In ricordo di Giulia Niccolai - Premio alla carriera Premio Nazionale Elio Pagliarani 2016

 

L’arte del pericolo

Andrea Cortellessa

Presentazione della poetessa all'ed. 2016 del Premio Nazionale Elio Pagliarani

 

In uno dei Nuovi Frisbees che sorvolano ronzanti la gioiosa vecchiaia di Giulia Niccolai si legge: «Come eravamo, / come potevamo essere / pericolosi da giovani, / mine vaganti gli uni / per gli altri, e come / siamo innocui, ora». C’è molto della sua ineguagliabile ironia, in questi pochi versi che tracciano il consuntivo insieme di una stagione remota — l’ultima che poté dirsi a pieno titolo “d’avanguardia”, negli anni Sessanta — ma anche di quella presente — in cui questa parola, «avanguardia», non la si pronuncia più neppure per scherzo.
Il pericolo e l’innocuità. L’azzardo e il ripiegamento. C’è pure, in cifra, la storia di una vita — quella di Giulia — che nella prima metà è stata improntata al viaggio — non so quanto pericoloso, certo avventuroso — fra i continenti, fra le loro lingue, fra le loro parole, fra queste e le immagini. Mentre, nella sua seconda parte, pare aver trovato la pace, geografica quanto spirituale, nella meditazione buddista.
A noi, che la pace invece non abbiamo ancora trovato, il compito di riflettere — tanto su questa innocuità che su quel pericolo. Il «pericolo» non è solo quello, metaforico, di chi si divertiva a pungere, e pungersi, con parole un filo più appuntite della media: se è vero che Giulia ha fatto parte di un cenacolo, quello del Mulino di Bazzano, i cui altri esponenti si sono rivelati «mine vaganti» anzitutto per loro stessi (e che infatti non ci sono più da tanto tempo). Ma i versi citati, lo si diceva, sono un perfetto esempio di quell’ironia che di Giulia è senza dubbio la musa. Ancor oggi, infatti, seppure in modi diversi da quelli di quei tempi pericolosi, il suo linguaggio non rovescia le cose: rovescia se stesso.
Per questo ci è parso opportuno — ricordando gli inizi di Giulia fotografa, e il suo esordio letterario che alla fotografia sin dal titolo è dedicato, Il grande angolo — associare al suo nome quello di un’altra artista di oggi, la fotografa Marina Ballo Charmet, che come lei ci parla di pericoli: anche se sottilissimi, ai limiti dell’impercettibile (dunque i più traditori, a ben vedere). Nella sua serie Con la coda dell’occhio, di una ventina d’anni fa, Marina mette a punto una poetica dello sbordamento e del disassamento, e fissa nelle sue immagini quella che gli psicoanalisti chiamano visione laterale: che percepisce senza accorgersene e i cui oggetti risalgono alla coscienza, dunque, solo après coup. Un po’ come i Frisbees di Giulia: che a volte comprendiamo, a loro volta, con qualche attimo di ritardo.
È in quell’attimo di sospensione che si produce lo spostamento. E che, per quanto microscopicamente, ci si mette — appunto — in una condizione di pericolo. Dove nulla è garantito, stabilito, dato una volta per tutte. Se la geografia fantastica è stata un cavallo di battaglia di Giulia nella prima stagione, essa in effetti percorre tutta la sua opera. Perché, date queste caratteristiche, ogni sua poesia è sempre qui, concretissima nella sua materialità, ma — anche — sempre altrove.
Un filosofo che non si voleva affatto innocuo (e in effetti non si può dire lo sia stato), Friedrich Nietzsche, una volta ha paragonato il pensatore a una freccia scoccata dalla natura, che un altro pensatore raccoglie nel punto in cui è caduta per lanciarla altrove. I Frisbees non sono frecce, poiché il loro scopo non è trafiggere — non materialmente, quanto meno — la persona cui vengono indirizzate; ma funzionano allo stesso modo. Quella di Giulia Niccolai è una poesia che viene lanciata lontano perché qualcuno, da qualche parte, la raccolga; la faccia sua; la rilanci ancora.

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