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La città che cambia; il soggetto che cambia: un primo sguardo sul ruolo del paesaggio urbano milanese nella poesia di Elio Pagliarani

 

Andrea Donaera

 

ABSTRACT

Il focus del presente elaborato è l’esperienza di Elio Pagliarani, poeta nato e cresciuto nella provincia romagnola, trasferitosi in gioventù a Milano, città nella quale vivrà per circa dieci anni e che risulterà decisiva per la sua produzione letteraria. I suoi primi tre libri, infatti, sono stati scritti durante questo periodo e in essi la città meneghina è assolutamente centrale: Cronache e altre poesie (1954) è un «diario milanese» che propone (tra l’altro) una personalissima revisione del topos città/campagna, con attenzione verso la dura realtà che si esperisce in una città «capitale del nord» e protagonista del boom economico; Inventario privato (1959) è un canzoniere amoroso reso atipico e originale proprio dallo sfondo urbano e angoscioso, con due amanti che vivono la loro infelice relazione imprigionati in una toponomastica precisa che si fa metafora di una visione dolorosa dell’esistenza; La ragazza Carla (1960), considerato il capolavoro del poeta, è un romanzo in versi in cui le vicende della protagonista sono del tutto assorbite nei processi della città industrializzata, con le estreme conseguenze provocate da un mondo del lavoro schiacciante e un’urbanità fredda, distaccata, simbolo del nuovo capitalismo imperante. Fondamentale, per entrare in profondità nell’opera di questo autore, è stata la nuova edizione di Tutte le poesie (2019), curata da Andrea Cortellessa.

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The article discusses the poetic experience of Elio Pagliarani, native of the Romagna region. Pagliarani moved to Milan when he was young and he lived there for about ten years. The city was a key point of his poetic. In fact, Pagliarani wrote his first three books during the milanese period and the city of Milan remains absolutely crucial in all of them. In Cronache e altre poesie (1954), a «milanese diary», he revisits the relation between city and the countryside, stressing the cruel reality of a city turned into the "capital of the north Italy" due to the economic boom. Inventario privato (1959) is a love chansonnier that is so peculiar precisely because of his urban background. In the book, two lovers live their unhappy life as if they were imprisoned in the city. The detailed toponimy of Milan becomes therefore a metaphor of a pessimistic view of the world. La ragazza Carla (1960), the masterpiece of the poet, is a novel-like poem where the main character moves through the very core of the mechanisms of the industrialized city. He encounters here the consequences of the overwhelming workplace. The city itself, remaining cold and detached, is a symbol of the new strict capitalism. The new edition of Tutte le poesie (2019), with the curatorship of Andrea Cortellessa, has been fundamental to better understand the work of the poet.

 

KEYWORDS

Pagliarani, Poesia, Milano, Città, Novecento 

 

 

Vent’anni dopo Linea Lombarda di Anceschi, Alfredo Giuliani prenderà in considerazione un secondo gruppo di poeti, più giovani, afferenti a una zona lombarda, includendovi anche milanesi d’adozione. A quella combinazione di «attenzione alle cose, al paesaggio, e a una quotidianità dimessa e pungente», che Anceschi individuava nei poeti lombardi, Giuliani aggiunge una sorta di «attitudine morale» che parte da lontano, da autori come Parini e Manzoni (Giuliani, 1977: 216).

Pagliarani, nato in Romagna nel 1927 (a Viserba, in provincia di Rimini) e andato a vivere a Milano nel 1945 (dove vivrà fino al 1960, anno del trasferimento a Roma), viene incluso in questo raggruppamento, non soltanto per l’amicizia e stima che legava l’autore e il critico, ma perché, con questa nuova suddivisione di Giuliani, la città di Milano assume un ruolo che in pochi altri oltre a Pagliarani erano stati in grado di esplicitare durante gli anni del boom economico.

Il nuovo statuto dello spazio urbano milanese è, a partire dagli anni Sessanta, immediatamente accostabile all’opera di un poeta come Pagliarani:

Nel gruppo di poeti individuato da Giuliani il dato geografico richiama contemporaneamente un intricato tessuto sociale, una dinamica storica, un autonomo sistema di valori: Milano assurge a codice di un’intera epoca e di un’intera nazione. Naturale che ricompaia a pieno titolo Pagliarani, non solo per la toponomastica e la topografia urbane ricorrenti nella sua prima produzione, ma per la spontanea adesione allo spirito milanese dove trovano sintesi la fedeltà ad un realismo schietto e prosaico e il potenziale espressionistico necessario a rendere i fermenti che caratterizzano un ambiente e un tempo inquieti (Crippa, 2017: 454).

È utile partire da quanto scritto dal poeta stesso nel 1992 sulla rivista edita da Crocetti «Poesia», nella rubrica dedicata alle città dei poeti, ideata e curata da Maurizio Cucchi. Dopo oltre trent’anni dalla fine del suo periodo di residenza nel capoluogo lombardo, la visione di Pagliarani sul suo rapporto ego-geo-centrato risulta illuminante su molti aspetti della sua opera: 

E poi Milano è la città meno “interessata” alla poesia. Ma forse non è vero, i milanesi semplicemente non amano la poesia come orpello, ornamento, frivolezza. E però la poesia è anche orpello, ornamento, frivolezza. Ma questo allora, cioè nei miei anni milanesi, forse non lo sapevo neanch’io, e del resto nella mia poesia ne ho quasi sempre tenuto poco conto: il che ne costituisce certamente un limite. E partecipavo, allora, della «vergogna della poesia», con tutto quello che ci pareva dovesse essere fatto e/o ricostruito, nell’immediato dopoguerra... Ero dunque più milanese dei milanesi, allora, o milanese come i milanesi... però scrivevo poesie, mi esprimevo scrivendo poesie: capitale, e per me vitale, contraddizione.

Com’è insensato che io dica che la mia poesia è indirizzata particolarmente a chi non s’interessa di poesia. E così, anziché dire che la conoscono nei limiti con cui si può conoscere oggi ciò che non è manipolato e nemmeno veicolato dai mass media (Pagliarani, 2019: 477).

Il rapporto dichiaratamente conflittuale con la realtà cittadina milanese – che include una certa fascia della cittadinanza, presumibilmente quella che in quegli anni popolava la vita culturale della “capitale del nord” – emerge apertamente nell’esordio Cronache e altre poesie, per poi farsi qualcosa d’altro – una «metonimia diffusa» (Bagnoli, 2003: 12) di un sentimento amoroso tormentato e doloroso – in Inventario privato e, infine, consolidarsi in fondale scenico di scombussolamenti sociali – e dunque etici, antropologici, finanche di genere – ne La ragazza Carla.

L’attenzione allo spazio è comunque sempre stata molto evidente nella poesia di Pagliarani, a partire dai primissimi testi, scritti a partire dal 1946, quando era appena andato via dalla Romagna per andare a vivere a Milano. Lo spazio protagonista di quei versi è quello riminese, con lo sguardo stretto verso i particolari di Viserba Monte, in un’atmosfera di nostalgico distacco. Si veda uno dei testi più datati, risalente all’ottobre 1946:

 

Dai luoghi bianchi dove posso ancora

posare i sogni stanchi di speranza

i sogni opachi senza forma alcuna,

prenderà vita un giorno la sorgente,

chiara uscirà, per la sua bianca origine,

e sarà l’acqua della Sacramora

sarà l’acqua racchiusa nella coppa

delle sue mani dove brilla ancora

il sole rattenuto il sangue scuro

delle more nascoste nelle siepi

di rovo ai giorni caldi dell’agosto,

sarà memoria dolce defluita

e corrente, la forza che mi giovi

a camminare scalzo in queste strade (Pagliarani, 2019: 43).

 

Il biancore degli stabilimenti della riviera adriatica, l’antica fonte romana del quartiere viserbese Sacramora, sono luoghi lontani dove «posare i sogni stanchi di speranza» e che rendono viva una «memoria dolce defluita / e corrente», in una scrittura quasi elegiaca che non si ritroverà quasi mai più in Pagliarani. Si prefigura però già una poesia tesa verso un paesaggio tutt’altro che cittadino, e che inizia a comporsi subito dopo il trasferimento milanese, facendo preludere un rapporto ambivalente e non pacifico tra luogo d’origine e luogo di residenza: questo tipo di rapporto connoterà il libro d’esordio Cronache e altre poesie.

 

1. Cronache e altre poesie (1954)

Cronache, piccola plaquette costituita da soltanto dodici componimenti, si configura come una sorta di «diario milanese» di un giovane trasferitosi nella città provenendo dalla provincia romagnola, ritrovandosi immerso in una «umanità non solo socialmente, ma intimamente, fisiologicamente degradata» (Cortellessa, 2019: 13). Il milanese “puro” Luciano Erba, tra i primi a recensire la raccolta, dalle pagine del secondo numero de «L’esperienza poetica» parla di Pagliarani come di un «buon provinciale adriatico» che «aggredisce Milano, corre a frugarne il facile sesso, si prenota per un capitolo di quel “Milan was our Mistress” che qualcuno tra i métèques più fortunati vorrà pur scrivere un giorno o l’altro» (Erba, 1980: 39).

Si legge, nella poesia d’apertura del volume, intitolata proprio Due ottave dal diario milanese:

 

Non ho avuto pietà di questa gente

che mi offende negli occhi ogni mattina.

Fanciulle senza petto e con la schiena

– come farà a godersele l’amante –

e madri senza petto e con la schiena

che se un goccio ce n’era l’hanno preso

uomini con le facce disegnate

e la pelle color di vesti usate.

 

Tipi di questa fatta dove ho visto?

ho visto dei barattoli di latta

(a Porta Ticinese, in baracconi

come i casini pieni di soldati)

drizzati su una mensola, il pupazzo

meccanico invitava: Tira, tira,

tre palle un soldo e in premio una bottiglia.

Ma la mia faccia, mamma, gli assomiglia (Pagliarani, 2019: 73).

 

Si tratta di donne «senza petto e con la schiena» e uomini «con le facce disegnate» imprigionati in una meccanizzazione di gesti, in modo seriale e alienante, posti alla stregua di un «pupazzo meccanico» da tirassegno. Milano, con i baracconi di Porta Ticinese simili a «casini pieni di soldati», fa da sfondo schiacciante, una cornice tutt’altro che propulsiva o edificante, che ospita una umanità di scarto, irrelata.

L’io di questi testi è portatore di una pietà oggettiva, sentimento caratteristico di tutta l’opera di Pagliarani (tanto che nel 1997 produrrà una auto-antologia intitolata proprio La pietà oggettiva). E sembra essere il topos dello scontro tra campagna e città – Romagna e Lombardia, Viserba e Milano – ad alimentare questo sentimento che fa da carburante espressivo sin dal primo libro – e non solo, se si considerano le poesie escluse da Cronache, datate tra il 1949 e il 1953, come ad esempio il testo Notizie, dove trapela il trauma del distacco del “fuori sede”:

 

O d’inverno le notti quando sento

cedere la mia schiena, nelle pause della città,

e penso che porterò mia madre a Milano

a darmi una mano, che chi sa che il suo grembo non abbia

degli altri alimenti (Ivi: 411).

 

La figura materna, già vista nelle Due ottave precedenti, ritorna in Cronache sempre nel legame con il luogo d’origine, con l’infanzia e con il passato viserbese. È in questi aspetti che trapela il particolare ruolo dell’entità cittadina in questo libro, nel quale in realtà si crea un costante rimando a Viserba, agli spazi famigliari, resi sempre più chiari dalla vita diversissima della grande città.

In Viaggio n.2, in un cortocircuito spaziale che porta il lettore tra Ferrara e la veneta Battaglia Terme, compaiono Viserbella, Bellaria e «le città di mare» dell’adriatico; ma è in Romanza sotto la pioggia, secondo componimento dell’esordio, che questa atmosfera straniante di alternanza spaziale, tra memoria e realtà, è resa in modo esemplare – facendo anche già intravedere la «necessità dell’ampliamento del linguaggio poetico» e della «lotta frontale al pregiudizio della “parola poetica”» (Ivi: 480) che saranno costitutive nel Pagliarani che verrà:

 

Supponiamo che io fossi nato oggi

con questa pioggia che mi fa cantare

– lavorano i taxi lavorano le carrozze

e cresce l’artrite a mio padre

È bello qui e non s’incontra un cane

svolta a Viserba Monte di Pietà

– prendi l’undici intanto che passa

le scarpe sono una barca

Ha le doglie mia madre e come piove

adesso nasco e piangerò di botto

– oh il tuo bel castello maccolìo-lìo-lléro

oh il mio ancor più bello maccolìo-llìo-llà

Stasera ho voglia di un brodo

e d’una donna che m’aggiusti il letto

Signorino si accomodi: duemila,

combinato l’affitto del “salotto” (Ivi: 74).

 

Mutuando il lessico di Michel Collot, siamo lontani dalla feroce défiguration (il paesaggio che riveste un ruolo concreto, quasi tematico, in uno sfondo di intima resistenza) che sarà in atto ne La ragazza Carla: qui avviene un processo di transfiguration (il paesaggio che si ammanta di onirico, assume tratti immaginifici ed eccentrici rispetto alla realtà) che impianta nel processo onirico sprazzi di luoghi smarriti insieme a spazi circostanti (Cfr. Collot, 2005: 131–132). Sono efficacissimi gli accostamenti di taxi e carrozze, della «bella» desolazione di Viserba Monte e del tram preso con le scarpe piene di pioggia milanese; la memoria torna indietro all’artrite del padre, e ancora di più, fino a prima della nascita del poeta: le doglie della madre, la nenia cantata per lui appena nato e che piange «di botto»; il ritorno doloroso al presente, nel desiderio «di un brodo» che invece si scontra con il dover dormire in un «salotto» affittato per duemila lire.

Non è dunque davvero Milano lo spazio egemonico di questi testi: è, in realtà, il dramma di un romagnolo inurbato, con le sue conseguenze stranianti e quasi fellinianamente oniriche (cfr. Santini, 2013: 118), in uno scontro – sotteso ma costante – tra una Viserba che si fa locus amoenus e una Milano che non può essere altro che locus horridus (cfr. Scaffai, 2017: 87 – 93).

La grande epica cittadina, concentrata negli spazi urbani del boom economico milanese senza (quasi) interferenze provenienti dagli aspetti memoriali dei luoghi famigliari, comincerà a profilarsi soltanto a partire dal libro successivo. In queste poesie, tutte tese verso una transfiguration che comunque non sublima mai alcuno spazio, le circolari sono pavesiane navi «dei mari del sud» che imbarcano acqua, la toponomastica milanese è un gorgo, un Maelström, i movimenti negli spazi urbani sono il compiersi di una disavventura quotidiana che bisogna imparare a vivere:

 

La mia nave dei mari del sud

fa carico d’acqua a Porta Vigentina

– non temere, secondo la corrente,

ma attorno, circolare, sempre più

(è nella norma) vertiginosamente

come il ventinove come il trenta

siamo presi nel giro, non m’attardo,

il gorgo è a mulinello, il Maelström,

non te l’hanno insegnato? è sempre quello

Porta Romana Porta Garibaldi... (Pagliarani, 2019: 80)

 

Qui Pagliarani non instaura ancora un’epica come quella che ci sarà nei romanzi in versi successivi, perché predilige, come già dal titolo è chiaro, la prospettiva della cronaca (cfr. ivi: 412-415), «in linea con la couche neorealista, che giustappunto dell’ispirazione cronachistica – schiacciata sul presente e sulle sue piccole e grandi emergenze – fa, in quegli anni, una bandiera polemica» (Cortellessa, 2019: 13). Ma, accostando questo libro ai lavori di poeti neorealisti suoi contemporanei come Cesare Vivaldi o Luigi Di Ruscio, emerge la differenza:

Per Pagliarani la cronaca è una condizione esistenziale nella quale si esprime la precarietà del destino dell’uomo in una società dove a molti non è data garanzia di sicurezza e stabilità. [...] Caricato di queste significazioni, l’interesse per la cronaca vuol dire anche interesse per la condizione umana. Un interesse, tuttavia, che non adisce le zone dei grandi ideali e delle rivendicazioni generali, ma che viene invece riportato ai livelli primari dell’esistenza, alle situazioni liminari tra umano e sub-umano che sono quelle in cui si dibatte appunto l’uomo di massa (Turconi, 1977: 117).

 

2. Inventario privato (1959)

Di Inventario privato (1959) colpisce innanzitutto la datazione: marzo – novembre 1957, quindi la stesura risulta contemporanea a quella de La ragazza Carla, cioè settembre 1954 – agosto 1957. La ragazza Carla è uno dei più noti esempi italiani di romanzo in versi, dotato di una poderosa eliminazione dell’io lirico e teso verso le sempre più urgenti sperimentazioni neoavanguardistiche; Inventario è invece un canzoniere d’amore, dai toni spesso crepuscolari (o comunque primo novecenteschi) e impostato nel classicissimo impianto dialettico di un soggetto maschile e un’alterità femminile. Sebbene i due libri possano sembrare nettamente distanti, la cronologia delle stesure pone l’attenzione sulle adiacenze che, invece, traspaiono. Cortellessa concepisce infatti Inventario sì come «un unicum sorprendentemente lirico nel percorso di Pagliarani», ma anche come «un interludio» in cui già sono evidenti il linguaggio peculiare dell’autore (qui «ormai perfettamente calibrato nei suoi scompensi procurati, nelle sue intermittenze, nei suoi stordenti cambi di ritmo») e «soprattutto le ambientazioni che ritroveremo – presto, ormai, prestissimo – nella Ragazza Carla» (Cortellessa, 2019: 16). Ed è interessante, a questo punto, prima di entrare nei testi, leggere direttamente dalle tarde memorie di Pagliarani cosa pensasse Pasolini – uno dei suoi primi e importanti estimatori – dell’accostamento di queste due opere:

Una volta Pasolini mi disse [...] che fra La ragazza Carla, che pure stimava non poco e ne apprezzava l’impegno maggiore, e l’Inventario privato, preferiva quest’ultimo perché scritto con la pelle o con le viscere o con il sangue – purtroppo non ricordo la sua espressione precisa. A parte il fatto che anche La ragazza Carla è stata scritta pressappoco nello stesso modo (ed è gravata anch’essa di autobiografia), io risposi a Pasolini che non avrei voluto più, mai più scrivere versi sulla mia pelle mettendo in gioco la mia vita (Pagliarani, 2019: 479).

Inventario privato è un volume esile, composto da ventuno poesie, suddivise in tre sezioni: Il primo foglio, A riporto, Totale S.E. & O, e già da questi titoli è facile dedurre l’eccentrica collocazione impiegatizia delle liriche. I testi che compongono il volume sono infatti ambientati nella stessa Milano che sarà l’importante sfondo de La ragazza Carla: non più la città straniante scoperta da un outsider romagnolo, ma la metropoli del lavoro, dei nuovi mezzi di produzione, dell’industria inesausta; la destinataria dell’amore dell’autore è Giuseppina (mai nominata col suo nome nella raccolta), una ragazza che lavora come segretaria in uno studio legale, come racconta Pagliarani nel Pro-memoria a Lia Rosa (cfr. Pagliarani, 2011: 215–217) e come si intuisce nel testo che segue – si noti l’utilizzo anaforico del termine «ufficio» e l’appellativo «ragazza», che rendono già visibili le ossessioni tematiche del libro successivo, tanto da poter pensare a Giuseppina come una figura futurorum di Carla:

 

[...] Quante ore

d’ufficio e quanti giorni in questi anni

d’ufficio fanno il totale della giovinezza?

 

Non so quanta saliva ha da secernere

la ragazza incollando francobolli, so

che cosa bruci per tenere in luce

te soave e i capricci (Pagliarani, 2019: 92).

 

Nel libro il tema dell’amore «resta una questione privata», ma «stride diversamente in una città moderna. [...] Il paesaggio urbano non è soltanto un fondale, e gli amanti non sono mai stati tanto soli» (Pedullà, 1999: 186). Biagio Cepollaro parla di un «canzoniere moderno», considerando la sua natura ibrida tesa sì alla rimodulazione di un genere oltremodo classico, ma anche alla introduzione, nella lirica italiana, dei processi sociali in atto all’altezza degli anni Cinquanta del Novecento:

Del canzoniere ha il soggetto amoroso, l’introspezione, il chiodo fisso, la coazione, il dissidio, la variazione sul tema [...]. Di moderno ha l’ambientazione metropolitana, la collocazione sociale del mondo impiegatizio, la toponomastica precisa, l’ideologia della guerra fredda e della bomba, [...] la sperimentazione formale per tenere dentro un registro basso-colloquiale una pluralità di piani e di allegorie (Cepollaro, 2015).

Queste riflessioni di Cepollaro sull’impostazione tematica dell’opera sono preziose per fare luce sugli aspetti che sin da una prima lettura emergono dai testi di Inventario privato. La vicenda sostanzialmente tipica di un amore infelice si nutre di oggetti “moderni”, si svolge in ambienti urbani tutt’altro che idilliaci, creando un contrasto suggestivo, in cui sono spesso le “cose” a caratterizzare il pathos delle parole.

Un esempio nella prima strofa della lirica che apre il libro:

 

Se facessimo un conto delle cose

che non tornano, come quella lampada

fulminata nell’atrio alla stazione

e il commiato allo scuro, avremmo allora

già perso, e il secolo altra luce esplode

che può porsi per noi definitiva (Pagliarani, 2019: 91).

 

Sin da questo testo iniziale è chiaro che le «cose che non tornano», inventariate, sono artificio per creare uno scenario metropolitano, come quello di una stazione buia (la «lampada fulminata nell’atrio della stazione»); e sono espediente anche per lanciare la storia d’amore in quel contesto troppo più grande in cui gli amanti vivono e contro il quale contrastano: il secolo in cui «altra luce esplode», la luce «definitiva» del progresso che mai come a Milano è tangibile e invasivo.

La poesia di cui sopra procede poi con una strofa che immette ulteriormente il lettore in quella che sarà l’atmosfera angosciosamente urbana di tutto il libro, presentando la «milanese signorina» attraverso i dettagli estetici e vezzosi utili a determinare la provenienza sociale della ragazza e anche quella cittadina: è chiaro che difficilmente si tratterebbe di una giovane della provincia italiana dei tardi anni Cinquanta, con i suoi «tacchi alti», le mani da pianista «provate sopra i tasti» o i «fili di tabacco» sul labbro. I due amanti sono immersi nel topos dannunziano (la «nostra corteccia») della camminata tra gli alberi sotto la pioggia, ma immediatamente ribaltato perché il parco è solo parte di un «piano d’assedio cittadino». Il pineto è adesso una città – segno, questo, di quanto ancora in quegli anni fosse sentita la necessità di attraversare D’Annunzio, sia nel linguaggio (in questo libro Pagliarani rigetta sempre di più gli innalzamenti aulici) sia nella parodizzazione di certi topoi che inchiodavano ancora certa lirica italiana in strette coordinate dannunziane: 

 

Ma se ha forza incisiva sulla nostra

corteccia questa pioggia nel parco

da scavare una memoria – compresente

il piano d’assedio cittadino in tutto il quadrilatero –

e curiosi dei pappagalli un imbarazzo

ci rende, per un attimo, dicendoti dei fili di tabacco

che hai sul labbro, e perfino una scoperta

abbiamo riserbata: anche a te piace

camminare? (e te non stanca? che porti

tacchi alti, polsi, giunture fragili

che il mio braccio trova a fianco,

il tuo fianco, le mani provate sopra i tasti

milanese signorina) (Ibid.).

 

Quella che compie Pagliarani è una riflessione densa, in cui storia ed esperienza privata si contrastano, essere e cultura si scontrano. E, come nella strofa seguente, è la vorticosa vita cittadina a decretare il destino di due amanti. Si noti come la schermaglia d’amore si svolge in un esperirsi quasi classico, con il poeta timido che, seduto accanto alla donna amata, le guarda i capelli, fingendo di leggere ciò che lei legge, in una posa che quasi richiama i Paolo e Francesca danteschi. È il contrasto scenico–spaziale a dare impatto ai versi: i due non leggono un libro, ma un giornale, e sono su un filobus – «sul tuo filobus»: l’oggetto, moderno, che diventa elemento di caratterizzazione della donna amata, quasi inventando una nuova forma di panismo tecno–morfo (un processo molto simile si era già verificato nel libro d’esordio; cfr. ivi: 79: «Io sono la Fiat la Ford la General Motors / un solidissimo comignolo // Com’è che così tanto potenziale non è / atto, e tanta industria è inoperosa?»), un allaccio totale alle “cose” della modernità, anticipando la programmatica posizione di Giuliani nella prefazione al volume I Novissimi, secondo cui la poesia «deve essere mimesi critica della schizofrenia universale» (Giuliani, 1961: XVI).

 

Ripensavo la gioia, il tuo alimento,

ti guardavo i capelli, il viso chiuso

e intento sul giornale dove ho finto

anch’io di leggere, rimanendo escluso,

a te seduto accanto sul tuo filobus (Pagliarani, 2019: 106).

 

Come si è visto, oltre agli oggetti, ai mezzi di trasporto e alle nuove “parole” e alle nuove “cose” della modernità, il tema amoroso di Inventario privato si dipana vagando per luoghi che si riferiscono a una toponomastica precisa. Lo spazio cittadino è assolutamente ciò che maggiormente caratterizza questo canzoniere, e in Pagliarani, come già si è potuto intuire leggendo i testi di Cronache, gli spazi non sono mai soltanto sfondo per i personaggi che popolano i testi: i luoghi, le strade, la città, «“entrano” nei personaggi e li “determinano”» (Asor Rosa, 2004: 368). Una puntuale collocazione delle vicende (anche se “soltanto” amorose e non caricate di espliciti segnali etici o morali, come è nel caso di Inventario) non funge solo da orpello, non ha funzione di pura connotazione, «non pura cornice né semplice individuazione di circostanze, ma neanche proiezione verso l’esterno dei “sentimenti” dei personaggi, [...] bensì dotazione oggettiva di realtà psichiche» (Ibid.). Si ha l’impressione che l’ambiente, pur determinandosi come ambiente, e cioè situazione storico–sociale e dimensione antropologica complessiva, «sia l’equivalente al tempo stesso di un inconscio, o sottofondo, o terza dimensione, che nei personaggi in quanto tali mancano» (Ivi: 369).

Nel brano che segue si vedano, ad esempio, «l’ombra dei parchi» che funge da transfiguration dei pensieri “pesanti” dei due amanti, e il vento «di viale Piave» che diventa mezzo metaforico per dire il «peso» di questa «schermaglia d’amore»: 

 

Che ci portiamo addosso il nostro peso

lo so, che schermaglia d’amore è adattamento,

guizzo, resistenza necessaria perché baci

la nostra storia i nostri uomo-donna

non solo all’ombra dei parchi

l’imparo ora, forse.

 

Oh, ma scompagina come il vento

freddo di viale Piave i giorni scorsi, e spaura,

quanto di me non solo porto

sulle spalle [...] (Pagliarani, 2019: 101).

 

L’ambientazione metropolitana si tratteggia in un modo mai vago, i luoghi vengono quasi sempre citati, descritti, fornendo al lettore, in una dinamica molto vicina alla cinematografia (cfr. Cortellessa, 2019: 23–27) (che vedrà la sua apoteosi nel romanzo in versi dell’anno successivo), delle istantanee nelle quali collocare le scene – sempre del tutto incentrate sul chiodo fisso della storia d’amore. 

 

Sarà ora di chiudere, amore,

che smetta di fare la guardia al cemento

tra piazza Tricolore e via Bellini,

di coprirmi la faccia col giornale

quando ferma la E, di attraversare

obliquo la tua strada, di patire

anche a passarci in treno

in fondo a viale Argonne

vicino alla tua casa (Pagliarani, 2019: 113).

 

Le movenze del soggetto e della «milanese signorina» vengono modellate e collocate, «sembrano distendersi nella toponomastica» (Cepollaro, 2015). Il poeta esprime la sua ossessione attraverso una straniante «guardia al cemento» che si può comprendere soltanto conoscendo i luoghi citati: «piazza Tricolore e via Bellini» si trovano a circa cinque minuti di distanza, il suo è quindi un vagare compulsivo nel raggio di pochi metri – e questo senso di inquieta attesa in un triangolo di zone vicine (anche viale Argonne, se raggiunta con i mezzi pubblici, è estremamente vicina ai luoghi di cui sopra) viene restituito dall’assenza di pause nel testo, e dall’improvviso cambio di ritmo negli ultimi tre versi (tre settenari dopo una serie di endecasillabi).

Ciò che si ottiene in Inventario privato è la creazione di due personaggi immessi in una strana coralità cittadina, il fatto d’amore esonda oltre la questione privata, «si fa destino comune, collettivo, teatro metropolitano di infinite vicende. È la città che guarda il ridicolo di una speranza che dispera» (Ibid.).

Guido Guglielmi dirà a proposito de La ragazza Carla qualcosa che, in realtà, è già ben chiaro in questo canzoniere-interludio, cioè l’assenza del rapporto tra città e campagna, con la centralità di Milano come “tempo ambiente”: 

Come l’ipotesi epico-lirica della terra, così l’antinomia campagna-città è caduta: la realtà della città, la necessità dell’industria capitalistica è il verbo dei muti, né la città può fingersi la mitica campagna attorno alle mura o beneficiare di un alibi (Guglielmi, 1963: 122–123).

È dunque evidente come, già in Inventario privato, «Pagliarani ha colto come pochi altri il rapporto che passa fra una quantità di esistenze individuali ingrigite nel quotidiano e la natura riassuntiva e sintetica, superumana, della grande città» (Asor Rosa, 2004: 370), pur non fuoriuscendo ancora dal rapporto con la sua biografia.

 

3. La ragazza Carla (1960)

Nel libro di memorie scoperto solo negli anni Sessanta (scritto probabilmente tra il 1943 e il 1944), intitolato La grande Milano tradizionale e futurista, Filippo Tommaso Marinetti sembra parlare esattamente della città che fa da sfondo agli eventi del romanzo in versi di Pagliarani: una Città che sale (prendendo l’espressione dall’omonimo quadro del futurista Boccioni che sarà la copertina dell’Elefante Garzanti contenente le poesie di Pagliarani) e che è palco di «martellanti ritmi di metallurgia chimica e eleganza femminile», dove «s’impone e stravince un orgoglio milanese nelle pietre nei metalli e negli uomini» (Marinetti, 1969: 22).

Pagliarani, che come Marinetti milanese non è, «bensì oriundo e soffertamente tale» vive questa città «senza “orgoglio”: senza ebbrezza cioè e, di certo, senza euforia» (Cortellessa, 2019: 17) o ottimismo marinettiano. Ed è questo che, senz’altro, ha avuto peso determinante nella stesura del capolavoro La ragazza Carla. Nel 1990 lo confermerà Pagliarani stesso, nell’Autodizionario degli scrittori italiani:     

Quando andò a Milano, sui diciott’anni, scrisse o disse, con linguaggio più o meno rilkiano, che andava a cercare le “parole d’oro”: le trovò di ferro, e poi si accorse che erano proprio quelle, di ferro o acciaio, che andava cercando (Pagliarani, 2019: 475).

Sono infatti «parole di ferro o acciaio» duramente milanese quelle che aprono il poemetto: in soli sette versi appaiono la ferrovia, i treni, i tram, la filovia, i camion – e, ovviamente, la toponomastica, con il ponte (quasi antropomorfizzato: «sta lì buono») e una traversa di viale Ripamonti:

 

Di là dal ponte della ferrovia

una traversa di viale Ripamonti

c’è la casa di Carla, di sua madre, e di Angelo e Nerina.

 

Il ponte sta lì buono e sotto passano

treni carri vagoni frenatori e mandrie di macelli

e sopra passa il tram, la filovia di fianco, la gente che cammina

i camion della frutta di Romagna (Ivi: 121).

 

Il richiamo alla Romagna qui appena letto è il primo e l’ultimo all’interno dell’opera: l’unico «altrove extra-urbano che s’introduce nel panopticon tridimensionale della metropoli» (Cortellessa, 2019: 19). Per il resto lo spazio procede attraverso una défiguration della spazialità urbana, «prima ortogonalmente distesa su una topografia piana» (Ibid.) («di là...», «una traversa...»), per poi aprirsi ai movimenti della città che “sale” e produce senza sosta («sotto passano...», «e sopra passa...»), con le «mandrie dei macelli» speculari alla «gente che cammina».

La «toponomastica concretezza di luogo» è necessaria non come semplice cornice o incremento di colore, ma perché, nel poemetto, «gli episodi della narrazione vengono incorniciati [...] da una città che è, in primo luogo, un sistema di segni, [...] linguaggi ridotti a suoni, a desemantizzato rumore d’ambiente» (Ibid.). Una Milano che è diventata definitivamente città fatta di parole e del caos della modernità, che si percorre lungo ogni passaggio del testo.

La storia di Carla è molto meno vera della Milano che le sta intorno; una Milano fatta veramente di parole, cioè di un tessuto sintattico studiato sul vero, che non scade mai a colore locale (Ibid.).

Per utilizzare un’espressione suggestiva di Guido Mazzoni, La ragazza Carla si colloca in una «periferia antilirica» della poesia del Novecento, proponendo un «recupero dell’oggettività» (Mazzoni, 2005: 189). Alla maniera della tradizione del long poem modernista iniziata da Eliot, quest’opera allarga «i confini della dizione soggettiva», rompendo con la grandissima parte della tradizione lirica precedente (e circostante) dimostrando che «l’essenziale della vita non cade mai» soltanto «in alcune esperienze personali, ma sempre al di fuori dell’io» (Ivi: 191–192). L’esperienza milanese di Pagliarani trova infatti piena voce letteraria soltanto adesso, tramite l’utilizzo di una peculiare interposta persona e nel divaricamento dello sguardo nei confronti dell’oggettività, della spazialità e della contingenza assoluta della realtà urbana nel periodo del boom economico vissuto come evento paradossale e drammatico.

L’importanza di quest’opera, però, risiede non soltanto nel decentramento dell’io lirico tradizionale, ma anche nella tematizzazione di uno spazio cittadino in itinere e delle sue estreme conseguenze, come ad esempio quelle legate al (nuovo) mondo del lavoro. Un’«etica dell’opposizione» (Giorgino, 2018: 107): la protagonista, giovane impiegata stenodattila, posta in opposizione alla città pienamente industrializzata, al lavoro necessario, alle nuove forme di alienazione. La trama del romanzo in versi, infatti, ruota attorno a Carla Dondi, ragazza che prova ad affrancarsi da una situazione economica difficile attraverso un impiego «all’ombra del Duomo» in una azienda di import–export.

 

Carla Dondi fu Ambrogio di anni

diciassette primo impiego stenodattilo

all’ombra del Duomo (Pagliarani, 2019: 127).

 

Questa collocazione impiegatizia del personaggio risale a un’esperienza biografica di Pagliarani, che nei suoi primi anni milanesi lavorò proprio per un’azienda di questo genere. Come lui stesso ricorda, nel più volte citato Pro-memoria a Lia Rosa, ottenne quell’impiego grazie all’aiuto dei Vanni, la famiglia del suo migliore amico viserbese. Nonostante la mansione svolta da Pagliarani fosse diversa da quella attribuita a Carla, la collocazione degli uffici è la medesima che si ritrova nell’opera – e anche alcuni personaggi della storia, come il viscido signor Praték, provengono da reali figure risalenti a quel periodo lavorativo.

I Vanni mi avevano trovato un lavoro, un impiego come traduttore e interprete di inglese nella società di esportazioni Italorient Import-Export Company con uffici di due stanze in piazza del Duomo. [...] All’Italorient ci rimasi per otto/nove mesi, dall’autunno del ’47 al giugno del ’48. [...] Al dottor Stanchi piaceva molto, com’è detto anche nella Ragazza Carla, “mettere la firma in molti posti”. [...] Il più incredibile e piuttosto mostruoso mi appariva il gran capo ex russo poi turco che sarà capitato in un ufficio non più di quattro o cinque volte, il quale predicava che era necessaria una terza guerra mondiale: l’ho scritto anche ne La ragazza Carla (Id., 2011: 196–199).

Carla, lì, tra quegli uffici, proprio come è stato per il suo narratore, inizierà a scoprire l’orrore di una società ormai del tutto capitalista fino a entrare nell’intimo delle esistenze dei soggetti (subirà molestie sessuali dal Signor Praték, proprietario dell’azienda), di un lavoro che in realtà si profila da subito come sfruttamento, e la difficoltà di vivere in una città aspra e alienante, con una famiglia concentrata soltanto sulle possibilità di profitto. Nelle strofe che seguono quella precedentemente citata si leggono (nel montaggio che segue una logica parzialmente oscura prendendo le mosse dal capitale The Waste Land di Eliot) prima la voce della segretaria dell’azienda e poi quella della madre di Carla:

 

Signorina, noi siamo abbonati

alle Pulizie Generali, due volte

la settimana, ma il Signor Praték è molto

esigente – amore al lavoro è amore all’ambiente – così

nello sgabuzzino lei trova la scopa e il piumino

sarà sua prima cura la mattina.

 

 

Ufficio A Ufficio B Ufficio C

 

Perché non mangi? Adesso che lavori ne hai bisogno

adesso che lavori ne hai diritto

molto di più (Id., 2019: 127). 

 

Ecco quindi che, nella routine nella quale Carla si ritrova immessa, anche lo spazio urbano che percorre diventa parte di un ingranaggio, metonimia diffusa di uno spaesamento esistenziale e di una civiltà che Pagliarani sembra dipingere come irrimediabilmente post-umana, con la «città fatta di parole» che però oramai sono soltanto caleidoscopi colorati, scritte lampeggianti sugli edifici, incisioni vanagloriose su targhe di ottone:

 

All’ombra del Duomo, di un fianco del Duomo

i segni colorati dei semafori le polveri idriz elettriche

mobili sulle facciate del vecchio casermone d’angolo

fra l’infelice corso Vittorio Emanuele e Camposanto,

Santa Radegonda, Odeon bar cinema e teatro

un casermone sinistrato e cadente che sarà la Rinascente

cento targhe d’ottone come quella

Transocean Limited Import Export Company

le nove di mattina al 3 febbraio (Ibid.).

 

La toponomastica, sempre più precisa, si arricchisce di aggettivi proposti da un narratore tutt’altro che verista, bensì partecipe e giudicante: «l’infelice corso Vittorio Emanuele», la futura Rinascente vista come «casermone sinistrato e cadente».

La presenza di una punteggiatura non precisa, con l’assenza di molte virgole, contribuisce al senso di accumulo, come se lo spazio della città fosse stato riempito a perdita d’occhio e si potesse dire soltanto a perdifiato. Una città che sembra «fatta apposta per frastornare e disorientare chi [...] solo adesso affronta la vita. E con le idee non molto chiare» (Cortellessa, 2019: 19).

Il passaggio che segue, proveniente dal penultimo paragrafo del poemetto, è probabilmente il più interessante per quanto riguarda il ruolo di Milano nel testo. Carla attraversa la città, durante una noiosa domenica di ferie, partendo dalla periferia dove vive:

 

Si può dire benissimo “Esco

a prendere una boccata d’aria” ma anche a questo

a non affogare per strada di domenica da soli

ci vuole temperanza ed abitudine (Pagliarani, 2019: 136).

 

E lo fa con «sicurezza e andamento» acquisiti dopo l’apprendistato anche violento infertole nei capitoli precedenti dagli altri personaggi della storia: ora «è milanese come è periferia», è introdotta organicamente (e ontologicamente) nel processo di reificazione della città, tanto da diventare, in un panismo grottesco, lei stessa elemento del paesaggio urbano, con le rotaie che, parodizzando ancora una volta D’Annunzio, si fanno bisce che «s’attorcigliano ai tacchi delle scarpe», capovolgimento estremo del «verde vigor rude» che «allaccia i malleoli» dannunziano.

Quello che segue è probabilmente il più interessante passaggio del poemetto, per l’oggetto di studi di questa sede, poiché Carla effettua un vero e proprio percorso, attualmente ripercorribile che dalla casa di via Ripamonti (liminare strada tra periferia e centro) la conduce verso la zone di Porta Romana, incrociando spazi e esistenze, rimuginando sul suo essere parte di tutto ciò che ha attorno – attraverso il meccanismo sapientemente ambiguo di un narratore che non lascia quasi mai trapelare o intendere quando sta dando voce a Carla o è la voce di Carla:   

 

Carla non lo sapeva che alle piazze

alle case ai palazzi periferici succede

lo stesso che alle scene di teatro: s’innalzano, s’allargano

scompaiono, ma non si sa chi tiri i fili o in ogni caso

non si vede: attraversando da un marciapiede all’altro sono bisce

le rotaie, s’attorcigliano ai tacchi delle scarpe

sfilano le calze all’improvviso – come la remora che in altomare

ferma i bastimenti.

 

Quei bambini sul ponte mentre fanno

una festa dolorosa a un animale c’è il fumo che li assale,

a San Luigi sono i ladri che ci stanno, via Brembo è una fetta di campagna, peggio,

una campagna offesa da detriti, lavori a mezzo, non più verde e non ancora

piattaforma cittadina; meglio il fumo sul ponte che scompare

col merci, via Toscana, piazzale Lodi con un poco

d’alberi e grandi chioschi di benzina, dove fischia un garzone bela tusa

e un altro stona ha fatto più battaglie la mia sottana – uno stornello di Porta Romana –

ma è un uomo sciupato, che porta

un cane a passeggio.

[...]

Pure, dopo il silenzio del verziere

– vedessi che fermento domattina – capita che ritrova la città

i negozi coi vetri luminosi, la folla, il salvagente. Come gli altri

il camminare di Carla riacquista sicurezza e andamento: è milanese come è [periferia

calare per la festa attorno al centro (Ivi: 137).

 

Tra non-luoghi dove ormai convivono in un ibrido spaventoso natura e urbanità, come via Brembo («è una fetta di campagna [...] non più verde e non ancora / piattaforma cittadina») o piazzale Lodi («con un poco / d’alberi e grandi chioschi di benzina») e scorci umani quasi pasoliniani («quei bambini sul ponte mentre fanno / una festa dolorosa a un animale»; «fischia un garzone bela tusa»; «un uomo sciupato, che porta / un cane a passeggio»), Pagliarani restituisce, attraverso il racconto/percorso di uno spazio angoscioso e schiacciante, «una Milano che gioca da anestetico» che rende Carla «incapace di notare le abitudini che di fatto compongono una vita» (Di Veroli, 2015), come annebbiata dal fumo della città, un fumo che «assale», un «fumo sul ponte che scompare».

Un teatro umano e sociale dove gli attori sono mossi da istanze più grandi di loro, radicate in ogni strato della realtà. Una realtà dove tutto sembra mosso dal «ritmo» della città, vicinissimo a quel ritmo che ossessiona Musil nel suo incipit (Musil, 1972: 6–7) de L’uomo senza qualità – che tanto sembra descrivere la Milano di Carla (Gennaro, 2015: 543–556).

Un ritmo che quasi detta i gesti dei protagonisti dei versi, e la stesura stessa dei versi; quel ritmo dell’operosità cittadina che ha in qualche modo ammaliato il poeta da sempre – o, quantomeno, evidentemente inciso sulle questioni formali scelte nella scrittura delle poesie nel periodo milanese: 

A Milano [...] tutte le volte che ci andai fino al ’60, mi sentivo sempre provvisorio, chissà perché. Eppure mi attraeva il suo ritmo, intenso e coordinato [...]. Comunque, direi che Milano ha inciso nettamente sulla mia poesia: non era solo uno sfondo, un paesaggio, c’è entrata dentro a forza, col suo ritmo (Pagliarani, in Ventroni, 2007: 109).

La Ragazza Carla, mediante questa attenzione verso le parti più interne (e ritmiche) della vita cittadina, è un’opera con un intento etico forte e preciso, dotata di «una precisa e costante e quasi implacabile volontà didascalica di accorta, lucidissima derivazione brechtiana» (Raboni, 2005: 207).

Una poesia che vira verso la narrativa perché «la poesia potrebbe anche non esistere, se non fosse che nessun’altra attività linguistica è in grado di far funzionare altrettanto efficacemente le parole non come lemmi ma come atti verbali» (Curi, 2005: 172).

Una scrittura, allora, che si verifica con le «parole di ferro o acciaio» che sembrano le uniche possibili per una storia dove «la “morale della favola” c’è e non c’è al tempo stesso» (Asor Rosa, 2004: 368):

Il miraggio della stabilità, e quindi di un’esistenza più serena, s’infrange contro la brutale realtà di un lavoro routinario e mortificante, in una città che sembra aver perduto la sua dimensione comunitaria. [...] La ragazza Carla è ambientata in una società disumana e perversa; racconta di un mondo in cui il lavoro non nobilita l’uomo, ma lo tiene ben stretto alle catene dell’abitudine e della necessità (Giorgino, 2018: 110–111).

E sono il ferro e l’acciaio a essere protagonisti anche nel «clou emotivo del poemetto», nel secondo capitolo, dove si assiste prima a «un ulteriore controcampo en plein air alla Milano “che sale”» (Cortellessa, 2019: 22) e in cui il cielo, ancora una volta con quell’effetto che potrebbe dirsi un panismo tecno-morfo, diventa «contemporaneo», non soltanto grigio o plumbeo ma connotato di un espressionista «colore di lamiera». E si prolunga, questo cielo, all’infinito, in una parodizzazione romantico-leopardiana, tra le guglie e i grattacieli che fungono da eterotopia per aprire verso un “oltre” intangibile:

 

E questo cielo contemporaneo

in alto, tira su la schiena, in alto ma non tanto

questo cielo colore di lamiera

 

sulla piazza a Sesto a Cinisello alla Bovisa

sopra tutti i tranvieri ai capolinea

 

non prolunga all’infinito

i fianchi le guglie i grattacieli i capannoni Pirelli

coperti di lamiera? (Pagliarani, 2019: 128)

 

E, in chiusura, il brano si dilata, per concludere verso una morale tutt’altro che consolatoria, verso un «orizzonte che si stende oltre il racconto», affatto trascendente, e si è «indotti al rifiuto» dell’«orrore che le giovani vite si acquietino in così misero destino» (Giuliani, 1961: XXXIV), in una Milano dal cielo d’acciaio che in questi versi riassume un nichilismo di fondo.

Città aspra, pragmatica, con un cielo «morale» che «non concede smarrimenti», «che non promette scampo dalla terra», in una versificazione promiscua che crea quasi miracolosamente un ritmo coeso nella commistione di martelliani, endecasillabi, versi brevi «a certificare il battito sordo o rumoroso d’una poesia che testimonia la vita è ancora una volta il suo ritmo» (Gennaro, 2015: 556):

 

È nostro questo cielo d’acciaio che non finge

Eden e non concede smarrimenti,

è nostro ed è morale il cielo

che non promette scampo dalla terra,

proprio perché sulla terra non c’è

scampo da noi nella vita (Pagliarani, 2019: 128).

 

Se Massimo Raffaelli inquadra l’opera come «il Bildungsroman di Carla, necessariamente fallimentare» (Raffaelli, 2017), Vittorini (nel corsivo, non firmato, che accompagna La ragazza Carla sul “Menabò”), la definì una «favola urbana», dove i personaggi sono «creature umane [...] cui il lavoro forzato (da “minatori”), al quale le costringe la città industriale» insegna comunque qualche cosa: esiste un cielo, esiste «una libertà nella miseria, se esiste il coraggio» di non rendere la miseria «necessaria o razionale» (Vittorini, 1960: 169–170).

Quella che c’è nell’opera non è una vera morale, come si diceva poco sopra, ma un’interpretazione della realtà – una realtà dove si possono rivolgere gli occhi al cielo con un «misto di desiderio e risentimento», dato che «per chi lavora in miniera, si capisce, il cielo è un sogno: come la luna per il Ciaula di Pirandello». E dunque «tutti i milanesi sono un po’ minatori», forse: e «il cielo continua a fare problema» (Cortellessa, 2019: 53).

Un poeta come Pagliarani, alla luce di ciò, può e deve inseguire «le voci e le strida della città affluente per poi impaginarle in una vera e propria, stridente e percussiva, polifonia» (Raffaelli, 2017); può e deve attivarsi alla ricerca di «nuovi significati nel contraddittorio spazio del reale» (Testa, 2005: 166), specialmente in una città come questa Milano che, rigorosa e dura, inclusiva solo a patto di aderire al suo status di metropoli maniacalmente produttiva, «non è un fatto spaziale con effetti sociologici, ma è un fatto sociologico che si forma spazialmente» (Simmel, 1963: 531).

Non è un caso, forse, se il poemetto continua ad avere tanti estimatori ancora oggi, tanto che nel 2015 il regista lombardo Alberto Saibene ha realizzato una particolare versione cinematografica dell’opera, alternando immagini di repertorio della Milano del boom a scene girate nell’Italia degli anni Dieci del Duemila, facendo emergere in modo efficace l’attualità di un testo scritto quasi sessanta anni prima.

 

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