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 Avventure di Luigi Malerba

di Marco Ricciardi

 

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Ogni opera pubblicata da Luigi Malerba è stata in qualche modo una nuova “avventura”, un all-in reiterato e ostinato da narratore d'azzardo. Continui salti stilistici, di genere, di forma, di linguaggio, di spazio e di tempo, con l'ambizione paradossale di non cadere mai nella celebrazione autoptica del proprio stile ed  in una definitiva e cristallizzata traduzione del rapporto tra le parole e le cose. La poetica di Malerba è in continua rotazione circolare, o forse sarebbe meglio dire in oscillazione d'onda, tra la miseria e lo splendore della parola, nel suo essere al contempo specchio necessario alla (auto)conoscenza e lente deformante e infedele della realtà. «Scrivo per capire quello che penso» ha più volte affermato l'autore in varie interviste. Eppure molti dei personaggi malerbiani sanno, come il chiosatore del diario di Demetrio, il protagonista del suo romanzo Il pianeta azzurro (Garzanti 1986) che la parola, «la finzione, assume le veci della realtà, la precede, la prefigura la condiziona». 

Avventure è una breve raccolta di racconti uscita per la prima volta nel 1997 (Marsilio) e che è stata appena ripubblicata da Italo Svevo editore (con prefazione di Cristina Benussi). Un libricino che rappresenta, rigorosamente mutatis mutandis, un diverso, eccentrico capitolo della saga gnoseologica (inaugurata nel 1963 da Malerba con La scoperta dell'alfabeto e che si prolunga fino  alle pubblicazioni postume di alcuni inediti) sulla dicibilità letteraria del reale. Capitolo breve, ma non per questo meno emblematico di questa ambivalente, feconda e lunga esplorazione. Nell'introduzione ai racconti l'autore afferma ironicamente che «si sente in colpa ogni volta che scrive un libro» (p.24) perché «la felicità non è descrivibile, forse è un sentimento troppo precario per diventare oggetto di rappresentazione»(p.23). «Così nascono personaggi infelici più o meno sofferenti per il piacere di lettori o degli spettatori»(ibid.).

Sembra dunque, ci suggerisce sornione lo scrittore, che la parola, la letteratura serva, “piaccia” ai lettori comuni soprattutto dove c'è un manque, un dramma, dove possa trasformarsi in esorcismo catartico/aristotelico. Ma Malerba  diffida delle tragedie e delle catarsi risolutive, delle trame e dei personaggi che camminano dritti, a senso unico, verso la fine/soluzione del racconto. Si diverte, sempre nella prefazione, «a denunciare pubblicamente, con i loro nomi e cognomi, gli autori che hanno creato questi personaggi»(p24): lui si “limiterà”, con fervore entomologico, a sperimentare incontri spazio-temporalmente impossibili tra alcuni storici personaggi della letteratura, e a mettere comicamente in corto circuito le loro inconciliabili “narrazioni” della realtà. 

I primi personaggi a prendere posto nel parterre de roi di Avventure sono Sancio Panza e Anna Karenina. Siglo de oro versus  «Siglo de Merda» (come borbotta con disprezzo il Sancio malerbiano; p.37), sublimazione cavalleresca versus prosaicità del dramma borghese. Sancio è venuto nelle «brumose regioni del Nord»(p.25) per dissuadere Anna Karenina dal compiere il “gesto estremo”, ma il linguaggio pomposo e seicentesco di Sancio è incompatibile con la tempra culturale del personaggio di Tolstoj. Lo slancio del personaggio donchisciottesco impatta  traumaticamente con un cosmo culturale e geografico ostile:«non so come fate a vivere in questo freddo che congela non soltanto le mie dita ma anche le parole che escono dalla mia bocca» (p.27) dice sommessamente Sancio. Se per il famoso scudiero il linguaggio della donna è glaciale e prosaico, per Anna Karenina quello del famoso scudiero è assolutamente sopra le righe, comico: «Dovete capire che ciò che poteva avere un senso nel vostro secolo dorato, oggi ha perduto ogni valore, ciò che a voi pareva serio e degno, oggi appare ridicolo e penoso»(p.38). Per l'ingenuo idealista Sancio poi,  la verità e la giustizia assoluta esistono davvero, ed è dunque normale intrufolarsi nella vita privata della donna e fare domande incaute e imbarazzanti agli altri personaggi del romanzo di Tolstoj  «perché un cavaliere o anche un semplice scudiero non agiscono e non si assumono l'onere di difendere una causa se non dopo la certezza di aver chiarito dove sta il giusto e dove sta il torto»(p.29). Nel saperlo, ovviamente Anna Karenina inorridisce: ormai  la privacy borghese, «la reputazione»«rovinata definitivamente» (p.35) è ben più importante degli ideali retrò della cavalleria. Il cortocircuito tra i due è totale: le due narrazioni, le due episteme sono incompatibili, non possono convergere, infatti ognuno riprenderà inesorabilmente la sua trama,  Sancio verso gli “ideali alati” del Siglo de oro e l'eroina di Tolstoj verso il suo tragico destino.

La carrellata di comici ed esplosivi desencuentros di Avventure si arricchisce di altre figure emblematiche della storia della letteratura: quanto più sono cristallizzate nel mito e nell'antonomasia tanto più sono funzionali al corto-circuito comico, letterario ed epistemologico malerbiano.

Ecco che allora Frankenstein (personaggio esantematico di un'epoca in cui scienza e tecnica sono ormai i nuovi centri gravitazionali ed in cui, per un “in-timorato” delirio di onnipotenza, anche il bios è desacralizzato e manipolabile senza limiti) incontra il timoroso o “timorato” per antonomasia della letteratura italiana: Don Abbondio. L'idea di Frankestein di sposare Lucia è ovviamente destinata al fallimento: la redenzione del mostro, errore/orrore di laboratorio,  attraverso una catarsi estetico-amorosa, non s'ha da fare. Il personaggio, che è costretto, da copione, ad essere brutto, sporco e cattivo non può uscire dal suo ruolo: «a forza di venire giudicare cattivo sono diventato cattivo»(p.42) gli fa dire Malerba con un ghigno d'autore tra nuances pirandelliane e reminescenze della Jessica Rabbit disneyana.

Il confronto-scontro esilarante tra spiritualità e tecnica, tra religione e scienza si ripropone uguale e diverso nell'incontro tra il personaggio dell'Uomo invisibile e L'Innominato.  Il primo propone al secondo di instaurare insieme un fantomatico regno del terrore proprio mentre ne svilisce e ridicolizza  la conversione religiosa. Per il pragmatico e scientifico personaggio di H.G. Wells ogni motivazione nobile e metafisica nel comportamento degli uomini può essere ricondotta, in ultima analisi, al principio di piacere/onnipotenza; anche i nobili comportamenti del cardinale Borromeo, a suo parere,  in fondo non sono dettati altro che dalla vanità del voler «diventare santo» e non da una metafisica vocazione religiosa. Il metodo sperimentale, l'intervento e lo studio diretto della res extensa separata dalla res cogitans ha svilito la potenza suggestiva e metafisica della parola al punto che, per convincere L'Innominato, L'Uomo Invisibile passa letteralmente e comicamente dalle parole ai fatti e lo schiaffeggia; tutto questo mentre, serafico, ha appena ammesso di essere «un uomo di scienza»(p.81) e che perciò i suoi argomenti «non sono riposti nelle parole, ma nei fatti» (ibid.).

Nell'incontro tra Bertoldo e Turandot è invece il rapporto (già affrontato altrove da Malerba) tra il linguaggio repressivo del potere e la forza eversiva e comica  della cultura popolare a prendere il centro della scena.  Per conquistare la “purezza” di Turandot, Bertoldo dovrà indovinare i tre enigmi proposti dalla principessa. Sarà un duello feroce e comico all'ultima parola tra il linguaggio del potere di Turandot, austero e coercitivo, ed il linguaggio basso, trasgressivo e brillante di Bertoldo. Sarà proprio l'abilità di una parola eversiva che smonta, inganna la legge e i codici a salvare il personaggio di Giulio Cesare Croce da un tragico epilogo.

Quando, nell'ultimo racconto della raccolta, l'Othello di Shakespeare si “imbuca” letteralmente  tra le quinte e i camerini durante una rappresentazione dell'Otello (l'opera lirica di Verdi-Boito), il suo sdegno per  l'impostura di personaggi (che cantano e gorgheggiano invece di recitare), per i versi “ampollosi”del libretto di Boito e per le interpolazioni della trama, è immediato. Due epoche diverse, due diverse traduzioni/interpretazioni del personaggio e della realtà, due modi di fare teatro, vengono incompatibilmente a contatto: l'Othello shakespeariano cerca in ogni modo di sabotare la narrazione/messa in scena  in pieno svolgimento, ma alla fine dovrà accontentarsi (nell'inesorabile compiersi mitico e senza tempo del suo personaggio), di consumare fuori scena il suo destino tragico.

Con la pubblicazione di Avventure Malerba aveva aggiunto un altro piccolo e divertente tassello alla sua analisi intelligente e spietata del controverso rapporto tra le parole e i fatti, tra la realtà e le sue diverse narrazioni (ognuna potenzialmente falsificatoria e “complottista” a modo suo), tra linguaggio e potere, tra  letteratura e vita. Per poi magari più volte sfiorare la conclusione, come ben ci suggerisce Cristina Benussi nella prefazione di questa nuova edizione, che l'opera «veramente rivoluzionaria  dovrebbe infatti terminare solo con il silenzio totale, che è l'unica condizione capace di sottrarsi, in qualche modo, al potere» (p.16) e, aggiungiamo noi, alla malia bifronte -al contempo e paradossalmente- conoscitiva e falsificatrice della parola.

Luigi Malerba, Avventure, Trieste ; Roma, Italo Svevo, 2020