Le ripetizioni di Giulio Mozzi
Pensieri imperfetti di Marilina Giaquinta
“Nessuna vita ha un senso, ha speranza di trovare un senso, se non è finita, e anche quand’è finita non è detto;...”
Anche se questa riflessione arriva dopo più di un centinaio di pagine, sin dall’inizio, quando la scrittura cerca di imitare il flusso inarrestabile dei pensieri di Mario, che si aprono e scorrono seguendo una corrente di quieto tumulto e fanno fatica a chiudersi e, alla fine, molto alla fine, si chiudono ma solo per riaprirsi verso un altro fronte, estuario che si ramifica proprio come i circuiti che collegano i dendriti con gli assoni, il lettore viene preso quasi da un presagio, un vago ma insistente prenunzio, che incombe e si fa sempre più incalzante, che si tratti di un romanzo della distruzione, la probatio diabolica dell’ex nihilo nihil fit, del cupio dissolvi et dissolvere.
“Tutto prima o poi viene raso al suolo.” Non solo i palazzi dell’infanzia di Mario, ma anche le vite, quelle “vite precarie”, proprio come le case, che sono di passaggio, o in prestito o demolite o luoghi irriconoscibili dall’odore greve e marcescente o automobili dove consumare un sesso meccanico e anonimo.
Per questo, non c’è un climax, ne “Le ripetizioni”, romanzo di “tutta una vita” (per dirla alla Lelouch) di Giulio Mozzi, quasi un‘operazione chirurgica ablatoria della materia oscura del dolore, quella “fitta al petto, che non va via”, quel “non sentire più niente, non sentire più la presenza della vita”.
Sembrerebbe, a tutta prima, un romanzo corale, e in effetti è affollato di personaggi, ma tutti comprimari, tutti serventi e servitù, tutti specchi riflettenti, come nella scena finale de “La signora di Shangai” di Orson Welles, di un”umano, troppo umano” e per questo di un “umano, non-umano”, in cui Mario è solo un trait d’union, un filo rosso che unisce (?), costruisce (?) o, forse, semplicemente attraversa, quelle che non riescono mai a essere relazioni, ma sono solo un “network” di vite che non cercano niente, non vogliono niente e non vogliono pensare a niente, perché “pensare la verità è male”. E la testa, lisergica di sesso, sta bene e si svuota e i pensieri si ritirano, quando il corpo è saccheggiato, quando diventa cane/cagna, animale ubbidiente che si lascia fare tutto, impotente di fronte alla vita, “quella bruttezza con la quale gli uomini così spesso ricoprono sé stessi e le cose del mondo”.
Reificazione del desiderio che va “al di là del bene e del male”, in cui il sesso non è possesso, smette di essere dialettica vittima/carnefice, i ruoli si confondono, si mischiano, si sovrappongono, sono fungibili, permeabili, interscambiabili, non c’è un padrone, neanche quello che proclama di esserlo, ognuno ha bisogno di essere il suo opposto, di essere altro rispetto a quello che “apparisce”, ognuno ha un suo “Mister Hide” che gli consente di sopportare la vita “idolica” di tutti i giorni.
Il corpo, allora, non è più un mezzo, non c’entra la violazione dell’imperativo categorico kantiano dell’altro come fine, il corpo è necessario, necessario e indifferente allo stesso tempo, non ha un genere e, a volte, neanche una specie, il corpo non è un mezzo perché non c’è mai un fine. È la paura che genera il desiderio, la paura non della morte ( un’altra dicotomia violata, quella di eros-thanatos) ma la paura della vita e genera un desiderio liquido, che sgocciola, che sborra, che defeca, che si eccita e lascia andare secreti che sporcano, umori traslucidi e viscosi, seme prostatico, desiderio fatto di contrazioni, di spasmi, di tremori, di fremiti, desiderio che vuole resistere e che non vuole essere placato se non quando raggiunge un’inevitabile “petit mort”. Un desiderio che ha bisogno di ripetizioni, ripetizioni infinite, di rimanere invitto, desiderio malvagio e suicidario che vuole continuare a sfidare la morte, a dimostrare di essere ogni volta più forte, o più debole, e comunque di farcela, senza mai essere contaminato o distrutto o annichilito, desiderio che muore col suo effimero appagamento e, per questo, si riproduce metamericamente.
“La cosa che è sempre stata misteriosa per Mario è l’amarsi dei suoi genitori… il loro essere insieme di fronte al mondo, di fronte a tutto.”
Ma non è questa la fine del romanzo. Non c’è speranza, e non perché, come diceva Spinoza, la speranza è “una passione triste”, ma perché “Le ripetizioni” è una metafora dei nostri tempi, cupi e feroci, in cui ci muoviamo, dantescamente, come simulacri esangui di sentimento, incapaci di costruirsi storie, “narrazioni” che “servono a fondare le comunità”, indifferenti al male al punto non solo di non riconoscerlo, ma, forse, per questo, di farne alimento della nostra sopravvivenza.
Giulio Mozzi, Le ripetizioni, Venezia, Marsilio, 2021