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Commemorazione mentale davanti alla salma di Elio

Walter Pedullà

Foto di Fabrizio Di Giulio

Davanti al  corpo esanime di Elio, mentre scorreva il ricordo di qualche suo verso, quasi  una  preghiera  laica,  la  memoria  mi  riproponeva  le  immagini    di  vita  comune: dall’incontro nell’”Avanti!” all’antologia del racconto italiano, dalla Cooperativa Scrittori al Convegno  d’Orvieto  su  scrittura  e  lettura,  dalle  serate  ai  bar  notturni  alle  cene  nella trattoria di Cesaretto, dalle sue letture pubbliche di versi a quelle private di testi, teatrali o poetici.

Elio  soffriva  di  vedere  apprezzato  il  suo  teatro    come  poesia  ma  rifiutato  per  la scena. Opinione diffusa era che fosse  più facile adattargli La ragazza Carla, poema molto parlato dove la più intensa è la voce con la quale urla di giorno e lampeggia di notte la città  di  Milano.  In  altri  termini    il  suo  Block  non  andò  oltre  la  pubblicazione  nel  mio “Illuminista”: dunque una soluzione domestica, che solo di recente ha trovato pace in un volume di Marsilio.

Intanto  con  Lezione  di  fisica  Pagliarani  mi  dava  anche  lezioni  di  politica,  di economia,  di microfisica e d’amore. Mi insognò persino qualcosa di nuovo sulla questione meridionale:  s’erano  fatte  tante  chiacchiere  ma  s’era  sbagliato  il  ritmo.  Come  dire  che andava spezzato il  solito discorso: il linguaggio  propone l’interruzione del vecchio quando non è maturo il nuovo.  Più strumenti a percussione  incitano alla  lotta.

Elio l’ha indirizzata nel verso giusto: la modernizzazione che parla l’inglese dove l’italiano è fiacco  e  inespressivo.  Insomma  l’industria  che  dava  lavoro  ai  contadini  sempre  più disoccupati. Fece in tempo a dubitare della soluzione prima di morire. Io da calabrese resto dalla  parte dell’industrializzazione,  nonché  dell’informatizzazione  e  persino  della globalizzazione, ovviamente “corretta” dal socialismo che ci accomunò per tutta la vita.

Al romano Premio Orient Express Elio cedette all’emozione abbandonandosi a un pianto  liberatorio. I numerosi presenti applaudirono a lungo in piedi il poeta che aveva sfidato l’impopolarità con il linguaggio  che zoppica per vedere il doppio: un solo occhio ma da  due punti di vista,  uno alto e l’altro basso. Il maggiore poeta del secondo Novecento dalla parte della nuova avanguardia era  dunque diventato  popolare. Lo fece anche grazie   a personali interpretazioni  spettacolari, letture come performance  che venivano concluse da ovazioni che nemmeno Gassman, e ora è un classico che le scuole danno da leggere a ragazzi  poco  diversi  da  quelli  cui  impartiva  lezioni  serali  il  poeta  di  Cronache  e  altre poesie.

Elio aveva trionfato su tutte le avversità e su tutti i suoi avversari. Ho assistito alla conversione  di  critici  ostili cui aveva risposto con la più smaccata antipatia  e con la  più solenne  ostilità.  Non  cedeva  a  nessuno,  aspettava  che  i  nemici  gli  corressero  incontro felicemente  vinti  e  convinti.  Con  loro  arrivarono  anche  coloro  che  odiavano  ogni sperimentalismo,  magari  per  collocare  Elio  nella  tradizione  del  nuovo  fuori  di  quella neoavanguardia che ha legittimato a livello artistico ben oltre la modernità della poetica. Il suo fu un modello di comportamento intellettuale e morale: io questo sono, per piacervi non  muto  i  miei  connotati,  non  modero  e  non  attenuo:  nel  mio  scontroso  linguaggio  ci sono  io,  Elio  Pagliarani.  Si  era  data  la  missione  di  portarci  un  suo  personale  elastico messaggio e questo fece, scoprendo la cosa nuova col come che suggerisce più di quanto nomina. Siamo ancora qui a decriptare un testo che esibisce la chiarezza di chi ha svelato la struttura  del  sistema  sociale  omologo  di  quello  artistico,  entrambi  da  rompere  e  così mostrare  la  trama  segreta  che  alla  fine  lui  toccava  con  mano.  In  due  parole  il  realismo dell’avanguardia.

Per  anni    io  c’ero  quasi  sempre  ad  ascoltare  i  frammenti  della  Ballata  di  Rudi, poema infinito che narra la fine della società del benessere, la stessa che io avevo criticato   nella raccolta di articoli e saggi intitolata La letteratura del benessere.  Non ci accomunava solo  una  parola,    bensì  un  significato:  il  pasto  più  abbondante  strappato    dalla  nostra povertà al neocapitalismo  era una polpetta avvelenata.

Nei  dopocena  a  casa  mia  o  dovunque  si  offrisse  da  mangiare  al  cantore  e all’accompagnatore  io  portavo  l’orecchio  e  le  mani:  sono  un  clacqueur  che  sa  cogliere l’attimo. Della voce si faceva carico  invece il poeta col cravattino degli anarchici romagnoli. Si esibiva la solita coppia di mente e braccio, dove io facevo la spalla. Se stimo un artista, io mi  faccio  piccolo  piccolo:  il  critico  in  me  non  si  sente  mai  all’altezza  del  poeta.  Mentre Walter Ong riabilitava l’oralità della poesia, Elio applaudivs Olson: << La poesia va scritta con l’orecchio >>.

Cosa ci metteva Pagliarani nei suoi versi spezzati che strofinava come pietre focaie? Una forte dose di bile e il massimo voltaggio delle pile. Così davano la scossa le particelle atomiche  che  io  conoscevo  perché  mi  aveva  dato  lezione  di  microfisica  Giacomo Debenedetti, il critico che aveva scoperto l’omologia fra storia, psiche, scienza e letteratura. Elio ha messo nell’impresa più fegato di tutti, il suo coraggio era sempre all’attacco, e più elettricità. Due suoi frantumi di frasi inerti, se accostati per montaggio,  fanno scintille che sono illuminazione e incendio. Arrivarono a sciame i premi letterati dopo il “Viareggio”, nella cui giuria c’ero anche io.

Io c’ero pure a Firenze il giorno in cui una giuria di professori della locale Università gli assegnò l’omonimo premio: ero stato incaricato di tenere una lezione sulla sua poesia. L’oratore delegato alle celebrazioni ufficiali del figlio del vetturale di Viserba era  ormai il figlio del sarto di Siderno. Alla Sapienza tenni una “lectio magistralis” in suo onore ma Elio non si emozionò: l’accademia  cominciava a piacergli ma non faceva brillare il suo occhio sano. Nello stesso 1995, dopo che lessi la relazione inaugurale al Convegno dedicatogli dal Ministro dei Beni Culturali nella chiesa sconsacrata di Santa Chiara, era così contento che arrivò a dirmi che ero il suo miglior critico, ma bisogna capirlo: avevo appena finito di dire che lui era uno dei cinque maggiori poeti del secondo Novecento.

[N.d.R.] Un’anticipazione dell’autobiografia di Walter Pedullà di prossima pubblicazione