Tommaso Ottonieri. L'arte plastica della parola
di Riccardo Donati
Quando penso all'opera di Tommaso Ottonieri un'immagine s'impone sulle altre: la danza dei bulbi oculari, il loro volteggiare in spirali ipnotiche, nel Filmstudie di Hans Richter (1926, tre anni prima dell'epocale cut buñueliano di Un chien andalou). E questo non solo perché il percorso di Ottonieri, dall'esordio folgorante di Dalle memorie di un piccolo ipertrofico (1980) all'ultimo, poliedrico Geòdi (2015), pullula di visioni e trabocca di sguardi, ma anche per un motivo più sostanziale: pochi, forse nessuno degli autori italiani di oggi – con la sola eccezione del sodale Gabriele Frasca – mi pare altrettanto rapito dalla lezione revulsiva e convulsiva delle avanguardie storiche, tra imprinting modernista (da Joyce a Ballard, via Beckett), gusto astrattista, ludica sensibilità dada (pre-bretoniana) per l'elemento figurativo. I legami di questo artista multimediale – ché definendolo altrimenti perderemmo per strada pezzi importanti del suo lavoro – con le migliori esperienze di rottura del periodo post-bellico sono evidenti e documentabili, ma se si vuole davvero cogliere la specificità, e anche la singolare fascinazione dei suoi testi, è soprattutto alle sperimentazioni linguistiche di cento anni fa che si dovrà tornare: ai chimismi lirico-materico-sapienziali, alla visionarietà cosmica di certo cinema (Duchamp, Ray, Bragaglia), di certa architettura (Scheerbart, Taut), di certa musica (più che Satie, forse, la Lautpoesie di Schwitters), di certa arte (da Prampolini, poniamo, a cose come i balli plastici di Depero, il Cirque di Calder). Anche per questo, ne sono convinto, Ottonieri è uno dei pochi che si ostina a nuotare controcorrente rispetto al fiume maestro dei tempi – ieri il postmoderno casual, oggi il mimetismo ingenuo o, peggio, scaltro-nichilistico – uno dei pochi a pensare il ruolo dell'artefice in chiave ritualistica (tra melos e opsis), macchina per la riprogrammazione dei sensi in direzione pre-soggettiva e trans-storica, tanto estatica quanto coerentemente, disciplinatamente materialistica. Senza che tutto questo, si badi, comporti un'ombra di epigonismo, perché Ottonieri non scrive dopo il secolo delle Avanguardie, non scrive per nostalgia di quell'epoca irripetibile, in ossequio alle neiges d'antan o in adorazione del vintage: il momento in cui le sue invenzioni verbo-visive agiscono non è il passato ma piuttosto il futuro anteriore, unica dimensione temporale possibile per un'arte che si voglia viva, guizzante e assetata di altro.
Tra i meriti della monografia che Giovanna Lo Monaco ha dedicato all'ormai quarantennale itinerario creativo di Ottonieri – Tommaso Ottonieri. L'arte plastica della parola: la prima, et il était grand temps – c'è a mio avviso quello di aver dato il giusto rilievo a questa componente proiettiva, a questo slancio visionario, di cui offre sicura testimonianza la riconosciuta centralità del magistero di Dino Campana. Il saggio, pubblicato sul finire del 2020 dai tipi di Ets, si presenta come una mappa ben delineata e dettagliata, di grande utilità per studenti, studiosi, lettori appassionati, capace di restituire in modo organico e piano i molteplici approdi del Magnum opus ottonieriano, la sua debordante fenomenologia (e fisiologia); una mappa tracciata seguendo il paradigma forte del “registro equoreo” individuato a suo tempo da Giorgio Manganelli. Una comune radice acquatica accomuna del resto i libri di molti protagonisti di quella generazione: basti ricordare qui le spiagge adriatiche e le Ofelie di Remo Pagnanelli, i fiumi venosi del corpo/mente di Valerio Magrelli, le naiadi e bagnanti remixate che punteggiano i versi dei confrères Marcello Frixione e Lorenzo Durante. Nel caso di Ottonieri, però, le implicazioni sussunte in questa materia nonché simbolo ancestrale risultano pressoché infinite. Ora, infatti, l'autore ci accoglie nell'antro amniotico dove volteggia la fantasmagoria pre-moderna (lucreziana) e liberatoria del corpo gioiosamente accordato alla legge prima dell'esistenza, la mutazione; ora, al contrario, ci precipita nello scolo-fogna delle pianure avvelenate e mercificate, là dove ristagna la fantasmagonia (post-fordiana) di corpi insieme prigionieri d'una forma data e disciolti dal solvente dell'informe/inautentico. Da un lato, quindi, la smaltata cafonaggine della civiltà dei polimeri e degli idrocarburi; dall'altro la felix, ancorché ruvida, curiositas della sapienza alchemica. Tale schema, sospeso tra un euforico gocciare e diluvi calamitosi, non comporta alcuna rigida linearità evolutiva, bensì continue svolte, tornanti e loop: certo più spiccatamente alchemico-liberatorio può dirsi l'Ipertrofico; al capo opposto, decisamente terminali-catastrofici appaiono, poniamo, Crema acida ed Elegia sanremese, mentre una coesistenza degli opposti si registra in testi come Contatto o Geòdi.
Particolarmente convincente, ne L'arte plastica della parola, è la restituzione dei vari livelli di realtà che si sovrammettono, a ondate, di rigo in rigo, di verso in verso, nell'opera di Ottonieri. Lo Monaco evidenzia con chiarezza le continue oscillazioni di piano che inclinano la dimensione intima del privato – con correlati nodi psicoanalitici, specie in relazione al tema della paternità e del rapporto col padre, lo scrittore Mario Pomilio – verso quella superindividuale del cosmico – l'eterna lotta di Genesi e Apocalisse che, dagli spazi siderali agli abissi ctoni, si rincorrono e rovesciano incessantemente l'una nell'altra. Quanto alla prospettiva storico-critica, il saggio inquadra utilmente il percorso di Ottonieri in relazione allo scenario della “letteratura circostante”, ricostruendo un reticolo di corrispondenze e di affinità che va dai maestri (Balestrini, Pagliarani, Sanguineti soprattutto) ai membri e fiancheggiatori del Gruppo '93, passando per una delle figure più interessanti della letteratura italiana recente, ossia Aldo Nove. Condivisibili e ben centrate risultano in tal senso le pagine dedicate al Movimento del Settantasette e alle sue pulsioni desideranti, se l'“orda d'oro” risulta decisiva non solo per gli anni della formazione ma per l'intera esperienza artistica di Ottonieri, anche rispetto a un certo ascendente schiettamente, felicemente pop: si pensi alle sue collaborazioni col vulcanico Pablo Echaurren, giustamente ricordate da Lo Monaco.
Di capitolo in capitolo, la studiosa censisce, capillarmente e nelle strutture portanti, un'area di interessi vastissima, che spazia dalle questioni generali di ordine estetico (il Lo-Fi, la feconda sgranatura della bassa fedeltà; le tecniche di decostruzione della trama e della sintassi; il côté performativo, a riprodurre il battito frenetico del contemporaneo; il rapporto occhio-orecchio, tra oralità radiofonica e pulsare degli schermi: installazioni, videogame, cinema, tv) ai segreti dell'officina d'autore in materia di strumentazione retorico-stilistica. Attraverso puntuali indagini di radiografia intertestuale, Lo Monaco illumina le trasmutazioni di una materia linguistica malleabile e reattiva che tutto rimastica e incorpora, dai classici antichi all'alternative rock al rap, passando per la tradizione lirica nazionale (notevoli in tal senso i rilievi sul “dantismo” e sul “petrarchismo” d'autore). E ancora: emergono, dal divampante crogiolo del corpus ottoneriano, urgenti questioni socio-politiche di volta in volta rimodulate plasticando il suo discorso antagonistico sulla logica profonda, non lineare ma quanto rivelativa, del flusso ritmico-discorsivo. Penso all'intreccio capitalismo/feticismo delle merci/espropriazione dei corpi; penso al nodo che stringe innovazioni tecnologiche e spossessamento dell'organismo (individuale e collettivo), sigillando la mente nel sottovuoto mediale; penso alle risultanze global-microfisiche della psicogeografia e alla necessità etica di riterritorializzare i luoghi.
Anche su quest'ultimo, specifico punto la prassi creativa di Ottonieri dimostra una non comune ricchezza e poliedricità. Non credo infatti di ingannarmi nel sostenere che certi brani dedicati ai mall centro-meridionali o alle desolazioni della piana del Fucino, loci naturales della fantasia d'autore, ricordino, dico da un punto di vista degli esiti e delle intenzioni – ne sia consapevole o meno l'autore – una sagace tecnica d'avanguardia come il fukeiron (teorizzata da alcuni cineasti giapponesi degli anni Sessanta), consistente nel ribattere in modo ipnotico su certi paesaggi così da giungere a disperderne/rifonderne l'identità, creando un cortocircuito folgorante tra quello spazio e i presupposti ideologici della società che lo ha plasmato. Qualcosa di simile peraltro stanno provando a fare, in questi ultimi anni, autori che con Frasca e Ottonieri hanno più di un debito: Italo Testa, Andrea Inglese, tra gli altri. Non è che un esempio, o meglio un'ipotesi: ma credo aiuti a confermare l'assoluta centralità, e attualità, di un artefice che da oltre quarant'anni procede, per forza di inventività aggregante e vis polemica atomizzante, a modificare la linea di galleggiamento dei saperi e delle pratiche inteartistiche. Questo è, senz'altro, uno dei meriti maggiori dell'opera di Ottonieri: disassestare il già dato e il già esperito, disciogliere e conglomerare incessantemente sintagmi e suoni, fino a che la pagina non diventi una distesa di orecchie in ascolto e di pupille occhieggianti – sublimemente affrancate, o subdolamente estromesse, dai corpi cui appartenevano, come i bulbi di Richter.
Giovanna Lo Monaco, Tommaso Ottonieri : l'arte plastica della parola, Pisa : ETS, 2020