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Ma quanto ingombra il vecchio secolo
Appunti sulla 58.ma Biennale d’arte di Venezia
La nebbia della Favaretto e non solo
Cetta Petrollo
Si entra nel Padiglione Italia[1], zona espositiva ai Giardini, quasi di fronte all’incombente “Memento mori” di Barca nostra (l’opera che Christoph Büchel ha realizzato col relitto navale eritreo recuperato nel Canale di Sicilia dopo la tragedia, del 18 aprile 2015, dei migranti affogati) in mezzo ad una spessa nebbia artificiale sulla cui natura ci si interroga, data la pioggerella insistente e la presenza, nei pressi, degli addetti alla sicurezza, prima di comprendere che si tratta di un’installazione.
La nebbia sembra essere il simbolo di questa Biennale, sospesa fra l’ingombro del passato, una seconda metà del Novecento rivisitata in moltissime opere, in esibizione di reperti privati, quasi intimi e reperti pubblici, della nostra recente storia sociale, politica ed economica, e il minaccioso avanzare di un futuro nel quale è difficile orientarsi (e prevedere).
È forse per questo che Ralph Rugoff parla di “Interesting times”?[2] Tempi che possono essere vissuti, proprio come accade nella più antica tradizione del viaggio, quella di Ulisse, nella loro incertezza e nelle loro minacce, anzi proprio perché incerti, proprio perché minacciosi, come interessanti?
Dunque non un solo tema intorno al quale comporre quest’ultima esposizione internazionale ma, come dichiara il curatore “La 58.ma Esposizione Internazionale d'Arte […] metterà in evidenza un approccio generale al fare arte e una visione della funzione sociale dell'arte che includa sia il piacere che il pensiero critico. La Mostra si concentrerà sul lavoro di artisti che mettono in discussione le categorie di pensiero esistenti e ci aprono a una nuova lettura di oggetti e immagini, gesti e situazioni […] destreggiandosi “fra modi diversi di interpretare il mondo che ci circonda. Gli artisti il cui pensiero parte da questi presupposti, sanno dare significati alternativi a ciò che prendiamo come dati di fatto, proponendo modi diversi di metterli in relazione tra loro e di contestualizzarli. Il loro lavoro, animato da curiosità sconfinata e intelligenza di spirito, ci spinge a guardare con sospetto a tutte le categorie, i concetti e le soggettività che sono dati per indiscutibili”[3]
Quello che si propone Rugoff, in perfetta aderenza al nostro contemporaneo tempo basato sulla logica relazionale e schivando le seduzioni dell’appiattimento metafisico, è la prosecuzione del concetto di “Opera aperta” di Eco, da lui espressamente citata: l’opera d’arte si espone al confronto e all’incontro con realtà e prospettive diverse, non solo esterne alla sua costruzione ( il “pubblico delle mostre” verrebbe da osservare mimando il titolo del balestriniano “ il pubblico delle poesia”) ma interne alla stessa storia dell’arte, con montaggio e rievocazioni del secolo appena passato e riferimenti alla tradizione più antica.
Le sollecitazioni che, fra eredità tutt’ora incombenti e le nuove coordinate, cognitive, strumentali, relazionali che stiamo attraversando, sono molteplici a partire da quelle che ci offre il bellissimo Padiglione Italia (curatore Milovan Farronato) organizzato dalla Direzione Generale Arte e architettura contemporanee diretto dalla bravissima Federica Galloni.
I tre artisti proposti, Enrico David, Liliana Moro e Chiara Fumai, scomparsa in anni recenti, intrecciano le loro opere nello spiazzante labirinto ideato da Farronato, a tratti indecifrabile come nelle lettere e nei nuovi calligrammi di Fumai rimandanti alla sintassi dialogica di Fb., a tratti consapevole delle radici come nei monconi di calchi in gesso di David a tratti nostalgico sulle note di Bella ciao risuonanti nello spazio dell’installazione Senza fine del bar-rifugio post manifestazione di Liliana Moro e infine perfettamente centrato sul disequilibrio del presente come nelle splendide contraddizioni di Né in cielo né in terra e de La spada nella roccia sempre di Liliana Moro.
Liliana Moro - Senza fine
Liliana Moro - Né in cielo, né in terra | Liliana Moro - La spada nella roccia |
Chiara Fumai – This Last Line Cannot Be Translated
Come spiega Farronato[4] le opere si inseguono nel labirinto perché i linguaggi ingarbugliati sono “una risorsa per comprendere la complessità del reale […] alcune opere necessitano della loro autonomia e di spazio e di vuoto e di ossigeno, e gli è stato dato; altre opere invece si prestano a essere “oggetti in relazione” e anche questo è stato concesso, anzi stimolato”.
Lo stesso equilibrio fra un passato, chiuso, archiviato, spesso occhieggiante come da un guardaroba a porte socchiuse - come ad esempio negli scaffali pieni di vecchiaie di modernariato della Favaretto (Thinking head) ai Giardini o nell’installazione Old food dello statunitense Ed Atkins o negli scalpi del passato di Jamie Cameron (Smiling Disease), nell’inquietante natura morta disseminata di teschi animali di Jimmie Durham - Leone d’Oro alla carriera - o nella casa di bambola ingombra di masserizie e mobilia novecentesca di Kaari Upson all’Arsenale o alle incompiute archeologie industriali dell’artista Natascha Süder Happelmann nello stupendo padiglione della Germania ai Giardini - e un presente che prorompe nella propria indecifrabilità in bilico fra dissacrazione comica e la presa d’atto di una realtà violenta - come in Can’t help myself di Sun Yuan e Peng Yu o nella indicibilità dei moderni, splendidi, Prigioni di Maria Loboda (Lord of abbandoned success) sempre all’Arsenale - costituisce il sottaciuto tema espositivo di questa Biennale (ben sintetizzato e rappresentato nelle opere di Gabriel Rico).
Lara Favaretto - Thinking head | Ed Atkins – Old food |
Jamie Cameron - Smiling Disease | Jimmie Durham |
Kaari Upson – There is no such Thing as outside
La poltrona water di Can’t help myself, che si autoschiaffeggia e fustiga a tempo con un getto d’acqua ingabbiato nella recinzione di vetro blindato che sembra sul punto di rompersi, propone una violenza indicibile e grottesca suscitando risate simili a smorfie di paura (“tempi interessanti” nelle nuove forme dell’orrore tecnologico?) mentre il nuovo umanesimo di Maria Loboda fatica nel liberare dalla materia senso e significato: una natura anch’essa indicibile che tenta di emergere dalle pietre e che si presenta nella fatica incompiuta della nascita.
Natascha Süder Happelmann | Maria Loboda - Lord of abbandoned success |
Gli esiti della nostra storia recente descrivono in qualche caso un’umanità disperata come nelle installazione di Alexandra Bircken (Excalation, Incubo, Little girl) dove una serie di manichini neri impiccati su un’architettura di tubi rievocano recenti e antichi massacri, in una perdita complessiva di fiducia verso le istituzioni democratiche come nel bellissimo video Assembly di Angelica Mesiti nel padiglione australiano nel quale nessun intervento artistico umano riesce a riempire spazi desolatamente vuoti ed insensati, oppure vengono, in modo esemplare, ripercorsi e riattraversati attraverso l’eccezionale personale riassuntiva dell’artista Stanislav Kolíbal nella quale, in un percorso di narrazione disarticolata che va dagli anni Sessanta ai giorni nostri, percepiamo in modo potente e come in una corale cifratura le esperienze storico politiche di tutto un Paese.
Alexandra Bircken - Excalation | Angelica Mesiti - Assembly |
Stanislav Kolíbal | Stanislav Kolíbal |
Il presente disancorato si impone e dialoga con noi in nuove sintassi in quelle che mi sembrano essere le opere più significative dell’esposizione, quelle del giapponese Ryoji Ikeda (Data-Verse) e del cinese Ian Cheng (Bob).
Data-Verse crea immagini e suoni utilizzando e facendo agire i dati delle colonne della ricerca scientifica come, ad esempio, il Cern e la Nasa.
Ryoji Ikeda - Data-Verse | Ian Cheng - Bob |
Bob si trasforma e cambia dimensione, struttura e movimento ad ogni passo dei suoi visitatori, in una continuità creativa che l’artista e il suo pubblico non riusciranno mai a controllare ma solo ad avviare.
Qui siamo al di là della stessa nozione di “opera aperta”, citata da Ralph Rugoff nella sua dichiarazione introduttiva, intelligenza artificiale e intelligenza umana interagiscono, basi dati e meta dati dialogano e mutano a seconda del momento e delle evenienze: al di là della nozione stessa di fisicità e di installazione concretamente alloggiata in un tempo e in un luogo, queste opere aprono indubbiamente la nuova prospettiva del nostro, da appena un ventennio iniziato, umanesimo digitale.
[1] https://www.labiennale.org/it/architettura/2018/partecipazioni-nazionali/italia
[2] https://www.labiennale.org/it/arte/2019/intervento-di-ralph-rugoff
[3] https://www.labiennale.org/it/arte/2019/intervento-di-ralph-rugoff
[4] https://www.rivistastudio.com/milovan-farronato-biennale/