«Tenere acceso lo sbaglio»: su «Periodo Ipotetico»
Massimiliano Manganelli
Per lasciare il segno, un’esperienza culturale non deve necessariamente protrarsi a lungo; quello che conta è spesso l’intensità del lavoro, non la sua durata. Questo vale soprattutto per le riviste, che sono state in una certa misura consustanziali allo svolgersi dell’avventura culturale del Novecento. E vale ancor più per una rivista come «Periodo Ipotetico», con la sua vita sostanzialmente breve – tutta compresa negli anni Settanta – e un numero di uscite piuttosto ridotto, undici numeri divisi in soli sette fascicoli.
Diciamolo subito: «Periodo Ipotetico» è una rivista post-neoavanguardistica, anzi si può dire che della stagione del Gruppo 63 da un lato raccoglie il testimone, ma dall’altro ne cura, se così si può dire, il testamento. Non a caso nasce dalle ceneri dell’ultima esperienza editoriale del Gruppo 63, «Quindici», esperienza bruciante quanto fondamentale (per la quale vale più che mai quanto si è detto in apertura).
È lo stesso Pagliarani a mettere in relazione la rivista chiusa nel luglio 1969 e la nuova creatura; e per farlo si affida alle pagine dell’organo ufficiale della politica culturale del Partito Comunista, «Rinascita», complice l’«indimenticabile e apertissimo Mario Spinella» (Eco 2005: 30). Annunciando il primo numero di «Periodo Ipotetico», scrive dunque Pagliarani nel giugno del 1970 «in tema di riferimenti, più legittimo, e più modesto come si deve, quello a Quindici, anche per il non secondario motivo che ritroviamo o ritroveremo in Periodo ipotetico la maggior parte dei collaboratori di Quindici: e si cercherà di ampliare e irrobustire quella compresenza di interessi e di linguaggi che era già in Quindici; e si cercheranno di chiarire e/o risolvere alcuni nodi o dubbi oggettivi (cioè aporie) che determinarono l’impasse degli ultimi numeri di Quindici» (Pagliarani 1970a: 20). La chiusura di «Quindici» è una «bella prova di autolesionismo» che la nuova rivista non intende ripetere, perciò l’area della neoavanguardia che andrà ad animare «Periodo Ipotetico» sarà quella meno espressamente politicizzata, quella che intende proseguire il proprio lavoro senza dargli una nuova dimensione politica, «mettendo beninteso a profitto tutte le lezioni, più spesso positive, degli ultimi anni». Non ci sarà dunque l’anima più ideologica e rivoluzionaria, rappresentata in particolare da Balestrini e Sanguineti, bensì altri nomi, tra i quali spiccano, oltre al direttore Pagliarani (che, ricordiamolo, vantava una lunga militanza giornalistica maturata sulle colonne dell’«Avanti!»), quelli di Angelo Guglielmi e di Gianni Celati, il quale rappresenta una parte minoritaria e marginale della neoavanguardia che proprio in quella rivista troverà una delle sue ribalte.
Per quanto concerne la linea politica – impossibile in quel momento storico sottrarsi a una collocazione – occorre ancora una volta leggere le parole di Pagliarani su «Rinascita»: «bisognerà distinguere fra funzione pratico-politica immediata e funzione pratico-politica mediata (e c’è chi gli prende più la prima, chi la seconda), e sono: nel primo caso, fare casino, tenere acceso il dissenso e l’errore, far saltare per aria i codici della comunicazione corrente; nel secondo, tenere in efficienza il linguaggio e i sensi dell’uomo, contro inerzia, abitudini e ogni burocrazia della storia». È evidente che «Periodo Ipotetico» sta dalla parte della funzione pratico-politica mediata, e lo conferma pienamente il testo che apre la storia della rivista, Cultura, borghesia e rivoluzione, firmato dal dissidente cubano Carlos Franqui, in esilio in Italia. L’articolo rigetta l’identificazione – tipica del marxismo di quegli anni – tra cultura e borghesia e rilancia a suo modo il ruolo dell’avanguardia in chiave antiborghese. Ecco dunque la collocazione di «Periodo Ipotetico»: a sinistra, in dialogo con i movimenti politici in corso, ma con un’anima libertaria, senza adesioni ideologiche precostituite, e soprattutto ribadendo l’orgoglio della pratica estetica, perché, ancora secondo le parole di Franqui, «la rivoluzione non è una scienza. È un’opera d’arte, umana e collettiva» (Franqui 1970: 9). L’impronta politica, insomma, traspare anche semplicemente dai titoli e dagli argomenti trattati, nonché, e forse in particolar modo, da quel rosso che campeggia in copertina: quel rosso totale, che a partire dal secondo numero resterà solo nel titolo della rivista su campo bianco, non è soltanto, in un certo senso, il vessillo di Pagliarani, come sa chiunque ne abbia letto i versi, bensì anche, ovviamente, un segnale di natura politica. Siamo in pieni années rouges, come li ha definiti Alain Badiou, a un passo dalle contestazioni studentesche del ’68 e soprattutto dall’autunno caldo, perciò quel rosso, come altre scelte editoriali della rivista, è chiaramente una presa di posizione, la scelta di un campo preciso. A ribadire il valore politico e civile dell’operato della rivista sta il secondo numero, ove si pubblica un documento del Tribunale di Milano, gli Atti relativi alla morte di Pinelli Giuseppe, avvenuta nel dicembre dell’anno precedente. E occorre ricordarlo oggi più che mai, nel momento in cui si celebra il cinquantenario della strage di piazza Fontana se Giuseppe Pinelli è ormai riconosciuto ufficialmente come una sorta di vittima supplementare di quella strage, nel 1970 la pista anarchica era ancora considerata attendibile, per lo meno dai media ufficiali.
L’unicità di «Periodo Ipotetico» è evidenziata anche da un’altra circostanza, peraltro piuttosto spiazzante, ossia dall’assenza di un manifesto programmatico, che all’atto di fondazione di un periodico è in genere un elemento immancabile (a meno che non si consideri tale l’articolo su «Rinascita»). In realtà, a ben guardare, due sono i documenti che, integrandoli, si possono leggere come una sorta di manifesto: quello di Franqui di cui si è detto, se non altro per la sua collocazione in apertura, e l’intervento di Gianni Celati (la cui presenza all’interno della redazione segnala quanto la rivista abbia segnato appunto un passaggio di testimone tra generazioni), quello spietatissimo Liturgia delle riviste, nel quale si nega in sostanza l’idea di linea progettuale, se non addirittura la stessa praticabilità della rivista come spazio culturale. Per comprenderne il tono basterà citarne l’incipit: «La rivista è uno dei più accreditati istituti di salvazione del gregario intellettuale da cento anni a questa parte» (Celati 1970: 14). Eppure, a ben cercare, si rintraccia una minima progettualità positiva: la rivista non è un tempio, bensì una piazza dove si compie «Una liturgia assembleare non basata su convenzioni contrattuali di tipo drammatico»; l’esperimento in atto si configura quindi come «un’ininterrotta citazione di voci non gerarchizzate». E ancora: «Se l’atto di fondazione d’una rivista non coincide con l’esperimento d’una nozione di vita politica, è inutile inneggiare, asserire, bleffare con gli slogans: l’arbitro rivoluzionario come l’arbitro borghese è un insetto che non sorride mai» (Celati 1970: 16). Difficile non vedere in queste parole, in filigrana, il profilo intellettuale di Pagliarani stesso, che della «coerenza fra vivere e operare» (Pagliarani 2011: 308) ha fatto la propria insegna. In ultima analisi il vero motto della rivista potrebbe essere questo: «È il principio di non contraddizione allora il nucleo ideologico di questo tipo di lavoro collettivo, di questa nozione di politica» (Celati 1970: 16).
Il periodico avrà un’articolazione tripartita, corrispondente alla vocazione «di intervento / letteratura / informazione» indicata nel primo numero. La prima sezione si chiama Giornale, ed è quella segnatamente militante, nella quale si leggono gli interventi sull’attualità politico-letteraria, come suggerisce il titolo medesimo. La seconda sezione, Libro, ospita testi poetici e teatrali (l’attenzione al teatro deriva certamente dal mestiere di recensore che lo stesso Pagliarani esercitava negli stessi anni), ma mai narrativi, per lo meno in senso stretto. Proprio in questa sezione è possibile cogliere il progressivo aprirsi della rivista verso orizzonti diversi rispetto a quelli postavanguardistici dei primi anni: sul primo numero c’è Adriano Spatola, sull’ultimo Milo De Angelis, un passaggio che ha quasi il sapore di un’allegoria. La terza sezione, Catalogo, presenta saggi di vario tipo, con un certo interesse verso le vicende di politica estera, dal suicidio più che mai sospetto di Ulrike Meinhof ai movimenti di liberazione di quello che all’epoca si usava chiamare Terzo Mondo.
Ai nomi dei protagonisti della rivista già citati in precedenza è necessario aggiungere quello di Guido Guglielmi, «il più colto e più filologicamente preparato dei tre fratelli Guglielmi» (Pagliarani 2011: 283), il quale, sempre nel primo numero, firma un breve intervento dal sintomatico titolo Letteratura e/o rivoluzione (si tratta di fatto della recensione all’omonimo libro di Enzensberger, Michel e Schneider), che può essere letto, dalla prospettiva benjaminiana di qualità e tendenza, come la rivendicazione del ruolo della letteratura medesima, la quale esercita una «funzione dialettica e negativa, al proprio livello simbolico-comunicativo, quando essa, senza assolutizzarsi, sa intendere il proprio rapporto oggettivo e essenziale con le altre strutture e muoversi nella direzione giusta» (G. Guglielmi 1970: 14). È, in fondo, la giustificazione teorica del lavoro culturale in atto dentro «Periodo Ipotetico», nonché il segno distintivo rispetto ad altre esperienze coeve più o meno derivanti direttamente da «Quindici».
Per parte sua, Pagliarani appare di rado con la propria firma. Nel primo numero sigla un testo dal semplice titolo giornalistico: Pastone, segnato da un tono sarcasticamente militante. Oltre a un commento sulle elezioni regionali del giugno 1970 e qualche battuta caustica sullo Strega assegnato a Guido Piovene – cui Pagliarani non perdona il passato di fascista –, si leggono queste parole, che paiono fare eco all’intervento su «Rinascita»: «noi intendiamo fornire costantemente ragioni e mezzi di demistificazione del nostro stesso lavoro»; «Meglio per noi se non sbagliamo, ma tenere acceso lo sbaglio, qui oggi, è il nostro orgoglio» (Pagliarani 1970b: 50). E sempre nel territorio della politica si muove un altro scritto fondamentale di Pagliarani, che sul numero 6 del giugno 1972 torna a intervenire in prima persona, addirittura in apertura, con quello che non è difficile identificare come un esplicito editoriale del direttore. L’occasione è dettata dalla tragica morte di Giangiacomo Feltrinelli, avvenuta sotto il traliccio di Segrate il 14 marzo di quell’anno. Come di consueto, il tono è lucidamente ruvido: «Ma non pochi continuano a intendere l’azione politica come rivolta al conseguimento della palingenesi, la quale non solo non è mai esistita e non esiste, ma viceversa funziona in negativo, fa da Fata Morgana, abbacina i viandanti, facilita ai fascisti l’esplosione di Segrate; Feltrinelli ci perde la vita; il senso della sua vita assume un rigore una tensione massima; ma rimane autolesionistico e non esemplare» (Pagliarani 1972: 2). Di nuovo l’autolesionismo della sinistra, come nell’articolo su «Rinascita».
Si diceva dei ruoli esercitati dalle varie figure all’interno della rivista. Fino all’anno della fondazione, Celati aveva tenuto un profilo abbastanza marginale, da studioso e traduttore, e sarà proprio «Periodo Ipotetico» a dargli grande spazio. Benché certi temi siano tutt’altro che estranei alla scrittura dello stesso Pagliarani, non si può non ascrivere a Celati, che in quegli stessi anni andava approfondendo l’interpretazione di Bachtin – ancora inedito in Italia – l’insistenza sul comico e sul corpo, che si intensifica a partire dal numero 4-5 (febbraio 1971), con un intervento intitolato Trobadori, giullari, chierici ovvero la tradizione ideologica del riso, per trovare una compiuta concretizzazione nel celebre numero doppio interamente dedicato al comico (8-9, dicembre 1974). Qui è lo stesso Celati a inaugurare la serie di saggi con il fondamentale Dai giganti buffoni alla coscienza infelice, poi raccolto in Finzioni occidentali.
Se dunque si intende rinvenire una poetica condivisa della rivista, occorre cercarla nell’attenzione verso il corpo, il reale oggettivo e basso, ciò che sta al di fuori della letteratura. E a questa battaglia contro l’astratto partecipa, assai attivamente, anche Angelo Guglielmi, il quale già sul numero 2, stroncando Il crematorio di Vienna di Parise, invitava la letteratura al Salto di qualità (questo il titolo), a uscire cioè da sé stessa, a snaturarsi seguendo l’esempio delle arti figurative, a occupare «lo spazio della vita, assolutamente oggettivo, casuale, già dato» (A. Guglielmi 1970: 89). Il discorso di Guglielmi si farà poi più compiuto sul numero 7 (luglio 1973), inasprendosi al punto da toccare anche un autore assai consolidato come Italo Calvino, peraltro a suo tempo interlocutore della neoavanguardia. In una lunga riflessione problematica sulle Città invisibili, Angelo Guglielmi stila una specie di manifesto: «noi abbiamo sostenuto (e sosteniamo) per il momento attuale, dopo la valorizzazione della parola cui è seguita la sua corruzione in frastuono e rumore di fondo, l’esercizio della letteratura come rifiuto della parola, come discorso che sceglie la propria insufficienza lessicale e carenza sintattica, come uso della parola in quanto gesto» (A. Guglielmi 1973: 34).
Riguardo all’idea della parola come gesto, siamo davvero assai prossimi alle posizioni di Celati, il cui romanzo Le avventure di Guizzardi (pubblicato l’anno precedente da Einaudi), viene accolto con grande favore da Angelo Guglielmi, appunto, che indica nell’autore colui che è stato in grado di superare la neoavanguardia (cioè forse il progetto della rivista medesima). Nella storia di «Periodo Ipotetico», il numero 7 funge da cerniera: è qui che si può meglio registrare la compiuta liquidazione della neoavanguardia, ed è sempre qui che comincia il passaggio di testimone tra generazioni poetiche. Sullo stesso numero si pubblicano infatti sia un estratto dalla Ballata di Rudi, quel lungo romanzo in versi che diventerà libro soltanto nel 1996, sia dei versi firmati da Valentino Zeichen: due generazioni diverse a confronto, entrambe proiettate nel futuro. Anche quando non ne condivideva la poetica, Pagliarani era capace di dare spazio ai colleghi più giovani, tenendo così fede alla liturgia assembleare della rivista.
L’ultimo numero della rivista, il 10-11 del 1977, incarna appieno quanto appena detto. Si tratta di un’antologia che dà conto del lavoro sotterraneo compiuto da Pagliarani nel corso di quegli anni, un esercizio di ascolto ininterrotto che non ha riscontro in altre figure autoriali. L’anno precedente lo scrittore aveva avviato un laboratorio di poesia destinato a durare nel tempo e a trasformarsi quasi in leggenda nell’ambiente letterario romano, il cui documento maggiore è appunto quest’ultimo numero di «Periodo Ipotetico».
Nell’introduzione, significativamente intitolata Poesia tra avanguardia e restaurazione, Pagliarani riassume le «cifre stilistiche della restaurazione in letteratura: dal ritorno all’ordine, alla dilatazione dell’io, all’interiore homine, a una stessa nozione di poesia come sostanza interiore». Pagliarani, inoltre, ha pienamente presente l’esaurimento di una fase storica, come si intende dai toni aspramente sconfortati dell’introduzione: «Prevedo un inverno ricco di poesia: praticamente, non ci lasciano altro. […] In ogni modo l’eclissi ideologica (di un modo di intendere e fruire l’ideologia) lascia un certo spazio, permette una qualche attenzione al farsi poetico: approfittiamone, e per quel tanto che il laboratorio di poesia è verifica del linguaggio dunque verifica dell’ideologia, faremo i conti in tasca al nostro prossimo, e prepareremo gli strumenti ben disinfettati per i chirurghi a venire» (Pagliarani 1977: 5). Non c’è consolazione, non c’è rimpianto, c’è solo, ancora una volta, uno sguardo sul futuro.
In conclusione, resta da chiedersi il perché del nome della rivista, dal momento che da nessuna parte, in quegli otto anni di vita irregolare, si trova una spiegazione in merito. Con una buona dose di ironia, si potrebbe leggere in quel titolo la prefigurazione della vita della rivista, che tra il 1970 e il 1977 esce soltanto sette volte, con cadenza irregolarissima (eppure i primi due numeri recavano l’indicazione «mensile»), con una lunga pausa che separa il penultimo numero (dicembre 1974) dall’ultimo (gennaio 1977). Ipotetica, in sostanza, sarebbe la periodicità stessa della rivista. Più seriamente, e più verosimilmente, al nome «Periodo Ipotetico» può darsi fosse attribuita una valenza politica, il rimando a un futuro del quale la prassi redazionale, la dinamica politica e i testi pubblicati avrebbero costituito, ancora una volta, un’anticipazione, la protasi. Da ultimo, un utopistico laboratorio di «progettazione di nuovi significati», secondo l’accezione dell’avanguardia fornita da Pagliarani stesso (Pagliarani 1965: 342).
Bibliografia
Celati Gianni (1970), Liturgia delle riviste, «Periodo Ipotetico», n. 1, pp. 14-16.
Eco Umberto (2005), Prolusione, in Renato Barilli, Fausto Curi, Niva Lorenzini (a cura di), Il Gruppo 63: quarant’anni dopo. Bologna, Pendragon, pp. 20-43.
Franqui Carlos (1970), Cultura, borghesia e rivoluzione, «Periodo Ipotetico», n. 1, pp. 6-9.
Guglielmi Angelo (1970), Il salto di qualità, «Periodo Ipotetico», n. 2-3, pp. 84-89.
Guglielmi Angelo (1973), La vicenda del linguaggio, «Periodo Ipotetico», n. 7, pp. 31-35.
Guglielmi Guido (1970), Letteratura e/o rivoluzione, «Periodo Ipotetico», n. 1, pp. 10-14.
Pagliarani Elio (1965), Per una definizione dell’avanguardia, in Renato Barilli, Angelo Guglielmi (a cura di), Gruppo 63. Critica e teoria, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 338-343.
Pagliarani Elio (1970a), L’ipotesi di «Periodo Ipotetico», «Il Contemporaneo - Rinascita», n. 26, p. 20.
Pagliarani Elio (1970b), Pastone, «Periodo Ipotetico», n. 1, pp. 45-46.
Pagliarani Elio (1972), «Periodo Ipotetico», n. 6, pp. 1-2.
Pagliarani Elio (1977), Poesia tra avanguardia e restaurazione, «Periodo Ipotetico», n. 10-11, pp. 3-6.
Pagliarani Elio (2011), Pro-memoria a Liarosa, Venezia, Marsilio.
N.d.R.
Periodo ipotetico : mensile di intervento/letteratura/informazione, Roma, Ennesse, 1970-1977
in dettaglio: n.1 (senza altra indicazione ma successivo sicuramente al maggio 1970 guardando le pubblicità delle riviste in appendice); n.2-3 , novembre 1970 ; n.4-5 , febbraio 1971 ; n.6 , giugno 1972 ; n.7, luglio 1973 ; n.8-9, dicembre 1974 ; n.10-11, gennaio 1977