Un viaggio negli anni Cinquanta
(tra una casa e un’altra)
Cetta Petrollo
Dopo un lungo silenzio, punteggiato da una ricca attività artistica, e cioè ad oltre vent’anni dalla pubblicazione del primo romanzo, Afàsia (Salerno, Sottotraccia, 1997) Franca Rovigatti pubblica ora La bambina, narrazione di una nascita e di un’educazione nell’Italia alto borghese del secondo dopoguerra.
Possiamo immaginare che i ventidue anni trascorsi siano stati in realtà molto rumorosi, proteggendo una gestazione linguistica e narrativa dalla quale l’autrice è riuscita finalmente a liberarsi attraverso la descrizione, non emozionale, delle dinamiche fattuali e del contesto sociale e famigliare cui attinge la storia, schermo protettivo e risolutivo dell’iniziale lacerazione e dell’afasico (e fantascientifico) nascondimento di sé a se stessa fuori da un vissuto – terra “nebulosa ac frigida” prima mai visitata.
Il corpo, filo conduttore della bulimia della protagonista, protegge la bambina così come la narrazione che scorre senza lettere capitali e senza margini giustificati, quasi a voler sottolineare uno sguardo osservante e ininterrotto sugli episodi di vita di un mondo famigliare vocato al sacrificio materno, dal quale si può fuggire solo attraverso il disturbo psichico, risana la narratrice facendo scoprire, con crudele chiarezza, a lei scrivendo e a noi mentre leggiamo, le fondamenta da cui si originano i mali individuali: la costruzione della formazione del non detto, l’inferriata invisibile ma invalicabile che impedisce la libera
espressione della propria personalità e della propria fame d’amore.
Non si possono non ricordare le parole di David Cooper[1] : “ La famiglia si specializza nello stabilire dei ruoli per i suoi componenti invece di porre le condizioni che consentano loro di assumere una libera identità. Non intendo il termine identità in senso congelato ed essenzialista ma piuttosto nell’accezione liberamente mutevole, indagatrice ma estremamente attiva di essere chi siamo. È caratteristico che in una famiglia venga inculcato nel bambino l’ambito desiderio di diventare un certo tipo di figlio o di figlia( e quindi di marito, moglie, padre o madre) con una totalmente imposta, minuziosamente prescritta “ libertà” di muoversi nell’ambito degli stretti interstizi di una rigida rete di rapporti. Invece della temuta possibilità di agire partendo da un centro di noi stessi liberamente scelto e auto inventato, di essere cioè egocentrici nel senso buono della parola, ci insegnano a sottometterci, oppure a vivere secondo modi eccentrici di stare al mondo”
La famiglia adottiva de La bambina lascia intravvedere il suo sistema di regole non dette ma rigidamente coartanti attraverso la descrizione marginale dei suoi simboli: la pietanza principale dei pasti è la carne, cibo ancora costoso nei primi anni Cinquanta, i vestiti della bimba sono solo di velluto e con colletti di pizzo, la cameriera serve a tavola col grembiule di Sangallo e la crestina, c’è il campanello per gli ordini alla servitù, c’è un autista, ci sono alberghi di lusso, ci sono mobili lucidi, giochi tranquilli, il più approvato di tutti e incentivato è il disegno, adatto alle bambine, al loro starsene buone e sedute, ci sono le preghiere, le confessioni serali e le penitenze, c’è la lavandaia col suo odore di varecchina, c’è, soprattutto, il ben scandito orologio delle giornate e delle incombenze e delle manutenzioni domestiche delle quali non va saltato mai un passaggio né una cerimonia.
Ma i simboli di questa rigida architettura non mancano neanche, per rovesciamento, nella famiglia d’origine dalla quale La bambina è andata via: la mamma suona il violino e abbraccia la figlia per rito e non per sentimento, il papà è distratto e sempre in viaggio, ci sono infermiere, tate, cliniche specializzate, vacanze in montagna e al mare, scuole private. Il disagio psichico della mamma che occupa tutta la famiglia e ne condiziona le scelte, sottolinea la persistenza del modello dal quale si fugge senza superarlo.
Il mondo borghese italiano e le sue ferite, nella controluce di una sofferenza di crescita, vengono così, attraverso questo viaggio domestico, delicatamente, e insieme assai coraggiosamente, esibiti come in pochi altri romanzi (facendo scuola Gli Indifferenti e Agostino) della narrativa italiana contemporanea poco incline a descrivere gli ambienti della classe medio-alta.
Perché ci vuole coraggio a guardare dentro di sé e a dirsi.
Ma ancora più coraggio ad esibire, senza nessuna enfasi narrativa o compiacimento, le proprie faticose radici.
E questo sguardo leggiadramente impietoso che, senza condiscendenza e compiacimento, descrive la storia di una bulimia sociale più che il percorso di una bulimia individuale, dà alla narrazione l’impronta di una sua forte eticità rendendocela corale e necessaria.
Franca Rovigatti, La bambina, Milano, Edizioni del Verri, 2018
[1] David Cooper, La morte della famiglia, Torino, Einaudi,1976, pp.27-28.