—. A partir de la reescritura feminista y la derivación morfológica, García Faet inserta un neologismo a la vez que introduce al personaje principal de Los salmos fosforitos. Esta “niña” —que “es mi prima”, escribe Vallejo; “[m]i neo-niña” que “no es nada mío”, contesta García Faet— aparecerá nombrada más de veinte veces en las casi doscientas páginas de poemario, convirtiéndola en un eje central de génesis poética que funcionará como desdoblamiento —en un plano de memoria ficticia, se entiende— de la voz poética. La figura de la niña vallejiana, como el de la mujer embarazada en el anterior poema, se presenta objetualizada, infantilizada; su físico parece un elemento de valoración: “Equis, disertada, quien la halló y la halle, / no la va a recordar” (XI).
Cuando en Trilce, la voz poética le toca “el talle [a la niña, a su prima]” y sus manos entran “en su edad / como en par de mal revocados sepulcros”, se crea una relación de sujeto-objeto que empuja al personaje de la prima a un mayor grado de abyección y subalternidad si se considera, en primer lugar, su género. El cuadro descriptivo y actancial del personaje de la prima queda reducido a un discurso estereotípico: es la mujer infantilizada, apartada a un grado de madurez inalcanzable, entonces, para el propio género «mujer»: la mujer incompleta, la mujer negada. Más aún, esta “niña” se sexualiza, recordando aquellas “[t]ardes años latitudinales, / (…) / de jugar a los toros, a las yuntas”. La unión corporal que supone la introducción de las “yuntas” entre los «amantes» (“toros”) se expande, como todo elemento reescrito, en Los salmos fosforitos. La reducción del acto sexual a una animalización en el poema trilciano se transforma en montura (“qué ganas de sentarme a horcajadas / en un sillón”). Y, del mismo modo, el toro-singular, uno de los animales que simbolizan la masculinidad, la tierra, lo inamovible y la fuerza, se convierte en animales-plurales definidos por el movimiento, las alas, el cielo, lo migratorio, esto es, las “aves”.
La introducción de las manos del sujeto vallejiano a la “edad” de la “niña”, de forma paralela, da lugar a la aclamación que arrastra y contesta el discurso de cosificación: “mis garras solitarias celebraron su existencia / (rápidamente) / en la edad / de oro de las letras españolas (L. de Góngora, / aguafiestas, / aprecias la belleza / qua muerte, adiós! Aléjate de ella! Mi neo-niña / se aleja ya, buena.)”. La “edad”, desde la que se parte en el hipotexto, acaba siendo un punto de fuga que señala en diversas direcciones en el hipertexto. Porque García Faet hace al discurso virar introduciendo a Góngora, lo cual sigue una línea precisa en el dibujo de una constelación intertextual de autores canónicos que se mencionan, citan y se contestan —de igual forma que se efectúa con Vallejo— en Los salmos fosforitos[9].
Estos estiramientos de las figuras poéticas son acompasados, a su vez, por ensanchamientos comunicativos. Donde había una presencia casi univocal en el poema XI de Vallejo, en el de García Faet nos encontramos con una polifonía explícita. En este sentido, la voz de la “niña” de Vallejo solo se escucha para anunciar su matrimonio (“«Me he casado», / me dice. Cuando lo que hicimos de niños / en casa de la tía difunta”); noticia que al sujeto poético trilciano parece costar asimilar, ya que, seguidamente, la información se repite en un plano interno de la consciencia discursiva: “Se ha casado. / Se ha casado”. Al contrario, el comunicado del evento nupcial en Los salmos fosforitos desencadena una conversación entre voz lírica y el personaje de la neo-niña, un diálogo que sucede también en un plano de consciencia individual discursiva, pues no se ha de olvidar que la neo-niña es un desdoblamiento ficcional-memorístico de la voz garciafaetiana:
«Me he casado», me dice. «¿Con quién?», le digo. / «Contigo no», me dice, buena. / Mi novio adolescente (de Salzburgo) / se casó con una chica china, / ya he pasado por eso. «Me he casado», me dice. / «Ya he pasado por eso», le confieso. / «Enhorabuena, no estás sola, te confieso que / no puedes irte» (García Faet, 2017: 32).
Si el poema X podría considerarse el inicio del asentamiento en el estereotipo como espacio de génesis poética —pues aparece la figura materna reescrita y se coloca en el centro a un cuerpo femenino que había sido objetualizado en el texto de origen—, este poema XI debiera tomarse como el anclaje de la voz lírica en ese discurso estereotípico. Un estereotipo que, desde una posición hipertextual, intenta explorar, estirar y ensanchar. O, en otras palabras, contestar. La “niña” vallejiana es, por tanto, siguiendo la línea de Lévi-Strauss en “El hombre desnudo” —cuarto volumen de Mitológicas— el “espacio semántico negativo”. Un sujeto-otro subordinado al sujeto que se considera el origen y que es visto, entonces, como “componente o contrapunto sexual del sujeto genérico (masculino)”[10] (Lévi-Strauss en De Lauretis, 1992: 256). La neo-niña garciafaetiana implica, en contraposición, un espacio de dislocamiento de esa relación subordinante y subordinada. Tomando prestadas las palabras con las que Teresa de Lauretis se refiere al movimiento de reescritura de Luce Irigaray[11], García Faet introduce “su propia voz crítica dentro de esa argumentación soberbiamente tejida y creando un efecto de distancia, como un eco discordante, (…) rompe la coherencia de su pretendido destinatario y disloca el significado” (1992: 17). Coloca, de forma contestataria, el cuerpo de una mujer en primer plano y lo social y literariamente considerado como femenino como elemento de génesis poético-subjetiva.
La aparición de la neo-niña supone, por tanto, la verificación del emplazamiento de la voz poética en un discurso de origen que se intenta desplazar, dislocar, transgredir. Los salmos fosforitos es un espacio poético de ensanchamiento estereotípico producido a través del cortocircuito de los sistemas que naturalizan su funcionamiento. Infantilismos, cursilerías, dulzor —lo esperable para la voz de la mujer infantilizada— convergen con un cuerpo que se expande continuamente a través de elementos que lo desbordan: la sangre, las lágrimas y la voz —dirigidos a la crítica social y a reflexiones más físicas que metafísicas, así también como a la reflexión metapoética (“los poemas no sirven para nada / así que voy a terminar de escribir / este poema este libro de poemas” [XLVIII])— son elementos que tocan y des-bordan el cuerpo. Y, aunque haya un fracaso continuo o un dudar constante de la función de la poesía, en Los salmos fosforitos no existe la renuncia. Hay, por el contrario, una constante incisión en lo que provoca el fallo. Por este motivo, la neo-niña no se abandona en ningún momento. Es un personaje que va de la mano por las avenidas de la memoria y que recorre —junto a la voz lírica— la escritura poética, los silbidos, los ensanchamientos espaciales y estereotípicos. “Qué opinas? Todo cae?”, pregunta la voz poética en el cierre de XXXIII. En Los salmos fosforitos, desde luego, todo cae: caen los discursos que arrastran, caen los sintagmas que se estiran, caen los espacios que se ensanchan. Caen cuerpos, símbolos, muertos, sentidos. Todo cae, menos la neo-niña, que es la que hace a todo el resto caer porque contesta. Mientras, Berta García Faet se alza, bien arriba.
Bibliografía
Barthes, R. (1993): “El placer del texto”, en El placer del texto y Lección inaugural, Madrid, Siglo Veintiuno.
— — (1994): “De la obra al texto”, en El susurro del lenguaje. Más allá de la palabra y la escritura, Barcelona, Paidós.
Bagué Quílez, L. (2017): “Versos impuros”, en El País, Disponible en: https://elpais.com/cultura/2017/05/31/babelia/1496243267_163759.html [Consulta: 30 de junio de 2021].
Clayton, M. (2011): Poetry in pieces, Berkeley and Los Angeles, University of California Press.
De Diego, E. (2011): No soy yo, Madrid, Siruela.
De Lauretis, T. (1992): Alicia ya no. Feminismo, Semiótica, Cine, Madrid, Cátedra.
García Faet, B. (2015): La edad de merecer, La Bella Varsovia, Madrid.
— — (2017): Los salmos fosforitos, La Bella Varsovia, Madrid
— — (2018a): “Berta García Faet: «La literatura viene de la vida y va a la vida»” [entrevista realizada por L. Márquez], en Culturplaza. Disponible en: https://valenciaplaza.com/berta-garcia-faet-la-literatura-viene-de-la-vida-y-va-a-la-vida [Consulta: 30 de junio de 2021].
— — (2018b): “Otra vuelta de tuerca al estereotipo de la poesía femenina” [entrevista realizada por A. Lara], en Literal. Disponible en: https://literalmagazine.com/otra-vuelta-de-tuerca-al-estereotipo-de-la-poesia-femenina/ [Consulta: 30 de junio de 2021].
Genette, G. (1989): Palimpsestos: La literatura en segundo grado, Madrid, Taurus.
Haraway, D. (1991): A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, New York, Routledge.
Vallejo, César (2018): Trilce, Girona/Málaga, Luces de Gálibo.
Wittig, M. (2006): El pensamiento heterosexual y otros ensayos, Egalés, Madrid.
[1] A este respecto, cuando la entrevistadora de Culturplaza, Lucía Márquez, le pregunta a Berta García Faet si piensa que sus libros son reflejos de la vida, la poeta contesta: “Sí, antes me daba vergüenza decir esto, pero ahora ya no: la literatura es vida. No es equivalente, pues la diferencia es, justamente, la estética. Pero la literatura viene de la vida y va a la vida. Esto lo explica, no sé si bella o secamente, Ricoeur. También Kristeva, Deleuze, en fin, muchos. Parece como si admitir esto fuera caer en la literatura como confesión o diario, minusvalorar lo artístico, la artfulness, el procesamiento, la alquimia, la transposición, el oficio, la técnica, el cómo... No, no: la lógica literaria no admite este tipo de simplificaciones de exactitud biográfica. Pero, biográfica o no, los libros son vida, los míos también” (García Faet: 2018b).
[2] Berta García Faet ha publicado, hasta el momento, Manojo de abominaciones (Premio de Poesía “Ana de Valle”, 2008), Night club para alumnas aplicadas (Premio Nacional de Poesía “Ciega de Manzanares”, 2009), Introducción a todo (Premio de Poesía Joven Pablo Baena, 2011), Corazón tradicionalista (La Bella Varsovia, 2018), que es una recopilación de las anteriores obras, La edad de merecer (La Bella Varsovia, 2015), traducido al inglés como The Eligible Age (Song Bridge Press, 2018), y Los salmos fosforitos (La Bella Varsovia, 2017).
[3] La propia autora ha hablado sobre ello en diversas entrevistas, siendo clara de esta conciencia sobre el estereotipo y sobre su lugar de la escritura: “en mis primeros libros la sentimentalidad «femenina» es intensa pero no completamente ciega, no es un automatismo. A medida que crezco, y crezco también en esos libros, aceptar esos «guiones sociales», esos estereotipos de género, es a la vez compulsión y metaconciencia, vicio y autocrítica y crítica ideológica. Es elección, elección contradictoria, quizás tragicómica (…) Me planteo la emocionalidad como otra vuelta de tuerca al estereotipo literario-ideológico de la poesía femenina como «confesional» y «cursi»” (García Faet, 2018b).
[4] Utilizo este tipo de cita, indicando el poema y no la página del libro por dos razones. La primera, porque Trilce puede encontrarse en numerosas y distintas ediciones y la posición en sus páginas de cada poema varía en cada una de ellas. La segunda y más importante, porque al realizar un estudio de la reescritura que realiza García Faet de Trilce es mucho más fructífero indicar el número de poema que se está reescribiendo que la página en la que se encuentra cada uno de los poemas. Seguir un estilo de cita indicando el número, por tanto, haría perder la relación que hay entre un poema y otro, diluyendo el foco en la lectura de este análisis. De todas formas, de aquí en adelante, como bien indicado está en la bibliografía, utilizaré la edición de Luces de Gálibo de Trilce (2018).
[5] Como indica Berta García Faet en una nota final, a modo de advertencia: “Este libro debería (siento decir «debería», pero es que «debería») leerse en orden. Tiene espíritu espiritual de sextina y, si pudiera ser música, sería una fuga. Y luego volvería” (2017: 179).
[6] Me refiero aquí a las tesis defendidas por Genette en Palimpsestos: La literatura en segundo grado (1962). En las primeras páginas de la obra se pueden encontrar las definiciones de transtextualidad, en la que se enmarcan la intertextualidad —“relación de copresencia entre dos o más textos, es decir, eidéticamente y frecuentemente, como la presencia efectiva de un texto en otro” (1989: 11-13)— y la hipertextualidad —“toda relación que une un texto B (que llamaré hipertexto) a un texto anterior A (al que llamaré hipotexto) en el que se injerta de una manera que no es la del comentario” (ibídem: 14-17)—. Son estas dos definiciones a las que me acojo para puntualizar las relaciones que se crean entre Los salmos fosforitos y Trilce.
[7] Por «autobiografía» entiendo, tal y como lo hace Regine Hampel, no solo la escritura sobre el sujeto sino también la propia escritura del sujeto. En este sentido, “[u]n texto autobiográfico no puede ser visto como una representación literal y basada en hechos del sujeto cuya identidad e historia se fijan de una vez por todas, sino como una creación literaria que produce la versión de una ficción de un sujeto bastante escurridizo cuyo significado sólo evoluciona en el proceso de la escritura” (Hampel en De Diego, 2011: 128).
[8] Este comentario es una modificación de un apunte realizado por Ángela Segovia en su crítica a Los salmos fosforitos, titulada “Mecanismos de ensanchamiento en Los salmos fosforitos de Berta García Faet”, publicada online por Oculta Lit y ya desaparecida con el cierre de la web.
[9] Hay más de treinta autores cuyos nombres se mencionan o cuyas obras se citan en Los salmos fosforitos, entre ellos, podemos encontrar a Walt Whitman (del cual, García Faet toma el silbido como elemento metonímico de «escritura»), Sigmund Freud, Gustavo Adolfo Bécquer, Williams Carlos Williams, Friedrich Nietzsche, Roland Barthes, Miguel de Cervantes, Heráclito de Éfeso, Dámaso Alonso, Francisco de Quevedo, Garcilaso de la Vega, Luis Rosales o Jorge Luis Borges, entre muchos otros.
[10] Esta idea, como se indica en la citación, aparece desarrollada en el sexto ensayo de Alicia ya no de Teresa de Lauretis, “Semiótica y experiencia”, que comienza señalando la necesidad de poder ver el sujeto femenino no en relación vertical con el masculino, es decir, de subordinación, sino que debe atender, para su comprensión, a las experiencias femeninas que no comprendan esa relación con el género masculino de forma originaria.
[11] Teresa de Lauretis se refiere a la reescritura que realiza Luce Irigaray del texto “La femeneidad” de Freud en Espéculo de otra mujer. De forma análoga, se pueden ver ciertos paralelismos en los planteamientos feministas si nos fijamos en que el texto de García Faet también reescribe un texto canónico escrito por un hombre.