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 Nel nosocomio di Rosaria Lo Russo

Roberto Milana

lo russo_nosocomio Questo scenario di sorveglianza e punizione odierna, di II generazione, è osservato anche dalla Lo Russo attraverso un impianto creativo di più classica  distopia, raffigurandolo infatti in un luogo più definito e concentrazionario qual è il suo buffo e atroce nosocomio. Resort nevrastenico come sunto condominiale di una società ospedaliera che diffonde dosi di patologie di comoda sofferenza personalizzando la produzione in serie del disagio. Un fenomeno di parcellizzazione del danno umano che sembra  riflettersi in campo espressivo nella polifonia di quelle voci straniate che ogni tanto si affacciano nel testo a testimoniare il benessere fittizio che li avvolge come tanti Candide svagati di sonnolenza e di ebete dipendenza « Ma hare hare tutti a ballare, al ritmo di tamburi/ che ti sprofondano nell'intestino delle feste, ad-/dirittura con funzione di regolarità intestinale, che pace.».

A volte queste voci si prendono con prepotenza la scena recitando in forma di mantra piccolo borghesi monologhi interiori in odore di autobiografia dove si apprezza appieno il flusso linguistico di un parlato borderline tra la descrizione e il delirio che libera energie semantiche da svariati registri, non ultimo quello della  cronaca italiana ,sociale, politica, nera. La Lorusso sa trattare veri o presunti vissuti con la cura ispirata dello scrittore che pensa anche ignaro alla lettura come corrispondenza ed eco e non sottomissione al cerimoniale letterario «Fa molto freddo qui/ ma meno di quando il mio primo amore/ perdendo luce dagli occhi improvvisamente mi disse/ Non ti amo più», chi non sente Shakespeare qui è sordo.

Per non parlare del vivace soliloquio dell'acqua, nobilitando pubblicità come la Lete con la sua omonimia col fiume dell'oblio, chiaramente indotto nel bel nosocomio e la nazional popolare acqua azzurra acqua chiara, fino agli evocati contesti embrionali con il loro corollario di perse maternità «Se c'è l' acqua, solo se c'è acqua c'è vita e morte e cioè né vita né morte ma ciclo eterno...». Certe discretissime parti lasciano indizi chiari su una probabile  ascendenza governativa delle pratiche illusorie del nosocomio, la metaforizzazione allora si fa più netta e avvilente perché politicamente reale, ovvero la cronaca del ventennio berlusconiano. Anche qua la lunga corrente debordante del linguaggio, questa chiacchiera testarda di filosofia ingenua scioglie l'ovvio naturalismo e mette questo materiale polemico ormai consumato dall'uso tra i tanti altri a dimostrare la comune responsabilità di un paese che si perdona molto facilmente.

Il nosocomio è «Tutto di vetro e di cemento armato e illumi-/ nato al neon ventiquattrore su ventiquat-/tro, lo chiamavano il palazzo di cristallo...», elogio della trasparenza o esposizione implacabile delle devianze addomesticate nelle pratiche igieniche, nelle cure compulsive di corpi tesi verso l'amortalità, ancora una beffa d'ineffabile condivisione le cui patetiche scansioni,  la ginnastica dolce, l'akua pilates , l'ora di yoga ecc segnano la pseudo vita dei degenti, compresa l'onanistica scena di procurarsi orgasmo femminile con l'idrogetto della doccia chiamato Clori, nome letterario  tassesco. «Il genio dei truccatori e degli hair stylist che abbia-/mo assunto nel nostro nosocomio ha sperimentato / con successo la formula dell'amortalità delle/ cellule le creme antirughe e la rapidità da formula/ uno dei pezzi di ricambio e della ricerca sulle sta-/ minali. Sono una placida nullità che parla senza/ sentirsi parlare nell'ora di yoga, come patty pravo/ piena di coca .».

Ma la crisi incombe, il direttore papi si è ritirato a vita privata, un'aria di liquidazione del lusso circola nel nosocomio, accanto si costruisce il dormitorio, un hotel abusivo di dieci piani con monolocali in stile giapponese, praticamente loculi«Refrattari, esterrefatti, vediamo crescere come un/ fungo questo dormitorio...» dove saranno portati coloro che non hanno più i soldi per pagare la retta «Lì nei dieci piani la povertà è legge e il suo sigillo è il buio». In un futuro di cui si sente il fiato, il corpo si riunirà biblicamente all'immaginario consunto dal plagio e sarà la più classica delle schiavitù.

Nell'ultima delle tre sezioni intitolata «Dal dormitorio» la Lo Russo libera le forme perfino tipografiche presentando pezzi  di forte natura prosastica senza perdere d'un palmo ritmo e musicalità. Si snodano una serie di ballate quasi dylaniane nel senso di Bob che stupiscono per la suggestione intellettuale delle biografie anche dannate, come se fossero editoriali poetici sul tema della vasta terra e desolata dell'appena abbandonato nosocomio. Alla fine non sorprende più la chiarezza fluida dei suoi versi. « Ero felice. Ero felice. come tutti quelli che sanno far ridere/ volevo ridere anche io e ora ridevo felice, quindi potevo fare/la sospensione. C'era lei adesso che mi abbracciava tenendo-/ mi stretti l'uno con l'altro i neuroni. Poi vabbe' è andata come/ è andata, come si sapeva che andava.».

Rosaria Lo Russo, Nel Nosocomio, Pavia, Effigie, 2016